Roma 24 marzo 1944: Eccidio delle Fosse Ardeatine

  
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Roma. Uscendo dalla Porta di San Sebastiano si trova, dopo circa un chilometro, la Via Ardeatina che presenta alcune vecchie cave di pozzolana, chiamate “fosse”, costituite da numerose gallerie lunghe da 50 a 100 metri, ampie circa tre metri ed alte fino a sei metri. Le gallerie si intersecano una con l’altra e si trovano sul piano stradale. Il 24 marzo 1944 questi cunicoli furono il teatro di uno dei più efferati eccidi perpetrati dai Tedeschi.

Il giorno precedente 17 partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) guidati da Rosario Bentivegna fecero esplodere un ordigno in Via Rasella, a Roma, proprio mentre passava un reparto tedesco composto per la maggior parte da militari di lingua tedesca provenienti dalla zona del Sud Tirolo. Nell’attentato ventotto soldati morirono immediatamente; altri 5 nei giorni seguenti, vi furono anche due vittime civili: il tredicenne Piero Zuccheretti ed un partigiano. La stessa sera, il Comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza tedeschi a Roma, tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme al comandante delle Forze Armate della Wermacht di stanza nella capitale, Generale Kurt Mälzer, proposero che l’azione di rappresaglia consistesse nella fucilazione di dieci italiani per ogni poliziotto ucciso nell’azione partigiana, e suggerirono inoltre che le vittime venissero selezionate tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni gestite dai Servizi di Sicurezza e dai Servizi Segreti. Il colonnello Kappler, consapevole che nelle prigioni di via Tasso e di Regina Coeli non disponeva di un così alto numero di prigionieri, decise di richiedere la collaborazione del questore Caruso e di inserire nell’elenco anche i 57 ebrei imprigionati in attesa di essere deportati. Nella corso della notte Kapples inserì tra i condannati Aldo Finzi, ebreo con un importante passato di amicizia e collaborazione con Mussolini, il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, capo del Fronte militare clandestino e altri 37 militari italiani e don Pietro Pappagallo.

I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le mani legate dietro la schiena. Già prima di raggiungere il luogo dell’esecuzione, Priebke e Hass avevano deciso di non utilizzare il metodo tradizionale del plotone di esecuzione; invece, agli agenti incaricati dell’eccidio venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di spararle da distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni. Gli ufficiali della polizia tedesca portarono quindi i prigionieri all’interno delle fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque e a inginocchiarsi, uccidendoli poi uno a uno con un colpo alla nuca. Mentre il massacro continuava, i militari tedeschi cominciarono a obbligare le vittime a inginocchiarsi sopra i cadaveri di quelli che erano già stati uccisi per non sprecare spazio. Durante l’esecuzione aveva accuratamente controllato la lista, procedendo alla verifica del numero delle vittime; al termine dell’eccidio rilevò che erano presenti, a causa della confusione dell’azione finale di rastrellamento dei condannati a morte, cinque uomini in più del numero previsto di 330. Kappler decise di procedere all’eliminazione anche di questi ostaggi in più con la motivazione che fosse inevitabile ucciderli perché “avevano visto tutto”.

Quando il massacro ebbe termine, Priebke e Hass ordinarono ai militari del genio di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo, uccidendo così chiunque fosse riuscito per caso a sopravvivere e seppellendo allo stesso tempo i cadaveri.

 

L’Istituto del Nastro Azzurro ha onorato le 335 vittime dell’eccidio con la deposizione di una corona di alloro all’apertuta dell’ultimo Congresso Nazionale e domani sarà presente alla celebrazione ufficiale con il proprio Labaro Nazionale.