Amedeo Serloni

  

La ricerca della storia, dei suoi protagonisti, delle piccole pagine di vita locale, la microstoria insomma, è sempre più importante per capire i grandi avvenimenti, per sentire più vicina una storia che altrimenti sarebbe solo un libro, un fiume di parole che molto spesso non sentiamo nostre. Molti cittadini non conoscono neanche la collocazione temporale dei grandi eventi che hanno sconvolto il mondo, neppure quelli più vicini o quelli che hanno potuto ascoltare dalla viva voce dei protagonisti, figurarsi le storie dei militari italiani che dopo l’8 settembre scelsero di proseguire la lotta affiancando quelle popolazioni che fino a pochi giorni prima dovevano sottomettere e conquistare. Nell’arco di 75 anni molti piccoli – grandi protagonisti di quelle vicende sono caduti nell’oblio o peggio ancora sono stati nascosti perché poco funzionali allo scontro tra i due blocchi durante la Guerra Fredda. Molti militari, divenuti partigiani per necessità e convinzione da quell’autunno del ’43, risultarono dispersi a fine guerra o sepolti in cimiteri locali nei paesini del fronte jugoslavo, quello di cui tratterò in particolare in questo breve articolo, tanto che persino le famiglie sono, tutt’ora, ignari delle sorti dei propri cari. Ne sono esempi due concittadini di Osimo (AN) i cui nomi sono incisi sul marmo del monumento dedicato alla Resistenza ma di cui non si conoscevano praticamente i fronti sul quale combatterono né perirono perché la tradizione locale li voleva “morti in Jugoslavia, uno aiuto cuoco della brigata Mameli, l’altro morto in combattimento forse in Montenegro”: solamente andando a sfogliare il loro fascicolo all’Archivio centrale dello Stato, sezione Commissione per l’attribuzione della qualifica di partigiano, siamo stati in grado, un paio di mesi fa, di ricostruire le loro vite e soprattutto gli scontri dove trovarono la morte. Questa è la storia del Serg. Gino Marini e del Caporale MBVM Amedeo Serloni. Per il Serloni in particolare l’ostacolo maggiore era dettato dall’individuazione in quella che nella motivazione della decorazione viene indicata come “Quota Pogliana (Ju)” e che non trovava riscontro in nessun testo di storia militare.

Gino Marini, classe 1919, inviato sul fronte di guerra nel 1940, aggregato alle truppe del presidio di Zara con il battaglione mitraglieri “Cadorna”, per oltre 70 anni è stato semplicemente un disperso in Jugoslavia. Ora siamo in grado di raccontare la sua storia, così come testimoniata da un commilitone, Attilio Mancinelli di Ancona, nel 1949, davanti alla Tenenza di Osimo. Racconta il Mancinelli che conobbe Gino Marini, appartenente ad una Compagnia Mortai di stanza a Kistanje, il 9 settembre 1943 in procinto di imbarcarsi a Zara per far ritorno in Italia insieme a gran parte del suo reparto: quell’imbarco tuttavia non avvenne mai perché il sopraggiungere di truppe tedesche interruppe le operazioni facendo prigionieri una gran parte dei militari italiani. Marini e Mancinelli riuscirono a fuggire e, nei dintorni di Zara, furono avvicinati da alcuni partigiani slavi del battaglione Dubajo: inizialmente promisero loro di aiutarli a rimpatriare ma dopo una quindicina di giorni i due decisero invece di unirsi a quel battaglione. Dopo circa un mese Marini e Mancinelli entrarono a far parte della 1° Batteria di Artiglieria della 2° Divisione dell’EPLJ e furono sottoposti ad un corso da parte degli slavi stessi a Varkowine. Ultimato questo, venne loro consegnato un pezzo d’artiglieria da 117 e furono inviati a Senj per compiere azioni contro le imbarcazioni tedesche che compivano il tragitto tra Fiume e Karlopag finché le forze preponderanti dei nemici costrinse loro a ritirarsi dopo circa tre mesi di attività; furono quindi inviati verso il confine italiano, dove avvenne la scissione tra gli elementi italiani e slavi del battaglione. Dopo sei mesi passati a far parte di una compagnia di lavoratori addetta alla manutenzione di una strada carrozzabile, decisero di aggregarsi alla 1° Compagnia Rovignonese di partigiani italiani, il cui compito era quello di sabotare e intralciare il passaggio tedesco per ferrovia e strada. Il 29 luglio 1944, verso le ore 17, ben nascosti dietro dei cumuli di pietre, il gruppo di cui facevano parte i nostri due, attaccò una colonna motorizzata tedesca. Lo scontro a fuoco durò circa 15 minuti e, nel tentativo da parte del gruppo di 20 partigiani di ritirarsi, Gino Marini fu colpito da un proiettile alla gola che lo uccise sul colpo. Mentre continuava la ritirata, tre compagni rimasero sul posto per dare una sommaria sepoltura all’osimano, a cui, da un paio di mesi, era stata attribuita la qualifica di sergente. Tre ore più tardi, con la certezza che i tedeschi avessero fatto ritorno a Pola dopo aver effettuato un rastrellamento nella zona, la pattuglia partigiana tornò a raccogliere la salma del loro unico compagno morto in quell’azione per seppellirla nel cimitero di una piccola cittadina tra Vignano e Kanfanar.

Il caporale Amedeo Serloni invece, classe 1916, manovale, fu trasferito al plotone comando del 449° sottosettore A della Guardia alla Frontiera nel territorio di guerra jugoslavo nel 1942 e, come riporta il suo foglio matricolare, si sbandò in seguito agli eventi dell’8 settembre 1943 in territorio extrametropolitano. Non sappiamo tuttavia cosa fece dall’8 settembre ’43 all’ottobre ’44 poiché fu dichiarato disperso già dalla metà dell’agosto ’43 e il suo nome non risulterà né tra i dispersi né tra i prigionieri di guerra. Le poche notizie in nostro possesso ne segnalano nuovamente la presenza dal 30 ottobre 1944 quando si presenterà al comando della Divisione Italia, formazione che si era costituita il giorno precedente. Fu infatti concordato con l’EPLJ di riunire tutti i combattenti italiani, sparsi nei vari reparti, sotto un’unica divisione. La Divisione Italia contava quattro battaglioni, tra cui il Mameli di cui fece parte Serloni: la divisione aveva sede nella periferia di Belgrado e sappiamo che i vari battaglioni rimasero nei dintorni della capitale fino a metà novembre per addestramenti e per rinvigorire lo spirito di unità. Iniziò poi una marcia di oltre 150 km per avvicinarsi al fronte di guerra dello Srem (una regione a confine tra Serbia e Croazia; sfondato questo fronte solamente nell’aprile 1945, l’esercito popolare jugoslavo poté liberare Zagabria): il Mameli si attestò a Quota 190 nei pressi di Lezimir. Domenica 3 dicembre, con il supporto della V e VIII bgt montenegrina, iniziò lo scontro aperto con la Wermacht, ma solamente in tarda serata si riuscirono a conquistare le posizioni nemiche. Il giorno seguente anche il Mameli si pose in prima linea e, dopo un duro scontro sul settore destro, occupò le posizioni nemiche, inseguendolo fino ai dintorni di Ljuba: il tributo pagato dagli italiani fu di 13 uomini caduti sul campo, tra cui, molto probabilmente, ci fu anche Amedeo Serloni. Da alcuni informative firmate dal Comandante Giuseppe Maras  e fatte pervenire alla famiglia tramite il Comune di Osimo risulta infatti ferito e ricoverato presso un ospedale militare jugoslavo (verosimilmente quello di Pistinac). Questa ricostruzione è stata possibile integrando il testo “Canta canta burdel” di Ovidio Gardini della Brigata Italia, che contiene stralci del diario della Divisione Garibaldi, con la motivazione della decorazione attribuita a Ettore Ramires nella medesima azione in cui crediamo sia caduto il Serloni. Quello che è certo è che per il suo valore dimostrato sul campo (a questo punto possiamo affermare quasi con esattezza in quest’azione di sfondamento per la liberazione di Ljuba, Sot, Sid e via via tutte le altre), il Serloni fu decorato con l’Ordine al Valore jugoslavo e la Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Questa la motivazione: “Alla testa del proprio reparto, dopo aver conquistato di slancio una munita posizione nemica, non pago del successo ottenuto, si portava arditamente all’inseguimento dell’avversario, finché, colpito gravemente si abbatteva incitando ancora i propri uomini all’azione. – Quota Pogliana, 4 dicembre 1944”.

Speriamo con queste righe di aver ridato dignità a due combattenti per la libertà dei popoli affinché il tempo non cancelli nuovamente le loro storie, certi che il loro nome risuoni ora, assieme agli altri partigiani, con più convinzione, durante ogni celebrazione che festeggia e ricorda quella straordinaria pagina di riscatto nazionale che è stata la Lotta di Liberazione dal nazifascismo. Un comune sentimento, un comune tributo di sangue lega partigiani jugoslavi e italiani: superare il rancore per l’occupazione di quelle terre, l’esser stati prigionieri gli uni degli altri, tutto fu accantonato per combattere il comune nemico e ristabilire la libertà per le terre balcaniche e italiane. Se molti militari decisero infatti di collaborare con l’Esercito popolare di Liberazione jugoslavo è altrettanto fondamentale il contributo fornito dai militari slavi che, scappati o liberati dai numerosi campi d’internamento sul territorio nazionale, si unirono alle formazioni partigiane locali dando vita ad uno straordinario esempio di convivenza tra persone di diverse etnie. L’esempio più prossimo nelle Marche è dato dal carattere internazionale della Banda Mario operante alle pendici del Monte San Vicino e in particolare nella zona di San Severino Marche: una formazione partigiana composta anche da montenegrini, croati, sloveni, etiopi, eritrei, somali, ebrei, britannici.

In anteprima: Foto di Amedeo Serloni dal sito Anpiosimo.it