Appunti di un viaggio on the road
di Giovanni Cecini
Il viaggio dai tempi di Ulisse e Marco Polo ha sempre spinto l’uomo alla ricerca dell’ignoto, del diverso, ma anche di quel minimo comune denominatore che l’individuo riesce a percepire come simile a se stesso e al suo mondo, tanto da identificarlo come proprio. Il sempre verde sogno di approdare su nuovi e lontani lidi, l’ebbrezza della partenza e del ritorno rimangono elementi fissi, se non senza eccezione identici del vecchio o del nuovo pellegrino, che in autostop, in bicicletta, in nave, in treno, in auto o in aereo gira il mondo con una meta precisa oppure da valutar per l’occasione cammin facendo.
Ecco quindi che le motivazioni, come la genesi e l’evolversi di un viaggio possono cambiare e trovare nuovi ispirazioni anche tra gli stessi partecipanti al medesimo itinerario.
Quello che mi accingo a raccontare probabilmente è un viaggio come tanti, che trova il suo svolgimento tra l’altro in un paese come gli Stati Uniti, che da alcuni anni a questa parte è sempre più gettonato, per viaggi di nozze, gite sociali o in modo più classico per piccoli gruppi alla ricerca del mitico clima on the road, che le major hollywoodiane hanno proposto ormai in salse e tonalità diverse da «Duel» a «Thelma & Louise».
Il mio gruppo, composto da quattro persone, sin da principio voleva spingersi un po’ all’avventura, anche perché per quasi tutti l’impatto con il continente nordamericano era già avvenuto in precedenza. Tuttavia il programma si è andato formando con velocità, fissando nella prima metà di ottobre l’arco temporale dell’itinerario, stabilendo e prenotando anche con esuberanza di zelo e con grosso anticipo tutte le tappe e molte delle attività che si sarebbero dovute svolgere. Un semplice ritardo o imprevisto avrebbe quasi rovinato il tutto; per fortuna, benché come normale qualche imprevisto può capitare, il viaggio è proseguito nel migliore dei modi.
La prima tappa è stata la città di Chicago, oggi meglio nota come la patria di Barack Obama. Proprio in quei giorni essa si contendeva, insieme ad altre agguerrite località, la designazione per le Olimpiadi del 2016. Purtroppo per i sostenitori a stelle e strisce, la candidata sul podio è stata Rio de Janeiro, ma il clima di euforia non si è spento in questo modo, anche perché la città che si affaccia sul lago Michigan risulta piena di vita e il suo eclettismo ha radici lontane.
Sorta come città di frontiera, divenuta centro urbano di riferimento per la zona, come araba fenice rinacque dalle ceneri di un terribile incendio che nel 1871 ne segnò profondamente la struttura edilizia. La catastrofe divenne un’opportunità: la comunità cittadina seppe investire sull’innovazione e sulla fantasia, tanto da divenire la patria dei grattacieli. Oggi Chicago è di sicuro battuta da New York o dalla recente fioritura orientale, tuttavia gli storici imponenti edifici, che si ergono tra le nuvole dell’Illinois, mostrano ancora il loro smalto.
Per questi motivi è stato d’obbligo salire almeno sulle cime dei due grattacieli principali: la Sears Tower e il John Hancock Center. Il primo, che fu tra gli anni ’70 e gli anni ’90 l’edificio più alto del mondo, ancora oggi rapisce per le sue impressionanti balconate trasparenti, che ad oltre 400 metri di altezza danno ai temerari visitatori l’impressione di camminare nel “nulla”. Il John Hancock, seppur più modesto per altezza, colpisce per la vista mozzafiato del lago dal suo ristorante panoramico al 95° piano.
Altre attrazioni della città sono stati il molo dove è possibile fare un giro in battello, magari nelle sere del finesettimana quando il cielo si illumina di colorati fuochi d’artificio, o il Millenium Park, caratteristico per le imponenti fontane che proiettano immagini oltre che acqua e per il “Fagiolo”. Questa enorme scultura argentata trova la sua fortuna nelle caratteristiche di specchio della superficie. In essa si riflettono in modo alquanto buffo e parzialmente distorto non solo le persone, che vi si avvicinano, ma anche l’imponenza degli edifici e della vegetazione circostante.
A conclusione della visita cittadina, si può menzionare il curioso giro organizzato in bicicletta per le strade urbane con un eccentrico capogruppo dai modi insoliti e giocherelloni. Folkloristici gli addobbi di Halloween sulle case e nei negozi, come la vendita di confezioni giganti di ghiottonerie già ai primi di ottobre, sintomo della popolarità di questa festa, che da alcuni anni cerca di inserirsi nel calendario italiano, senza sapere che in realtà discende da tradizioni pre-cristiane, assimilate nel Medio Evo dalla Chiesa, di cui ancora oggi si trova traccia nel Mezzogiorno italiano.
Partiti in auto da Chicago la strada ci porta verso ovest. La nostra destinazione è il Monte Rushmore, ma prima di arrivarvi il percorso è lungo tanto da superare il Wisconsin, il Minnesota ed entrare nel Dakota del Sud. Qui ci fermiamo prima a Sioux Falls e poi a Rapid City. Queste città sono tipici agglomerati provinciali, dove la gente è molto espansiva e cordiale (come del resto in tutti gli Stati Uniti), purché si rispetti la pronuncia esatta delle parole in inglese. Anche una lieve inflessione comporta la non comprensione da parte dei nostri interlocutori di ciò che diciamo e questo ci stupisce non poco, perché quando una volta che riusciamo a farci capire e veniamo corretti con la pronuncia esatta, diciamo tra noi: «E io che ho detto?»
A parte queste curiosità linguistiche, la cosa che viene apprezzata di più, soprattutto dopo una lunga giornata di viaggio, è sedersi di fronte a un buon piatto di saporita carne, magari accompagnata dai tipici anelli di cipolla fritti o da altri contorni molto diffusi come il chili. La cucina americana, conosciuta oltreoceano prevalentemente per gli ormai invasivi fast food, sa offrire in realtà una varietà di piatti prelibati e se di sicuro ipercalorici, senz’altro appetibili per tutti i gusti. Notevole anche il folkloristico arredamento di molti locali che passano da un ambiente classico a quello più tipico “western” o a quello d’ispirazione anni ’50 con cartelloni pubblicitari metallici e pompe di benzina in disuso tra i tavoli.
L’arrivo al Monte Rushmore, luogo in cui sono scolpiti nella roccia i volti dei quattro presidenti della Repubblica più rappresentativi della storia statunitense fino al primo dopoguerra, non è stato dei migliori. Una fitta nebbia impediva la vista della montagna e un principio di nevischio non prometteva nulla di buono. Tristi e sconsolati abbiamo ripiegato sul “Crazy Horse Memorial”, altra imponente scultura nella roccia, ancora incompiuta, che una volta completata rappresenterà il capo indiano dei Sioux “Cavallo Pazzo” sopra al suo destriero. Questo progetto, che prevede un’altezza e una larghezza di poco meno di 200 metri, è la risposta dei nativi americani alla provocazione “bianca” di scolpire nella pietra sacra della terra indiana le effigie dei principali colonizzatori del continente nord americano.
Il giorno successivo, intenzionati a riprovare a vedere il Monte Rushmore, ci siamo svegliati in mezzo alla neve, esperienza esilarante, ma dai risvolti pratici preoccupanti, trovandoci in una zona dove le strade innevate, per quanto ripulite in modo rapido, rappresentano comunque un’incognita. L’alzataccia nel freddo secco delle Black Hills è stata tuttavia ben ripagata: la visita delle effigie dei presidenti in mezzo alla neve, esperienza più unica che rara, tra l’altro in un momento della giornata con un numero irrisorio di turisti. Ecco quindi in un’insolita cornice pre-invernale una versione ancora più bianca di George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln.
Non potendo fare un giro per le incantate strade panoramiche delle Black Hills, per via della neve, ci dirigiamo nei pressi della Devil’s Tower, una massiccia formazione vulcanica che svetta tra la prateria e spesso è pervasa da una tenebrosa nebbia.
Continuando nel nostro percorso attraverso la grande pianura americana ci imbattiamo sull’autostrada in un mirabile avvistamento. Nel bel mezzo della carreggiata sopra due tir neanche troppo protetti viaggiavano le due metà di una casa, in un incredibile trasloco immobiliare. La visione è stata accolta con profonda ilarità, ulteriore esempio dell’abbondanza e della ricerca dell’eccesso presenti negli Stati Uniti. Se le autostrade possono arrivare a 6 corsie per senso di marcia, se le bottiglie delle bibite possono essere di 1 gallone (circa 4 litri) al supermercato, se i pacchi di caramelle e cioccolate arrivano normalmente sopra al kilo, non è neppure difficile immaginare che il trasporto di un intero appartamento sia cosa normale da queste parti.
In serata si arriva a Cody in Wyoming, piccolo centro dove non è difficile distinguere il clima di un tempo con le tipiche palazzine basse di legno dal sapore western. Non a caso essa è patria di Buffalo Bill, di cui si va notevole vanto con l’organizzazione di acclamati rodei. E’ tuttavia da precisare che negli Stati Uniti molti elementi sono posticci e per un europeo anche troppo kitsch, ma alcuni elementi di ricostruzione storica non vanno sottovalutati, anche se la storia americana (nell’accezione di quella dei figli dei coloni venuti d’oltreoceano) non può vantare la tradizione e la cultura espressi in millenni da altri popoli.
Da Cody, dove la specialità tipica è la carne di bufalo, si entra a Yellowstone, forse il parco nazionale più famoso nel mondo. La neve rende tutto più caratteristico, anche se le acque cristalline dei suoi laghetti e fiumi, le pareti gialle del suo canyon (che danno il nome alla zona), il borbottio delle solfatare ribollenti, la potenza dei geyser che spingono il loro getto anche a decine di metri sono tutti elementi affascinanti in ogni stagione dell’anno. Elemento non comune è tuttavia la poca affluenza che in questo periodo il parco attrae, rispetto ai mesi estivi, dove un po’ in tutti i parchi c’è molta più calca.
Il territorio di Yellowstone è molto ampio e anche per via si alcune strade chiuse, per forza di cose i percorsi sono molto più dilatati, ma da un certo punto di vista ciò permette di godere di scorci sempre più insoliti anche nel percorrere la medesima strada in entrambi i sensi di marcia all’andata e al ritorno. A dispetto del previsto non si rintracciano orsi, probabilmente già in letargo o comunque poco propensi a incrociare le strade asfaltate, anche per la frequente moria dovuta alla non sempre moderata velocità delle auto. In compenso sono molti i cerbiatti, le alci e i bufali che si avvicinano al manto stradale, per la buona pace dei turisti che non di rado si fermano per scattare fotografie, con relativi rimbrotti dei ranger a causa dell’inevitabile intralcio del traffico.
Passiamo la notte in un albergo nel parco, prenotato da mesi vista la scarsezza di alloggi all’interno di queste riserve naturali. Il freddo è ancora più pungente dei giorni passati. Il termometro arriva anche a otto gradi sotto lo zero e facciamo tesoro di tutto il nostro armamentario invernale per attenuare i morsi del gelo.
Lasciato Yellowstone ci si dirige verso sud, attraverso il parco Teton, che nella sostanza è il proseguimento naturale del parco precedente. Si stagliano montagne massicce e dal sapore alpestre, tanto da imbatterci sulla strada proprio in un paesello dal nome indicativo: Alpine. Fattasi ora di pranzo ci fermiamo in un piccolo locale che prepara hamburger. La sistemazione è molto familiare; infatti il cuoco con tanto di cappello da cowboy in testa, uscendo da dietro il bancone, intrattiene piacevoli conversazioni con gli avventori. I panini preparati sono ottimi, molto ricchi (la loro altezza ci è apparsa imbarazzante, tanto da fare difficoltà ad afferrarli) e veramente saporiti. Non a caso lo slogan del ristoro recita: «Gli hamburger che hanno fatto l’America».
Proseguendo il cammino, entrando nello Stato dello Utah, si arriva nella sua capitale Salt Lake City. La città, che prende il nome dal lago salato omonimo, è un centro dalla vivace storia culturale e civile. Fiorita alla metà dell’Ottocento ad opera dei perseguitati mormoni, divenne il loro centro spirituale, rappresentato dall’imponente Tempio. Arrivati in serata e come quasi unica attrazione della città, ci dirigiamo verso di esso. Qui, presso il centro di accoglienza, veniamo ricevuti da alcuni credenti, molto disponibili (che parlano anche in italiano) nell’introdurre il turista e il curioso alla storia e alla fede della «Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni». In effetti il loro racconto ha molto di epico, ripercorrendo in parte quel cammino affrontato da molti temerari in cerca di fortuna o sopravvivenza verso il lontano Occidente del continente.
Per quando fossimo già stati abituati alla diffusa cordialità delle persone incontrate, i “mormoni” rappresentano una gradita ulteriore sorpresa. Probabilmente per una particolare propensione al proselitismo o più semplicemente per una pura vocazione alla filantropia, gli aderenti a questa confessione religiosa – come ci spiegano le due missionarie “laiche” che ci accompagnano nella visita – offrono alcuni anni della loro vita al servizio della Chiesa, per tornare al termine di questo periodo alla vita quotidiana. In questo modo la comunità non ha bisogno di un clero come è comune nelle altre istituzioni religiose e allo stesso modo la gerarchia è molto fluida e aperta.
La visita suscita in alcuni di noi una forte simpatia per i mormoni, magari anche perché non sempre abbiamo ritrovato nei precetti e nelle istituzioni cattoliche un senso di identità e di fede costanti. La serata si può dire chiusa qui, perché alle ore 21 (o meglio 9 PM come si usa dire da queste parti) la quasi totalità di locali ed esercizi pubblici è ormai chiusa, non potendo che ripiegare come emergenza in un simpatico ristorante cinese, che ci offre almeno una zuppa per riscaldarci. Non c’è la temperatura dei giorni precedenti, ma i pochi gradi sopra lo zero trovati a Salt Lake City non ci permettono di scoprirci troppo.
La tappa successiva è il Bryce Canyon, parco molto più piccolo di Yellowstone, ma altrettanto suggestivo. Prima di arrivarci, percorriamo una strada panoramica in cui già siamo introdotti in quell’ambiente surreale di rocce e pietre polverose tipiche del paesaggio West; strapiombi, archi, pinnacoli e vallate dai colori ocra e rosso. Questo paesaggio si infittisce fino all’apoteosi nel parco vero e proprio, che a dispetto del nome si prefigura più in ampi e coreografici anfiteatri dalla composizione variabile e frastagliata. I punti di osservazione dall’alto, che si popolano ancora di più durante l’alba e il tramonto per via di particolari tonalità del terreno sprigionate dalla tenue luce del sole, mostrano gli elementi stratificati, che compongono questo spettacolo della natura. Per immergersi in questa meraviglia, oltre alle balconate, si può proseguire per i tortuosi percorsi, che attraverso le ripide insenature introducono il visitatore all’interno stesso delle formazioni geologiche. Questi camminamenti, da dove si percepisce un’esperienza molto più intensa del parco, possono essere percorsi anche in sella a un cavallo o a un mulo. Il nostro gruppo ha optato per il secondo, confidando nella migliore stabilità di questo tipo di animale, anche se l’abitudine di camminare proprio in pizzo agli strapiombi ha reso la passeggiata intensa e sorprendente anche per una certa paura di poter cadere nei precipizi.
Lasciato questo parco, ci dirigiamo verso quello di Yosemite. Prima di arrivare passiamo per quella che tipicamente viene chiamata la “strada extraterrestre”, per via della sua attiguità con la fantomatica Area 51, che la leggenda vuole sede di esperimenti segreti su forme di vita provenienti dallo spazio. A uso e consumo dei turisti appassionati del genere, nel bel mezzo del deserto del Nevada, presso la piccola località sperduta di Rachel in un prefabbricato tutto addobbato con gadget e souvenir a tema, vengono serviti panini con presunta carne di alieno. Ennesima eccentricità della cultura americana, con tutte le sue contraddittorietà di tipo hollywoodiano.
Sempre sulla strada verso la California incontriamo la piccola cittadina di Tonopah, che offre un interessante museo civico, legato alla storia sociale e alla cultura anche rurale dello Stato. Interessante la sezione dedicata alle Forze Armate, dove si evince un particolare attaccamento della cittadinanza alla vita della locale base dell’aeronautica militare sia nel periodo bellico, sia in quello non meno importante del secondo dopoguerra.
Superato il passo Tioga si accede al parco Yosemite, già in territorio californiano. Questo vasta zona protetta è famosa per numerose attrattive naturalistiche. Imponenti le distese di vegetazione, intervallata da picchi montani e da fluenti cascate, attive soprattutto nel periodo primaverile-estivo per via dello scioglimento delle nevi. Il clima è ancora abbastanza rigido, essendo collocato sulla Sierra Nevada, anche se reso mite dalle temperature più dolci della California.
Le attrattive principali del parco sono le sue massicce cime granitiche, tra le più note El capitan e l’Half dome, e la foresta di sequoie nei pressi di Wawona nel Mariposa Grove. Qui gli alti e possenti alberi, risalenti a circa 2.000 anni fa e che arrivano anche all’altezza di 90 metri, rendono la zona molto caratteristica. La fitta vegetazione ne fa da cornice, anche se le sequoie sono le uniche protagoniste. Molte mostrano evidenti segni di danneggiamento sui tronchi, a causa dei frequenti incendi (alcuni programmati e guidati dai ranger per una questione di pulizia forestale), anche se per loro fortuna il nutrimento necessario passa dalle radici direttamente alla corteccia, senza nessun deterioramento alla vita dell’albero. Da sottolineare tuttavia che essi sono alquanto fragili, quindi appaiono molto frequenti i casi in cui tronchi abbattuti o morti possano diventare un attrazione per i turisti e le loro foto. Significativi gli esemplari di sequoie “gemelle” o “amanti”, ossia fusti sdoppiati o cresciuti così vicini da unirsi tra loro e rendere la pianta speculare.
Interessante poi la vista mozzafiato della vallata principale attraverso il punto d’osservazione Glacier Point, che sovrasta le principali cascate e si presenta come palcoscenico privilegiato per ammirare al tramonto le sfumature delle pareti di granito.
Lasciato Yosemite arriviamo all’altro importante parco della California: il Sequoia. In effetti una non accogliente pioggia e foschia e la precedente esperienza di Mariposa Grove non permette una sorpresa avvolgente di questo parco, che tuttavia ospita le sequoie più grandi al mondo: il Generale Grant e il Generale Sherman. Benché il tempo sia inclemente, ammiriamo comunque le sue bellezze, salendo anche sul Moro Rock, un imponente massiccio che dovrebbe affacciare sulla vallata. La nebbia ci impedisce di vederla, ma la soddisfazione è tanta arrivati in cima, anche se zuppi d’acqua e un po’ impauriti per i cartelli che avvertono di possibili fulmini in cima in caso di temporali.
La sera ci ritiriamo presso l’albergo al centro del parco, consumando una calda e ristoratrice cena a base di carne e legumi. Il giorno successivo ci alziamo come d’abitudine di buon mattino, per avere tutto il tempo di percorrere la strada costiera dell’Oceano Pacifico prima di arrivare a San Francisco. Tuttavia abbiamo una spiacevole sorpresa, perché in albergo ci dicono che l’unica strada che attraversa il parco è interrotta a nord per la caduta di un albero e a sud per una frana. Gli interventi per garantire la circolazione erano già in atto, ma il manto stradale era ancora precario. Solo nel pomeriggio tutto sarebbe tornato regolare. Noncuranti di questi ammonimenti ci mettiamo comunque in viaggio, con molta prudenza soprattutto per alcune parti dell’asfalto crollate sotto alla pressione della pioggia. Nonostante tali ostacoli riusciamo a raggiungere l’uscita del parco in meno di due ore, non prima di aver ammirato (spettacolo tanto atteso, a cui ormai ci eravamo rassegnati) l’attraversamento e la sosta sulla strada di un tranquillo orso bruno in cerca di cibo.
Raggiunta la costa occidentale degli Stati Uniti da subito non riusciamo a vedere un granché per via della solita nebbia, ma piano piano procedendo verso nord il cielo si apre, mostrando la bellezza più profonda delle onde che raggiungono la spiaggia o gli impervi strapiombi. Proseguendo verso settentrione, in serata, arriviamo nel circondario di San Francisco, immenso centro urbano intorno alla baia omonima.
La città mostra sin da subito la sua bellezza. Scendiamo verso l’embarcadero e poi di seguito tutti i moli, i pier, numerati ordinatamente nelle loro caratteristiche prevalentemente turistiche e commerciali. Il porto è un vero agglomerato di suoni, odori e sensazioni. Dai rumorosi versi delle maleodoranti foche “leoni di mare”, all’esotico profumo dei gamberi e delle fritture di pesce.
Il giorno seguente San Francisco ci si presenta a pieno così come la più europea delle città degli Stati Uniti, anche se la sua eredità asiatica è preponderante. Oltre ai quartieri cinesi e giapponesi, incastonati tra la zona finanziaria e quella delle celebri colline, l’intera città mostra i segni di una cultura di frontiera tra est e ovest, ma anche tra nord e sud. Il giro panoramico di 49 miglia evidenzia tutte le bellezze e le caratteristiche della cosmopoli, dalle sue origine ispaniche e barocche agli innovativi ed eclettici grattacieli del centro, il più famoso la Transamerica Pyramid. In questo modo le ripide discese e salite non rappresentano un ostacolo, ma piuttosto un’opportunità, che il turista raccoglie prendendo il tram “Cable car” o scendendo la ripidissima e pittoresca Lombard Street.
Nel tardo pomeriggio ci dirigiamo al porto per imbarcarci sul battello con direzione l’isolotto di Alcatraz. Il carcere, ormai chiuso da anni e ora dedicato alle visite turistiche, mostra subito la sua aria tetra e paurosa, avvicinandosi a noi avvolto da un manto di nebbia. Sbarcati prendiamo confidenza con le strutture e una volta dentro il corpo centrale ci viene spiegata non solo la suddivisione dei bracci detentivi, ma anche la loro storia, nonché gli innumerevoli personaggi ed episodi che hanno reso famoso il nome di Alcatraz. Dalla misteriosa detenzione di Al Capone ai frequenti tentativi di fuga, la prigione offre una serie molto ampia di letture interpretative, non da ultima quella prettamente sociologica.
Ed eccoci arrivati all’ultimo giorno del viaggio, concluso con una simpatica passeggiata in bicicletta per il molo e, saliti sul Golden Gate, l’attraversamento della baia fino alla parte settentrionale della stessa. Un’esperienza molto forte, anche perché solo a piedi o in bici si riesce a percepire lo spazio e le sfumature dell’ampio panorama. A ritorno, prendendo il ferry-boat, sbarchiamo sempre all’embarcadero, da dove proseguiamo per gli ultimi fugaci istanti nella città californiana.
In conclusione le considerazioni sono d’obbligo, con un bagaglio di esperienze sicuramente ricco, vario e degno di essere raccontato. Di sicuro un viaggio non indicato per tutti, viste le frequenti lunghe tappe e ricorrenti alzatacce, ma al contempo ottimo per chi ama l’avventura, il desiderio continuo di scoprire e di non accontentarsi di quel che ci può proporre una semplice agenzia di viaggi. Il ricordo dei muli al Bryce Canyon, la casa trasportata sull’autostrada, la neve sui volti di Washington e Jefferson valgono ciascuno da soli un viaggio, figuriamoci tutte queste cose e altre ancora insieme.
Foto in anteprima: Yellowstone National Park