di Sandra Milani*
Dall’antichità ad oggi le sostanze stupefacenti sono state utilizzate come strumento per accrescere la resistenza dei combattenti.
Durante la seconda guerra mondiale, le droghe vennero somministrate ai vari eserciti per innalzare la soglia del dolore, per aumentare la resistenza fisica alla fatica e alla privazione del sonno.
Ad esempio l’esercito nazista, in particolare l’aviazione tedesca, assumeva farmaci a base di anfetamine al fine di riuscire a combattere per molti giorni ininterrottamente, senza fatica e senza bisogno di dormire.
La droga utilizzata dall’esercito nazista prese il nome di “Pervitin”. Il medico tedesco Fritz Hauschild, dopo che la sostanza era stata sperimentata sugli atleti alle olimpiadi di Berlino del 1936, durante Seconda Guerra Mondiale fece somministrare la sostanza dai medici militari ai soldati tedeschi: vennero prodotte più di 35 milioni di compresse da 3 milligrammi di Pervitin. La sostanza venne soprannominata dai soldati tedeschi “Panzerschokolade” ossia “cioccolato per carri armati”. Essa venne utilizzata dall’esercito tedesco durante l’invasione della Polonia, al fine di conferire ai soldati una capacità di resistenza più elevata.
Le anfetamine vennero somministrate altresì ai membri dell’esercito statunitense, ma con una diversa funzione: quella di far sentire i soldati euforici e pieni di coraggio e quindi, di farli sentire forti e coraggiosi quanto i soldati tedeschi.
Si stima che il 10% dei soldati statunitensi facesse uso di tali sostanze stupefacenti, con una crescita della percentuale fino al 25% nei corpi speciali.
In Giappone, invece, le conoscenze sull’uso delle anfetamine a scopo bellico vennero diffuse dai tedeschi. Tuttavia, il maggior uso delle anfetamine, in Giappone, venne riscontrato non da parte dei soldati dell’esercito nipponico, ma da parte di coloro che lavoravano nelle fabbriche per la produzione di armi belliche: la somministrazione di tali sostanze psicotrope venne infatti finalizzata alla crescita della produzione di armi belliche.
Numerosi furono poi gli esperimenti compiuti sui soldati dell’esercito durante la guerra, al fine di verificare i reali effetti delle droghe sul loro stato psico-fisico.
Concludendo, quindi, possiamo affermare che l’uso bellico delle sostanze stupefacenti può essere ricondotto a due finalità generali:
- Consentire ai soldati di accrescere la propria resistenza alla sofferenza fisica e alla fatica, di sopportare la privazione del sonno e la fame senza che tale condizioni pregiudichino le prestazioni fisiche dei combattenti;
- Facilitare il compimento, da parte dei soldati, di atti moralmente inaccettabili perché consistenti in violenze fisiche e psicologiche atroci, inibendo la coscienza del soggetto e attenuando la sua capacità di opporsi agli ordini impartiti;
Oltre ad esse, vi era altresì la finalità di utilizzare le sostanze stupefacenti come “sieri della verità”, per piegare la volontà dei prigionieri di guerra, ottenendo dagli stessi confessioni e informazioni segrete.
Durante la seconda guerra mondiale, ad esempio, la “mescalina” veniva utilizzata come “siero della verità” durante gli interrogatori dei prigionieri.
Infine le sostanze stupefacenti sono state studiate ed utilizzate al fine di rendere incapaci di reagire i soldati nemici.
In particolare nel 1943 ha inizio la storia delle così-dette “sostanze chimiche inabilitanti”: il chimico Albert Hoffman inventa infatti l’”LSD” composto dall’acido lisergico estratto dalla “segala cornuta” prodotta da un fungo dei cereali.
L’effetto tipico dell’LSD è quello di produrre sul soggetto disturbi della coscienza, disturbi della vista, e allucinazioni.
In particolare l’impiego dell’L.S.D. a scopi bellici fu oggetto di ricerche da parte dei ricercatori militari statunitensi, i quali condussero molti studi in ordine al possibile impiego dell’L.S.D. come strumento per smascherare le spie nemiche.
L’effetto reale dei cosidetti “sieri della verità” a base di sostanze psicotrope, in realtà, come hanno rilevato gli psicologi americani David Orne e James Gottschelck, non è tanto fisico quanto psicologico: essi infatti comportano una riduzione della soglia della vigilanza del soggetto, rendendolo maggiormente suscettibile a rivelare le informazioni richieste durante l’interrogatorio.
L’aspetto prevalentemente psicologico di tali sostanze è dimostrato dal fatto che, mediante la somministrazione di un placebo si potevano ottenere gli stessi effetti prodotti dal “siero della verità”: il soggetto infatti, convinto di essere stato drogato, opponeva una resistenza minore durante l’interrogatorio e, in qualche modo, si sentiva libero di confessare senza alcun senso di rimorso o di colpa per non aver mantenuto i segreti di cui era a conoscenza.
Analogamente, ai nostri giorni ritroviamo l’uso delle sostanze stupefacenti con la stessa finalità nella più moderna forma di guerra, quella del terrorismo islamico.
È infatti stato riscontrato che uno dei terroristi che aveva compiuto l’attentato di Parigi e uno dei terroristi dell’attentato in Tunisia a Sousse, avevano assunto la fenetillina, una sostanza stupefacente a base di anfetamine, nota come “droga della Jihad” o “Captagon”, già utilizzata durante la guerra del Golfo.
Anche in questo caso, gli effetti della droga erano quelli di accrescere la resistenza fisica da un lato (resistenza alla fame, al sonno e alla fatica) e dall’altro di accrescere la resistenza psicologica conferendo al soggetto un senso di onnipotenza ed assenza di inibizione, tale da consentirgli di compiere l’atto terroristico a scopo terroristico senza ripensamenti.
Se poi il Captagon viene assunto insieme alla cocaina, accresce ancora il suo effetto; mentre l’associazione della “droga della jihad” ai cannabinoidi potrebbe spiegare la capacità dei terroristi I.S.I.S. di uccidere i prigionieri con inaudita ferocia (ad esempio sgozzandoli o investendoli con un camion) senza provare alcun turbamento.
L’uso di questa sostanza psicotropa si è rivelata così diffuso tra i terroristi che due ricercatori italiani, Giovanni Serpelloni ed Elisabetta Bertol, dell’Unità di ricerca interdipartimentale tossicologia forense e neuroscienze di Firenze, avevano proposto di cercare la sostanza “Captagon” nelle reti fognarie delle città dei diversi Stati europei, al fine di individuare i luoghi in cui le cellule terroristiche si rifugiavano.
Infine, se da un lato il terrorismo islamico ha fatto della droga uno modo per rendere i propri “combattenti” invincibili e pronti a sacrificare la vita per la causa con cieca obbedienza, dall’altro ha trovato nell’attività di spaccio delle sostanze stupefacenti (hashish, cannabis, ecc…) un prezioso strumento per sovvenzionare e finanziare la proprie attività terroristiche. I proventi del traffico di sostanze stupefacenti vengono utilizzati dai Jihadisti per l’acquisto di armi.
Nel 2013, infatti, l’operazione internazionale denominata “Urca” ha portato all’arresto si 109 persone coinvolte nel traffico di droga legato al finanziamento del terrorismo islamico.
Per quanto riguarda il Captagon, poi, la produzione della “droga della Jihad” è particolarmente diffusa in Siria e in Libano.
Quindi se da un lato la droga rappresenta, per il terrorismo islamico, la principale fonte di finanziamento di armi e mezzi per l’organizzazione e il compimento degli attentati, dall’altro le sostanze stupefacenti, in particolare il Captagon, rappresentano lo strumento in grado di trasformare un potenziale combattente per la causa della Jihad in una “bomba umana” capace di morire per uccidere, senza alcun ripensamento o remora psicologica.
In entrambi i casi, l’uso di queste sostanze stupefacenti risponde ad uno scopo di rafforzamento psicologico dell’intento del soggetto che, per il bene comune del gruppo e per il senso di appartenenza allo stesso, si presta a sacrificare la propria vita, consentendo allo stesso di annullare ogni capacità di giudizio e ogni paura di morire.
È importante ricordare che la religione islamica vieta l’assunzione di droghe, così come la loro produzione e il loro commercio.
Un versetto del Corano, infatti, recita: “Alcool, droga e gioco d’azzardo sono ‘affari’ di Satana”.
Secondo la religione islamica, quindi, fare uso di droghe rappresenta un peccato assoluto, anche se la legislazione in merito nei vari paesi a prevalente religione musulmana non è la stessa (Es. in Iran l’uso e la produzione di droga è punito con la condanna a morte, mentre in Marocco la produzione e il commercio di droga è punito con la reclusione per 5 anni, ec…).
È quindi evidente il profondo paradosso che colpisce il terrorismo jihadista: da un lato viene professata la più rigida e fedele osservanza dei dettami del Corano, in nome dei quali vengono compiuti attentati terroristici in tutto il mondo, mentre dall’altro il terrorismo islamico non avrebbe modo di esistere senza il traffico e l’assunzione delle droghe, che costituisce il fulcro centrale dell’azione dell’I.S.I.S..
L’obiettivo finale dell’uso bellico delle droghe sui soldati, così come quello dell’uso delle droghe sui terroristi, è in ultima analisi quello di esercitare una sorta di controllo mentale su tali soggetti, al fine di impedire agli stessi di sottrarsi, anche all’ultimo momento, all’impegno preso di sacrificare la propria vita per l’ideologia politica o religiosa.
La droga viene così ad affiancarsi alle tecniche di condizionamento mentale utilizzate dall’I.S.I.S. al fine di portare il potenziale terrorista ad una cieca obbedienza nei confronti del gruppo terrorista, in un percorso che, attraverso le varie fasi del condizionamento psicologico (controllo totale della comunicazione del gruppo, confessione, manipolazione mistica, prevalenza della dottrina sul singolo, ecc…), porta il soggetto alla completa perdita di indipendenza e autonomia nelle scelte decisionali e nel pensiero cosciente. Attraverso il controllo totale della comunicazione del gruppo, il membro del gruppo potenziale terrorista viene allontanato dai familiari e da tutta la rete di relazioni interpersonali esterne al gruppo: può comunicare solo con gli altri membri del gruppo e la verità detenuta dal gruppo non può essere portata a conoscenza di chi non fa parte del gruppo, con conseguente completo isolamento del soggetto; l’unico modo di agire e pensare possibile è quello approvato dal gruppo e questo porta ad una netta contrapposizione tra i componenti del gruppo e chi è esterno allo stesso. I componenti del gruppo vengono portati poi a “confessare” qualsiasi intento o comportamento contrario ai dettami del gruppo, così da portarli a sentirsi in colpa e sfruttare tale sentimento per piegare ancora di più la loro volontà. Il potenziale terrorista viene poi convinto che la sua adesione al gruppo è frutto di una scelta autonoma effettuata in piena libertà, mentre su di essa hanno fortemente inciso i condizionamenti derivanti dalla pressione sociale e dalla paura; esso viene portato a vedere la realtà con gli occhi del gruppo, interpretandola esclusivamente secondo l’ideologia di quest’ultimo.
Infine il soggetto reclutato a scopo di terrorismo viene convinto di far parte di un gruppo “elitario” che detiene la “verità” e rispetto al quale tutti gli altri soggetti esterni vengono visti come esseri inferiori e privi di valore: questo consente ai componenti del gruppo di manipolare i soggetti esterni al gruppo senza sensi di colpa, in quanto ciò è necessario per il bene comune del gruppo.
Possiamo osservare, concludendo, che, se da un lato il condizionamento ideologico e il condizionamento religioso sono in grado di portare, rispettivamente, il soldato e il terrorista ad abbracciare l’idea di morire per la “causa”, dall’altro, al momento del compimento dell’atto finale del martirio, lo spirito di sopravvivenza dell’essere umano ha comunque la meglio, con la conseguenza che, nella stragrande maggioranza dei casi, l’assoluta lucidità mentale del soggetto non consentirebbe allo stesso di compiere un simile atto.
L’idea di far parte di un gruppo di combattenti a difesa di un’ideologia “superiore”, quindi, da sola non è sufficiente per piegare completamente la volontà del soggetto e portarlo ad una cieca obbedienza.
Al momento del compimento dell’atto finale di sacrificio per la “causa”, sia nel caso della guerra che nel caso del terrorismo, il soggetto ha bisogno di una spinta ulteriore, che lo porti senza ripensamenti a compiere il gesto estremo di sacrificare la propria vita: il soggetto ormai è solo, privato degli affetti familiari e amicali, senza la possibilità di ribellarsi al gruppo di cui ormai fa parte e che ha il pieno controllo su di lui, in quanto un tale atto di ribellione lo porterebbe ad essere rifiutato e denigrato dai soli soggetti che ormai lo accettano cioè gli stessi membri del gruppo: tutto questo fa sì che al momento del compimento dell’atto del martirio per la “causa” sia più facile per il soggetto, anziché ribellarsi ed abbandonare il gruppo, piegare l’ultimo briciolo di volontà che gli rimane attraverso l’assunzione di droghe che inibiscono la capacità di giudizio, e compiere l’ultimo gesto in uno stato di completo offuscamento della coscienza.
* Collaboratrice CESVAM, Master in “Terrorismo ed Antiterrorismo”, Università Unicusano Roma