Marco Gioacchini. Considerazioni sul contributo del lavoro degli I.M.I. all’industria tedesca: 1943-1945

  

 di  Marco Gioacchini

1. La potenza industriale come presupposto per la potenza bellica degli Stati

La prigionia dei militari italiani in Germania dopo l’8 settembre 1943, al di là degli aspetti umani e politici che l’hanno segnata, può essere letta alla luce del mutamento che la tecnologia di guerra sperimenta durante gli anni ’30-’40 del ‘900. E’ allora che lo sforzo bellico viene a caratterizzarsi per un nuovo aspetto “totalizzante”, inteso come marcato coinvolgimento della popolazione civile nelle conseguenze delle operazioni militari nonché la subordinazione di gran parte della dinamica socio-economica e produttiva di un Paese alle esigenze di produzione in ambito bellico. La guerra “a vocazione tecnologica”[1], inoltre, vincola inesorabilmente le prospettive di vittoria finale alla disponibilità di armamenti ed alla capacità produttiva dei paesi.

Se durante il secondo conflitto mondiale, quindi, vincere la guerra significa anche essere in grado di sfruttare a fondo il potenziale di mobilitazione delle risorse nazionali (produzione industriale, produzione bellica in particolare, capitali, manodopera, materie prime, ma anche risorse interne come il consenso) tutto ciò riveste ancor più particolare rilevanza nella vicenda dei prigionieri militari italiani, in un momento in cui la guerra impone la riconversione di molte industrie alla produzione di armamenti e materiali bellici. In Germania, nella fattispecie, questa esigenza si fa sentire in maniera pressante a partire dal 1942 quando, fallita la prospettiva della guerra lampo e ampliato lo scontro a due colossi industriali come Stati Uniti e Unione Sovietica, si cerca di colmare il divario produttivo con gli USA[2]. L’occupazione di nuovi territori (con il conseguente inglobamento di industrie e risorse) e la deportazione nel Reich di milioni di lavoratori e prigionieri di guerra rappresentano, in questa prospettiva, allo stesso tempo un fardello per il sostentamento e un bacino di reclutamento di manodopera. E’ qui che la vicenda degli I.M.I. e l’andamento dell’industria tedesca si incontrano: quando la necessità di dare impulso alla produzione e la contemporanea esigenza di assicurare alti livelli di mobilitazione delle nuove generazioni tedesche al fronte, danno luogo ad una pressante ricerca di manodopera per i settori produttivi del Reich (dall’agricoltura all’industria mineraria, alla manifatturiera). Una delle soluzioni adottate è l’impiego in fabbrica dei prigionieri di guerra e, dal settembre 1943, del contingente di prigionieri militari italiani.

Partendo dal contesto di produzione tedesco, è possibile quindi leggere l’esperienza degli I.M.I. dal 1943 al 1945 rispondendo ad alcuni interrogativi di fondo: come è strutturata la domanda di manodopera tedesca? In che misura vi contribuisce il contingente italiano? Come può essere descritta la forza lavoro degli I.M.I. in Germania?

 

2. La produzione in Germania dal 1942: i protagonisti del “mercato del lavoro”

Compresa la priorità di incrementare la produzione bellica, nel 1942 Hitler vara un insieme di atti di riforma della produzione di armamenti e della gestione della forza lavoro. Tali atti, sebbene puntino ad ottimizzare la produzione di materiale bellico, sono nondimeno suscettibili di provocare conflitti di competenza tra i quattro protagonisti coinvolti a vario titolo nella loro gestione: il Ministero per gli Armamenti, il Comando Supremo della Wehrmacht (OKW)[3], il Plenipotenziario per l’Impiego della manodopera (GBA)[4] e le Industrie tedesche. Si fronteggiano, così, due dinamiche: la prima di “accentramento” delle competenze per la produzione di armamenti e la seconda di “regionalizzazione” nella gestione della manodopera.

Il Ministero degli Armamenti (accentramento)

L’8 febbraio 1942, la produzione industriale di armamenti, già competenza dei piani pluriennali di Göring, e la gestione della manodopera “ospite” e coatta – tra cui i prigionieri di guerra già amministrati dall’OKW a cui sono demandate custodia e sicurezza – convergono sulla persona di Albert Speer, nominato Ministro per gli Armamenti e Plenipotenziario per gli armamenti del piano quadriennale (marzo 1942). Lo scopo è quello di far incontrare la domanda di forza lavoro dell’industria e “l’offerta” di manodopera, per la quale Speer è abilitato ad emanare direttive di impiego. Come Ministro per gli Armamenti, inoltre, sovraintende, il 7 maggio 1942, all’assorbimento degli Uffici per gli armamenti dell’OKW (estromettendo definitivamente la Wehrmacht dalla politica di produzione) e, il 17 settembre di quell’anno, all’insediamento di 26 Commissioni per gli armamenti con competenza interregionale composte da responsabili a vari livelli dei fattori di produzione (impresa, manodopera, uffici economici etc).

Il Plenipotenziario per l’impiego della manodopera – GBA (regionalizzazione)

Di fronte alla scarsità della manodopera ed alla rinuncia al doppio incarico da parte di Speer, Hitler è tuttavia obbligato a conferire il compito di reclutare lavoratori, soprattutto nelle zone occupate dell’est, ad un GBA – Plenipotenziario per l’Impiego della manodopera. La scelta cade su Fritz Sauckel, già Gauleiter[5] della Turingia e nazista della prima ora che viene nominato GBA il 21 marzo 1942. Le sue competenze si estendono dal reclutamento alla ripartizione della forza lavoro nelle diverse zone e settori produttivi per razionalizzarne l’impiego. Sauckel, delegando a sua volta i Gauleiter degli altri Länder, crea di fatto una rete di organi regionali (Uffici regionali del lavoro – Landesarbeitsämter) con competenze di coordinamento della manodopera e, quindi, anche dei prigionieri di guerra, nell’intento di avvicinare i centri decisionali ai luoghi di produzione.

La Wehrmacht (OKW) e le industrie tedesche

Originariamente responsabile in toto dei prigionieri di guerra e della politica degli armamenti, l’OKW vede sottrarsi competenze, prima con l’incorporazione degli Uffici degli armamenti nel Ministero degli Armamenti, quindi con la soppressione dei suoi Uffici economici, infine conservando una competenza residuale sulla logistica e sulla custodia dei prigionieri/lavoratori, fino all’autunno del 1944. Dal punto di vista industriale, invece, il sistema corporativo tedesco si basa sull’integrazione della produzione finale e dell’industria dei semilavorati/materie prime (Ausschüsse e Ringe) in associazioni di comparto come la RV Khole (Unione delle aziende del carbone) e la Rv Eisen (acciaio). I dirigenti, soprattutto imprenditori dell’industria pesante, godono di una certa influenza sulle politiche di pianificazione della produzione, sia sedendo negli organi locali e centrali per la gestione degli armamenti e della manodopera, sia in posizione di consiglieri diretti dello stesso Ministro Speer. Nel 1942, il comparto vede poi aumentare i propri margini di indipendenza anche grazie al sistema della  “Autoresponsabilizzazione imprenditoriale”[6] che affianca al controllo statale degli ordinativi, iniziative imprenditoriali autonome.

Riguardo all’effettiva assegnazione dei lavoratori coatti e dei prigionieri, essa avviene, per la maggior parte, secondo una procedura detta dei “moduli rossi – Rotzettel”. Questa prevede una triangolazione di richieste, dalle aziende di importanza strategica, al Ministero degli Armamenti – che trasmette le domande agli Stalag gestiti dall’OKW – secondo procedure di valutazione del fabbisogno che, nel breve termine, penalizzano la produzione di ambiti come l’alimentazione e l’estrattivo in favore di aziende e settori ritenuti prioritari nell’industria bellica. Gli Stalag, attraverso gli uffici dell’impiego dei Gauleiter (GBA), organizzano quindi la ripartizione della manodopera alle ditte richiedenti. Per coordinare il tutto,  il 30 novembre 1942 un decreto congiunto stabilisce finalmente le competenze del Ministero degli Armamenti (individuazione delle priorità dei piani di armamento) e  quelle dei Gauleiter (gestione regionale e centrale della forza lavoro). Insieme determinano quote e settori di impiego della manodopera, la cui logistica e sicurezza (dei prigionieri di guerra) continua ad essere a carico della Wehrmacht. All’industria spetta il compito di stimolarne la domanda operando all’interno degli organi di cui fa parte.

Tre primi elementi, quindi, caratterizzano l’assegnazione dei lavoratori (e più in là dei prigionieri militari italiani) nei primi anni ‘40 in Germania: le necessità del mercato bellico (e della produzione: leggi aziende), le “priorità politiche” definite dal Ministero degli Armamenti e le questioni logistico-amministrative affidate a OKW e Gauleiter.

 

  1. Le tipologie di lavoro in Germania dal 1942

Fino al 1942-43 un discreto numero di italiani sceglie volontariamente di recarsi in Germania per motivi di lavoro, godendo di un relativo trattamento privilegiato. Si tratta dei “lavoratori ospiti” (Gastarbeitnehmer) reclutati su base volontaria con regolare contratto e retribuzione. Simona Colarizi, mentre addebita all’aggravarsi della situazione lavorativa e alla pauperizzazione delle risorse e materie prime dell’Italia nel biennio 1941-42 l’afflusso nel Reich di oltre 200.000 mila lavoratori civili italiani – ai dati del febbraio del 1942 – riporta giudizi contrastanti sul trattamento riservato a questi lavoratori, già discriminati, secondo le sue fonti, alla stregua, se non peggio, di prigionieri di guerra[7]. Un flusso, in realtà molto ridotto, in termini percentuali sul totale della manodopera, che si arresta però intorno al 1942, quando le sorti della guerra sembrano girare. A quel punto si assiste all’imporsi di un’altra tipologia di lavoratori: i “lavoratori coatti” o Zwangsarbeiter, siano civili, prigionieri di guerra o “lavoratori dell’Est”.[8]

Il lavoro coatto civile in Germania, della cui gestione è investito l’ufficio del GBA, impiega manodopera civile (Zivilarbeiter) reclutata nei paesi di occupazione, in maniera volontaria o meno, a cui viene preclusa capacità contrattuale su durata dell’impiego, possibilità di interruzione del rapporto e mansioni, con relative restrizioni di ordine pubblico e nel godimento delle libertà personali. L’impiego dei prigionieri di guerra, invece, è contemplato dalla “Convenzione Internazionale sul trattamento dei prigionieri di guerra” (firmata a Ginevra il 27 luglio 1929 anche dalla Germania) che, da un lato ne permette l’impiego in mansioni lavorative compatibili con le loro attitudini fisiche[9] (solo per i soldati e, in mansioni di vigilanza, per i sottufficiali)[10], mentre dall’altro ne limita i settori (no armamenti né materiale destinato ai combattenti)[11]. Fin qui, ben chiaro, la teoria. Verso la metà del 1943, dovendo infatti far fronte ad un deficit di manodopera di 1,5 milioni di lavoratori – specialmente in settori come l’estrazione mineraria, l’industria bellica e la manodopera specializzata – la Germania, si trova a non poter più garantire l’applicazione delle restrizioni previste dalla Convenzione, con il conseguente massiccio utilizzo dei prigionieri di guerra come manodopera[12].

Arriviamo quindi all’agosto del 1943[13], quando “nel comparto industriale e in quello agricolo sono già attivi quasi 5,3 milioni di lavoratori stranieri” a cui vanno aggiunti 1.452.860 prigionieri di guerra censiti al 15 agosto di quell’anno (francesi 50,7%, sovietici 34,1%, jugoslavi 6,5%, belgi 3,7%, inglesi 3% e polacchi 2%). La metà di essi (49,7%) trova impiego nell’industria alimentare e nell’agricoltura, il 20,8% nell’industria degli armamenti (esclusa l’industria pesante), il 9% e il 7,6% rispettivamente nell’industria mineraria e nell’edilizia e il restante 12,9% in settori diversi quali l’industria pesante, servizi alla Wehrmacht, le ferrovie, le poste, altri trasporti, richiedenti civili[14]. Dalla lettura dei dati disaggregati, inoltre, emerge una forte differenziazione nell’impiego dei prigionieri secondo la provenienza nazionale. I francesi, ad esempio, rappresentano da soli il 61,3% della manodopera dell’ambito agricolo e il 50,7% di quella del settore armamenti, mentre i sovietici costituiscono il 77,3% di tutti gli addetti all’estrazione mineraria (chiaramente preferiti sia dalla RV Kohle sia dai dirigenti delle miniere) e il 53,3% dei prigionieri destinati all’industria pesante.

L’impiego dei prigionieri di guerra nell’industria bellica

Questa la situazione immediatamente precedente il settembre 1943, quando la manodopera viene redistribuita per rispondere alle nuove maggiori richieste di produzione di armamenti e dell’industria bellica in generale, oltre che di nuove necessità di reclutamento della Wehrmacht. Se infatti “all’inizio del conflitto i prigionieri erano stati occupati prevalentemente nel settore agricolo, a partire dal 1941 aumenta progressivamente la loro presenza nella produzione bellica”[15]. Già alla fine del 1943, gli uffici del lavoro assegnano i prigionieri “soprattutto all’industria pesante e degli armamenti (43,2%) e, come «stagionali», al settore agricolo (19%); il 14,4% viene assegnato alle miniere, il 12,2% al settore edile e l’11,2% viene occupato nei lavori di manutenzione del sistema dei trasporti”.[16] Per i prigionieri di guerra italiani che, per un concorso di cause (periodo in cui vengono internati, necessità di reperimento di lavoratori specializzati, difficoltà nel conferimento all’industria estrattiva, contrasti tra gli enti preposti alla gestione della produzione), entrano nel “mercato del lavoro tedesco” proprio in quella fase, tutto ciò significa essere destinati – ma stavolta senza privilegi – in gran parte all’industria bellica e degli armamenti. Durante gli anni 1943-1944, inoltre, al contributo dell’Italia alla produzione bellica tedesca concorre anche il notevole volume di materiale di guerra trafugato dai tedeschi al Regio Esercito Italiano dopo l’Armistizio e quello prodotto nel territorio della R.S.I. e messo a disposizione della Wehrmacht. “Riguardo ai macchinari di produzione” scrive Schreiber[17] “l’Italia produsse per conto della Germania, il fabbisogno di armi e munizioni per le truppe della Wehrmacht che stazionavano sul proprio territorio, insieme ai servizi di manutenzione e riparazione. […] Ciò valeva in maggior misura per la produzione di materiale elettrico e di macchine utensili come per la meccanica di precisione e l’industria ottica. In complesso vennero spediti in Germania dal settembre 1943 alla fine di giugno del 1944: 12.000 camion, 375 carri armati, 2.200 motori per aerei, 130 aerei da trasporto, 402 caccia, 41 navi da guerra con un tonnellaggio totale di 20.000 t e 12 navi commerciali per un totale di 9.000 t. Il contributo alla produzione di munizioni – per il solo quantitativo spedito – raggiunse il 5% della produzione tedesca”.

 

4. Distribuzione degli “Internati Militari Italiani” e settori di sfruttamento: 1943-44

La vicenda degli I.M.I. prende corpo proprio durante quell’autunno del 1943. E’ ben noto come la parabola della prigionia dei militari italiani possa essere suddivisa in tre diverse fasi, ciascuna contraddistinta da cambiamenti di status: dall’8 al 18 settembre 1943 (il periodo precedente alla costituzione della Repubblica Sociale Italiana – R.S.I.) vengono deportati in qualità di “prigionieri di guerra” e trattati secondo quanto stabilito dalle convenzioni internazionali[18]; dalla fine del settembre 1943 al 3 agosto 1944 assumono la denominazione di “Internati Militari”; e dall’agosto 1944 alla “Liberazione” acquisiscono lo statuto di “lavoratori civili”. La trasformazione in “Internati Militari Italiani” avviene a seguito dell’applicazione il 20 settembre di un ordine di Hitler[19] nei confronti di “quei soldati che non avevano manifestato la loro disponibilità a continuare a combattere o a prestare qualche altro servizio che fosse di supporto allo sforzo bellico, ma che comunque non si erano segnalati per aver preso attivamente parte ad azioni di guerra contro la Wehrmacht. Vennero insomma considerati I.M.I. tutti i prigionieri che avevano posto una resistenza sostanzialmente passiva”.[20] Secondo quanto ricostruito da Ugo Dragoni[21] “la nuova denominazione perviene ai comandi periferici non prima del 22-24 settembre, per cui i militari italiani in mano ai tedeschi sono riportati nelle tabelle, in un primo momento, come «prigionieri di guerra», poi come «internati militari»”[22]. Parliamo di più di 600.000[23] Internati Militari Italiani, nel periodo tra il 1943 ed il 1945, secondo diverse stime.

Come è composto questo contingente? E verso quali direttrici viene internato? Il Reich, nel 1943, è suddiviso in tredici distretti militari – Wehrkreis[24] (da I a XIII) – più quelli ricavati nelle zone annesse della Polonia occidentale (XX e XXI) e dell’Austria (XVII e XVIII). Ulteriori campi di detenzione dei soldati italiani si trovano anche nel Governatorato Generale di Lublino, che comprende la parte orientale dell’allora Polonia. Nei dati riportati nel lavoro di Schreiber[25], il numero dei prigionieri italiani nel Reich e nei territori occupati soggetti alla giurisdizione dell’OKW passa da un totale di 12.862 ufficiali, 11.416 sottufficiali e 296.451 soldati il 1 ottobre 1943 (più 1.213 civili, per un totale di 321.942 uomini) ai 24.400 ufficiali, 23.002 sottufficiali, 546.600 soldati e 707 civili del 1 febbraio 1944 (per un totale di 594.709 uomini). Il 1 settembre 1944, alla vigilia del cambio di status in lavoratori civili, si registrano 18.304 ufficiali, 19.904 sottufficiali, 410.831 soldati e 392 civili (totale 449.431 uomini). Di questi, il totale degli Internati militari impiegati in attività lavorativa, seppure nel solo Reich e nel Governatorato Generale raggiunge, nel corso del 1944, la media dell’85% (escludendo dal computo ufficiali e civili). Un fattore aggregante dell’intera vicenda militare e umana di questi prigionieri, lo sfruttamento lavorativo, di cui bisogna quindi tenere debitamente conto nell’ambito della sua trattazione storica.

In tale quadro operativo, infatti, “i militari italiani vengono indirizzati soprattutto verso le regioni del Reich a più elevata concentrazione industriale. […] Quanto agli ufficiali, essi vengono dapprima concentrati per lo più nel VI distretto militare e rinchiusi nel lager di Meppen [Oflag[26] VI C] al confine olandese, e in seguito trasferiti nei lager del Governatorato Generale.”[27] Quanto detto sulle zone a maggiore vocazione industriale costituisce, quindi, già un indizio di come l’utilizzo degli I.M.I. – in prospettiva di reperimento di nuova manodopera – appaia già stabilito al momento della deportazione[28]. “Nelle statistiche ufficiali dei prigionieri in mano germanica si constata”, infatti, “che sottufficiali e truppa sono spediti quasi esclusivamente nella Germania propriamente detta, mentre gli ufficiali sono inviati in Polonia, con i soldati strettamente necessari per espletare i servizi nei campi. Questa distinzione dipende dal fatto che i soldati devono sostituire nelle fabbriche gli operai tedeschi inviati alle armi e così gli internati vengono disseminati in migliaia di Arbeitskommando, ciascuno in corrispondenza di uno stabilimento o di una fabbrica o di una fattoria.”[29] A grandi linee quindi, e assumendo al 1944 la cifra di 2 milioni di prigionieri di guerra avviati al lavoro, sembra verosimile ritenere la percentuale di manodopera italiana attestarsi intorno al 18-21% del totale dei prigionieri, tenendo conto dei dati combinati del 1943 e del 1944. Questa approssimazione fornisce una prima stima del contributo attivo degli italiani alla produzione tedesca.

Distretti di assegnazione, piani di utilizzo “rapido” e settori effettivi di impiego

Per quanto riguarda la suddivisione nei singoli distretti[30], e prendendo la data del 1 maggio 1944 come termine medio dei trasferimenti intercorsi tra il settembre 1943 e il dicembre 1944, si constata che i Wehrkreis che ospitano più Internati Italiani sembrano essere quelli centro-occidentali del Reich, nello specifico il VI Renania-Vestfalia (98.058 uomini ossia il 19% del totale), il III Brandeburgo (63.772 uomini, 12,4%), il IV Sassonia (43.635 uomini, 8,5%) , il X Amburgo-Schleswig-Holstein (43.041, 8,3%) e il XI Hannover-Magdeburg-Anhalt (41.826 uomini, 8,1%). Bassa, al contrario, è la presenza nei distretti periferici germanici nord-orientali e meridionali (di media intorno ai 10.000 I.M.I.). Si va dai 426 uomini nel distretto ex-polacco XXI Wartheland ai 24.033 del VIII Slesia. Ai fini dell’analisi della forza lavoro, come detto, questo è spiegabile in linea generale per due motivi: i distretti centro-occidentali sono quelli a maggiore insediamento di industria bellica e pesante in genere; i distretti nord-orientali ospitano, in generale, la massa dei prigionieri sovietici dai quali, disposizioni della prima ora, gli italiani devono essere per quanto possibile tenuti separati.

Riguardo, invece, l’assegnazione ai settori produttivi, Hitler “nemmeno una settimana dopo la capitolazione [dell’Italia], dispone i futuri settori di impiego degli internati […] assegnati prioritariamente all’industria bellica”[31]. All’impiego dei prigionieri in tutti i comparti dell’economia prospettato da Sauckel,  vengono quindi preferiti piani di utilizzo di rapida attuazione[32] elaborati dal Ministero di Speer. Parliamo di 400.000-500.000 prigionieri italiani, se escludiamo coloro che aderiscono alle formazioni combattenti italiane o tedesche, da cui l’OKW conta di attingere per rimpiazzare più di 150.000 lavoratori specializzati tedeschi partiti per il fronte. A fine settembre 1943, infatti, un piano di distribuzione, negoziato tra i vari protagonisti, decreta la suddivisione di 421.000 Internati nel modo seguente:  Industria degli armamenti (esclusa  industria pesante) 150.000 uomini ossia il 35,63% del totale avviato al lavoro, Industria mineraria 120.000 (28,50%), Industria alimentare e agricoltura 60.000 (14,25%), Industria pesante 30.000 (7,13%), Edilizia 25.000 (5,94%), Ferrovie del Reich 15.000 (3,56%),  Squadre di carico e scarico  11.000 (2,61%), Poste del Reich          10.000 (2,38%)[33]. Se ne evidenzia una maggioranza di invii ai settori di armamento e minerario con ben 115.000 Internati da subito destinati alle zone della Renania e della Ruhr (nella Germania occidentale tra le città di Bonn e Düsseldorf), base produttiva dei due settori ritenuti prioritari dell’industria pesante/bellica e di quella estrattiva. Tutto ciò in teoria. Durante il 1944, difatti, le sconfitte sul piano militare e l’accresciuta necessità di reclute fanno salire il deficit di lavoratori (soprattutto specializzati) a 4 milioni a fronte di “soli” 1,5 milioni di lavoratori reclutati da Sauckel. E’ in questo susseguirsi di eventi, insieme alla necessità di tenere il passo con la produzione bellica statunitense[34], che va ricercata la reale dinamica di assegnazione degli I.M.I., con conseguente riduzione degli impieghi nell’industria mineraria ed alimentare ed un aumento – ben al di là della stima preventiva riportata da Schreiber –  dell’assegnazione di manodopera alle fabbriche di materiale d’armamento. Vediamo i reali settori d’impiego alle date del 15 novembre 1943, del 15 febbraio 1944, del 15 maggio 1944 e del 15 agosto 1944.

L’industria degli armamenti (esclusa l’industria pesante) passa da 154.823 addetti italiani (40,4% del totale degli I.M.I.) del novembre 1943 ai 198.932 (46,4%) già nel febbraio del 1944 con livelli di occupazione che resteranno costanti fino ad agosto di quell’anno. Anche l’Industria mineraria aumenta gli effettivi dai 23.531 (6,1%) del novembre 1943 ai 38.458 di febbraio per poi impiegare 43.684 uomini (10,2%) nell’agosto 1944. Salta comunque agli occhi la grande sproporzione del dato rispetto alle richieste del piano preventivo (120.000) per una serie di concause di cui tratteremo in seguito. Di segno opposto, al contrario, il dato dell’edilizia, che gode di una eccedente quota di I.M.I. assegnati (58.000 uomini in media, ossia il 13,91%) di fronte ai 25.000 richiesti. Quote generalmente rispettate per l’industria pesante che rimane in linea con il piano di distribuzione ed impiega stabilmente una quota tra il 7,9 e l’8,8% del totale degli I.M.I. avviati al lavoro. Anche il flusso di lavoratori nel settore alimentare ed agricoltura sembra stabilirsi a novembre sulle cifre richieste in sede di programmazione (65.859 addetti, ossia il 17,2%), per crollare però a 34.666 uomini (8,1%) solo tre mesi dopo. Ad agosto 1944 saranno 41.111 gli addetti italiani nel settore.[35] Per quanto concerne gli altri comparti, le Ferrovie impiegano i 15.433 uomini richiesti, salvo raddoppiare a 31.891 già a febbraio 1944. Le Poste, invece, devono spartire il contingente di prigionieri italiani con il settore dei trasporti. Dei 12.000 addetti assegnati, in media, 4.000 lavoreranno per il primo, 8.000 per il secondo.

Fin qui il piano teorico di ripartizione degli I.M.I. e le reali assegnazioni per settore/distretto che possono aver risentito di decisioni politiche e necessità produttive contingenti. In pratica, però, dal 1943 le ripartizioni dei prigionieri dipendono da fattori ben più logistici: gli ordini contraddittori sul loro impiego e trattamento, le visite di idoneità per gli impieghi nel settore minerario, i costi di mantenimento ed integrazione degli internati, la carenza di alloggi ed i difetti costruttivi degli stessi, il trasferimento in campi secondari influenzato dalla logistica dei trasporti.

Aspetti logistici: trasferimenti, alloggi, idoneità fisica, ritardi

In primo luogo, le due dinamiche di accentramento e regionalizzazione, con il conseguente sovrapporsi di competenze nella gestione della manodopera, provocano un continuo andirivieni di disposizioni e di tentativi di sopraffazione degli uffici del Ministero per gli Armamenti a danno dei Gauleiter e viceversa. Un esempio è la campagna per l’industria mineraria lanciata dal GBA nel dicembre 1943 per dirottare gli I.M.I. non utilizzati verso l’industria estrattiva (dopo verifiche di idoneità fisica). Tre mesi più tardi, Sauckel dovrà però ammettere che gli uffici del lavoro hanno assegnato gli internati non al settore minerario ma all’industria bellica. Un secondo fattore di inefficienza è costituito dalle lungaggini – per mancanza di medici – nell’effettuare le prescritte visite di idoneità propedeutiche all’assegnazione all’industria mineraria. Tutto ciò contribuisce a ridurre – come abbiamo visto – gli addetti effettivi dai 120.000 I.M.I. previsti nel settembre 1943 ai 40.000 di media impiegati nel 1944. In mancanza di queste, tra l’altro, i prigionieri inviati direttamente alle miniere vengono spesso rispediti al mittente per inidoneità. I costi di mantenimento ed integrazione degli internati a carico delle imprese rappresentano un terzo elemento di freno. Costi di mantenimento e tecnico-amministrativi connessi quali “la scelta del personale da impiegare nei lager o la richiesta – che comporta un lungo iter burocratico – delle razioni alimentari, l’assegnazione di personale di guardia idoneo e la messa a disposizione di alloggiamenti adatti con il relativo arredamento”[36] ne rallentano l’assegnazione. Ne consegue l’invio prioritario alle grandi imprese capaci di allestire l’apparato di sorveglianza richiesto a scapito delle piccole imprese (il contingente minimo di prigionieri assegnati è infatti di 100 unità). Quarto punto, strettamente collegato al precedente, è la carenza di alloggi. Data la pressione dell’OKW perché i prigionieri rimangano sotto il controllo militare, in un primo tempo le destinazioni vengono stabilite in base ai posti disponibili nei lager controllati dalla Wehrmacht[37]. Nei mesi successivi al dicembre 1943, si tenta quindi di stimolarne il rapido impiego sottraendone forzosamente la disponibilità alle aziende che non provvedano ad alloggiarli entro un determinato lasso di tempo; riducendo le formalità di registrazione nei campi e soprassedendo alla disposizione che vorrebbe divisi gli italiani dai sovietici. Come risultato, molte aziende effettuano i lavori con fretta e negligenza provocando inconvenienti negli alloggi, che spesso mancano del mobilio interno. Ultimo aspetto è la logistica dei trasporti che, soprattutto nel 1944 con il disgregarsi del fronte orientale, non permette più una distribuzione ottimale della manodopera. Si privilegiano quindi gli spostamenti interni ai distretti e si riduce la mobilità dei prigionieri con relativa inefficiente allocazione delle risorse ottimali nei settori più congeniali. Questo vale ancora di più per gli I.M.I. se si pensa che la loro prigionia va ad innestarsi proprio nell’ultimo più cruento biennio di guerra.

 

5.  Produttività e problematiche nell’impiego dei prigionieri di guerra e degli I.M.I.

Questi, dunque, i fattori “esterni” alla vicenda lavorativa degli I.M.I.: la distribuzione del lavoro, la sua territorializzazione e l’eventuale apporto numerico al sistema produttivo tedesco. Per tracciarne un profilo più completo, però, è necessario osservare dall’“interno” il fattore lavoro da essi rappresentato e come questo fattore di produzione sia stato gestito. In un’ipotetica formula della produzione tedesca, infatti, dato il quantitativo di capitali impiegati, il contributo è funzione degli altri fattori di produzione (produttività e capitale umano) e di come questi hanno interagito con l’output finale. Per questo è utile partire da considerazioni generali sull’organizzazione dell’orario lavorativo per arrivare a considerazioni sulla produttività e sulle dimensioni che danno spessore al capitale umano: la tutela della salute, la specializzazione e la formazione professionale, l’alimentazione.[38]

La produzione tedesca: l’orario di lavoro

L’articolo 30 della Convenzione di Ginevra del 1929 prevede, per i prigionieri in mansioni produttive, che “la durata del lavoro giornaliero, compreso il tragitto di andata e ritorno, non sarà eccessiva e non dovrà, in ogni caso, superare quella ammessa per gli operai civili della zona, adibiti allo stesso lavoro. A ogni prigioniero sarà concesso un riposo di 24 ore consecutive ogni settimana, possibilmente la domenica”. In realtà gli Internati Militari ed i prigionieri in generale sottostanno ad orari di lavoro diversi a seconda dei settori di impiego e che si aggirano, in generale, tra le 50 e le 65 ore settimanali[39]. Questo in teoria, perché le aziende, con il proseguire della guerra, acquistano sempre maggior autonomia nella determinazione dell’orario di lavoro senza generali adeguamenti in ragione del vitto agli operai (soprattutto le industrie del comparto strategico con output maggiori di produzione). Dall’agosto 1944, poi, il decreto di Hitler sulla “guerra totale”, dispone l’innalzamento dell’orario lavorativo settimanale a 72 ore, con evidenti implicazioni sulla salute e la produttività dei prigionieri, chiamati ad un maggiore impegno a fronte di inalterate risorse alimentari. Ne risulta che i KGF e gli Ostarbeiter  vengono effettivamente impiegati per un numero maggiore di ore settimanali rispetto ai tedeschi e spesso nei turni domenicali e notturni. Tra gli stranieri, poi, vale quanto detto sulla gerarchizzazione dei lavoratori: mentre per gli Internati italiani un decreto del Ministero del Lavoro del 15 gennaio 1944 dispone l’applicazione del diritto del lavoro vigente per i tedeschi, i “lavoratori dell’Est” continuano ad essere maggiormente sfruttati. Per quanto riguarda gli altri fattori richiamati dall’articolo 30 della Convenzione – il tempo di percorrenza dal luogo di lavoro agli alloggi, le ore di riposo compensativo e i turni di lavoro – e fermo restando che gli spostamenti avvengono a piedi, non sempre una vicinanza estrema degli alloggi alle fabbriche significa un vantaggio. Gli acquartieramenti, in generale, si trovano ad una distanza tra 1 e 6 chilometri dagli impianti di produzione, il che impone comunque marce mattutine e serali della durata dai 15 ai 90 minuti sottratti, di fatto, al riposo. A fronte di un risparmio di energie e di ore da poter destinare al riposo, però, alloggi troppo vicini alle fabbriche sono spesso minacciati dai bombardamenti diurni e notturni.

I fattori della produzione: la produttività

La produttività è strettamente collegata alla strutturazione del lavoro. Definita in teoria economica come il valore residuale dell’applicazione della forza lavoro al capitale è, di solito, di difficile rilevazione, se non in modalità residuale, appunto, anche nella moderna econometria. Tanto più difficile è allora ricercare una misura della produttività in un periodo così carico di imprevisti come la Seconda Guerra Mondiale. Come visto, sia le istituzioni incaricate della gestione della manodopera, sia il contesto normativo in cui operano – oltre che l’incombente pressione data dalle necessità di incrementi di produzione e di rimpiazzo della forza lavoro – non contribuiscono a definire in maniera esauriente se la forza lavoro rappresentata dagli I.M.I. sia efficace, efficiente e se interagisca in maniera proficua con le tecnologie produttive in uso nella Germania dell’epoca.  Astraendo quindi dalla valutazione della tecnologia in uso nei vari settori produttivi, dalle modalità di misurazione e valutazione di una presunta performance della forza lavoro da parte dei datori di lavoro, ci si deve limitare ad alcune considerazioni provenienti da fonti secondarie.

E’ innanzitutto possibile attingere a “considerazioni” sul “rendimento” degli operai, di lavoratori e prigionieri, inteso come output per addetto a seconda delle nazionalità. Nei rilevamenti delle industrie della Renania-Vetsfalia (distretto VI con il maggior numero di I.M.I. e la maggiore concentrazione di industrie pesanti e minerarie)[40]  il rendimento degli Ostarbeiter e dei lavoratori civili francesi, belgi e olandesi è descritto come l’80-100% del rispettivo livello dei lavoratori tedeschi;  quello dei lavoratori civili italiani del 70-80% e quello dei polacchi tra il 60 e l’80%. Per quanto riguarda i prigionieri di guerra, i livelli di output si situerebbero invece genericamente intorno al 70% nel settore metallurgico e del 50% nel settore minerario. Da qui, di già, un primo dato: il lavoro dei prigionieri, ed in particolare degli I.M.I., è ragionevolmente valutato come meno efficiente rispetto a quello di operai di altre nazionalità.

Ma cosa influenza il rendimento, e quindi la produttività, dei prigionieri di guerra e degli I.M.I.? La relazione, innanzitutto, tra le condizioni alimentari e di salute ed il loro impiego nei settori a più alto dispendio di energie. A maggio 1944 le condizioni di salute di molti degli Internati Militari Italiani vengono definite “precarie”, tanto da considerarne “non più utilizzabili” una percentuale significativa. In secondo luogo “la produttività dei militari internati è strettamente correlata alle dimensioni dell’impresa. Infatti, mentre nelle piccole e medie aziende il loro tasso di rendimento è pari all’80-100% di quello dei lavoratori tedeschi, nelle grandi imprese esso scende spesso al di sotto di questa media”[41]. Considerazioni anche sul clima, sulla preparazione linguistica e sul livello di specializzazione dei militari sono addotte per giustificare il ridotto rendimento degli Internati rispetto ai livelli di riferimento dei lavoratori autoctoni. In linea di massima, però,  i giudizi sulla produttività degli I.M.I. sembrano diversificati per settore. In quelli agricolo, alimentare ed elettrotecnico, il lavoro degli I.M.I. è giudicato positivamente, sia perché una grande percentuale dei militari italiani proverrebbe da mestieri riguardanti l’agricoltura, sia perché le aziende alimentari riescono a garantire una nutrizione migliore ai propri operai. Nei settori chiave dell’industria pesante, dell’edilizia e dell’estrazione mineraria, invece, i giudizi sugli I.M.I. risultano indubbiamente negativi. Tra i 130.000 impiegati nel settore ad inizio 1944, la sproporzione tra denutrizione e carico di lavoro rende la vita difficile a molti di loro, con conseguente minore produttività anche nel confronto con prigionieri di altre nazionalità. Potrebbero giocare a sfavore elementi di tipo climatico (gli italiani genericamente meno adatti ai lavori all’aperto – nel settore edile – a basse temperature, da cui una maggiore incidenza di malattie) o di mancata allocazione delle professionalità dovuta alla maggiore urgenza nell’assegnazione dei prigionieri dal 1943 in poi. Non è da escludere anche una componente di “rifiuto al lavoro”, per non agevolare lo sviluppo produttivo della Germania, e di sabotaggio o luddismo a fronte della percezione del trattamento ricevuto. Luigi Cajani propende per la motivazione ambientale quando afferma che “l’affrettata e irrazionale distribuzione degli internati crea molti problemi alle imprese, che spesso non sanno come utilizzarli. E per di più anche nel caso in cui vengano impiegati secondo la loro specializzazione, gli internati hanno un rendimento molto inferiore a quello degli altri prigionieri. Soltanto quelli che lavorano in campagna non danno adito a lamentele, ma addirittura ad elogi”.[42] Ne risulta, quindi, un secondo dato caratterizzante la manodopera italiana: il difficoltoso inserimento lavorativo come concausa di una rilevata minore efficienza.

I fattori della produzione: il capitale umano

Nel fattore lavoro rappresentato dagli Internati Militari Italiani ricomprendiamo anche il c.d. “capitale umano”, il capitale cioè di salute, formazione, conoscenze, pratiche, che rende la manodopera in grado di sfruttare al meglio la tecnologia e di produrre di più a parità di mezzi. Elementi quali la formazione, l’impiego secondo le specializzazioni professionali, la conoscenza della lingua, la giusta alimentazione, la protezione dagli infortuni sul lavoro rientrano in questo ambito. Quale impatto hanno avuto sul contributo degli I.M.I. all’industria tedesca?

L’assegnazione secondo specializzazioni professionali[43] e la formazione rivestono un’importanza capitale, a maggior ragione laddove alla Wehrmacht viene imposto di reclutare settori della popolazione prima indenni dalla leva, come i lavoratori specializzati dell’industria. Di estrazione maggioritariamente contadina – come detto – sembra però che la maggior parte degli Internati Militari Italiani non dichiari una specializzazione o un mestiere durante i procedimenti di verifica delle competenze nei campi. Solo il 10% dei militari italiani risulta, così, impiegato nel presunto settore di propria competenza (al settore agricolo o alimentare viene infatti destinato nel corso del 1944 poco meno del 10% degli internati), mentre la maggioranza degli I.M.I. destinati all’industria pesante sembra provenire di fatto da settori artigianali e impiegatizi. A questa situazione iniziale di bassa specializzazione, si aggiunge poi, col tempo, una sempre minore disponibilità all’addestramento da parte delle aziende, se non con una “rudimentale formazione professionale” che, di fatto, relega gli I.M.I. ad impieghi da manovali o lavoratori non specializzati.[44]

Riguardo, invece, le misure di tutela della capacità produttiva in termini di salvaguardia dell’integrità personale, un decreto di Speer del 1944 dà alle aziende la possibilità di decidere se proseguire o meno il lavoro durante i bombardamenti aerei, divenuti frequentissimi, e causa di frequenti interruzioni della produzione. Significative, anche, le disposizioni ufficiali che restringono l’uso dei rifugi antiaerei delle aziende ai soli lavoratori tedeschi che porterebbero, tra l’altro, a sovrastimare il numero degli infortuni registrati ai danni dei lavoratori stranieri rispetto ai tedeschi, laddove la maggior parte delle morti di prigionieri in bombardamento viene rubricata come “incidente sul lavoro”. Tutti questi fattori hanno un’innegabile ricaduta soprattutto nel settore minerario, dove la formazione, ma anche l’informazione sul posto di lavoro, non sono accessibili perché in tedesco – con conseguente disattenzione delle norme di sicurezza – ma anche sul settore degli armamenti, vista l’importanza strategica della produzione, obiettivo privilegiato di attacchi aerei alleati. Tutti fattori esterni, questi, che possono aver influito pesantemente sulla qualità del lavoro degli italiani. Si aggiunga, oltre a ciò, che l’alternarsi delle competenze del “Servizio di Assistenza agli Internati“[45] e della Croce Rossa Italiana non giova definitivamente al benessere degli internati. In base alla Convenzione di Ginevra, infatti, i prigionieri francesi, belgi, inglesi e americani possono contare sulle spedizioni di generi alimentari effettuate dalla Croce Rossa Internazionale che integrano l’apporto calorico e nutritivo delle razioni dei campi. Ne sono esclusi i sovietici, in quanto l’U.R.S.S. non vi aderisce, e gli italiani che, a seguito del cambio di status da prigionieri a Internati militari, devono sottostare ai poco efficaci invii del S.A.I. e della C.R.I..[46] Pesante è, in questa prospettiva, il dato delle morti accertate durante la prigionia. I casi documentati dal Comitato Generale Onoranze e Caduti di Guerra[47] ammontano a 42.257 caduti, di cui una piccola parte internati civili. Lo stesso Schreiber riporta la cifra di 40-45.000 militari italiani “trucidati, uccisi e deceduti”[48], includendo anche le vittime in battaglia durante le altalenanti le giornate che seguono l’8 settembre 1943.

Alimentazione come incentivo e retribuzione

Quella della malnutrizione è, purtroppo, esperienza comune riportata dalla memorialistica, ancor più esacerbata, secondo alcuni autori, dal fatto che certi cibi poco si confanno alle abitudini alimentari degli I.M.I. più di quanto non lo siano per i prigionieri dell’Europa d’oltralpe. C’è da aggiungere, poi, che dall’autunno del 1943, a causa di scarsi raccolti, si assiste ad una progressiva riduzione delle razioni alimentari di prigionieri, internati e lavoratori civili[49] soprattutto nei settori estrattivo e dell’industria pesante. Aumenta così il numero di lavoratori dichiarati malati o inabili, tra cui molti I.M.I.. Si potrebbe obiettare che, applicandosi il principio di gerarchizzazione delle nazionalità – già richiamata per l’attribuzione ai settori produttivi – anche ai regimi alimentari, gli Internati Italiani godano sulla carta di una distribuzione di razioni migliore rispetto agli Ostarbeiter. Vero, in parte, se si tiene conto della distribuzione all’interno dello stesso settore o distretto. Ampliando, però, la prospettiva all’insieme del territorio del Reich, si deve considerare come le richiamate ristrettezze nelle forniture alimentari degli anni 1944-45[50] vengano ad incidere proprio sulle zone a prevalente vocazione industriale, quelle cioè dove risiede e lavora la maggior parte degli I.M.I., a fronte di un maggiore relativo “benessere” delle regioni agricole tedesche, dove la loro presenza è minore. Un ulteriore fattore distintivo dell’esperienza degli I.M.I., questo, capace di influenzare il giudizio storico sul contributo da essi fornito all’industria tedesca di guerra.

Un secondo elemento passibile di limitare il rendimento della forza lavoro è poi da tenere in considerazione. E’ il cosiddetto sistema della Leistungsernährung (alimentazione in base al rendimento) in base al quale le razioni “ufficiali” destinate ai prigionieri e agli internati possono essere aumentate per premiare le “squadre di lavoro” più efficienti o diminuite per punire quelle meno efficienti. In realtà tutto ciò si traduce in un ulteriore strumento punitivo in mano alle aziende che indebolisce ancora di più la manodopera. Il sistema viene applicato agli I.M.I. a partire dal febbraio 1944, ma già dal 1 giugno di quell’anno, a causa della progressiva denutrizione della maggior parte di essi, “l’OKW è costretto a limitare la portata applicativa del decreto: da allora solo gli internati in buone condizioni fisiche sono passibili di simili misure punitive”.[51]  Già dal 1943, poi, alcuni decreti avevano concesso alle aziende di erogare ulteriori “premi”, consistenti in supplementi alimentari integrativi delle razioni ufficiali, sulla base del rendimento e non più del tipo di mansione (pesante, molto pesante, notturna ecc.)[52]. Anche questa misura finisce indubbiamente per favorire i lavoratori già inseriti, a quella data, nel ciclo produttivo o più specializzati che offrono un rendimento migliore e, di fatto, solo pochi I.M.I., nei periodi iniziali della prigionia, ne usufruiscono. Per molti, in sintesi, la mancanza di sufficiente alimentazione genera una spirale negativa che ne compromette ulteriormente il rendimento, tant’è che, dall’inizio del 1944, non pochi Uffici armamenti e direzioni aziendali raccomandano di trasferire, almeno temporaneamente, al settore agricolo i militari internati particolarmente malnutriti.

Quale incidenza, infine, per il fattore retribuzioni? Se è vero che ai lavoratori coatti viene versato nominalmente un salario, nell’ordine dei 3/4 della paga di un lavoratore tedesco,[53] è anche vero che il 55-60% dell’importo è versato allo Stalag per la copertura delle spese di vitto e alloggio, mentre il restante viene pagato al prigioniero sotto forma di Lagergeld[54]. Dragoni fornisce informazioni sui salari mensili lordi e netti in questi termini: “per ciascun internato lo Stalag ha accreditato 32 marchi al mese a fine 1943, aumentati a 50-52 mk nel 1944, ma col passaggio a libero lavoratore viene accreditato uno stipendio lordo mensile di 180/220 R. Mark del quale, detratti contributi e spese di mantenimento, restano dagli 80 ai 150 RM mensili” [55]. In realtà, però, data la scarsità del potere d’acquisto del Lagergeld, la penuria di merce che può essere acquistata e la discrezionalità dei datori di lavoro, anche il fattore retributivo sembra contribuire poco al miglioramento delle condizioni di vita degli I.M.I., non più di altri tipi di baratto effettuati nei campi: oggetti personali di valore (fedi, orologi..), sigarette, indumenti in cambio di cibo etc.

 

6.  Lavoratori civili: 1944-45

A partire dalla metà del 1944, la posizione amministrativa e lo status degli Internati Militari, nel quadro produttivo e di sfruttamento della manodopera in Germania, cambiano di nuovo. A fronte di pareri contrari delle autorità tedesche – che contestano il già ricordato scarso rendimento degli italiani – nel maggio del 1944 viene accordata una sperimentazione dello status di “lavoratori civili” ad una quota ridotta di I.M.I.[56]. La questione si sblocca in corrispondenza di pressioni di Mussolini su Hitler nell’estate del 1944 e viene resa nota a fine luglio dopo il citato annuncio della “guerra totale” del Führer. Tra il settembre e l’ottobre 1944, a seguito dei richiamati stravolgimenti di status, quindi, gli I.M.I. censiti calano conseguentemente da 449.431 a 174.987 unità. A fine 1944 ne vengono censiti 78.508, cifra che si avvicina al totale di coloro che non hanno beneficiato del cambio di status sia perché lavorano all’interno della Wehrmacht o perché non si trovano nel Reich, sia perché ufficiali, inabili o non affidabili agli occhi dei tedeschi. La maggior parte degli I.M.I., invece, sottratta alla competenza dell’amministrazione militare dei lager (OKW), viene trasferita nei “campi per lavoratori civili stranieri” che dipendono direttamente dalle aziende in cui sono impiegati o dal DAF, il sindacato unico dei lavoratori tedeschi a cui spettano anche le competenze in fatto di abbigliamento e tempo libero. Tutto ciò porta ad un allentamento nella sorveglianza e ad una maggiore possibilità di movimento, sebbene con restrizioni, al di fuori dei campi. E’ in questa fase che la memorialistica si lascia andare a considerazioni più ottimistiche sul presente e sul futuro degli Internati[57].

Nel cambio di inquadramento giuridico da I.M.I. a “lavoratori civili” la letteratura ha identificato due obiettivi principali: uno riconducibile alla parte tedesca e uno alla parte italiana. Da parte tedesca si ricerca un incremento della produttività dell’industria, attraverso il miglioramento delle condizioni dei lavoratori: non a caso il cambio avviene in concomitanza con il lancio da parte di Hitler delle misure per la “guerra totale”[58]. Obiettivo secondario sarebbe, inoltre, indurre un cambio di atteggiamento degli I.M.I. nei confronti del Reich, sia perché essi non sembrano più disposti a venire impiegati come lavoratori coatti prigionieri, sia perché il progressivo peggioramento delle loro condizioni fisiche ed alimentari ne ha di fatto minato il rendimento. Tra i fautori di questa proposta c’è Sauckel che cerca una via di uscita alla scarsa riuscita delle ultime politiche di reclutamento della manodopera, mentre l’OKW resta contrario temendo di vedere sottratta la sorveglianza dei prigionieri alla competenza dell’esercito. Scopo della Repubblica Sociale Italiana sarebbe, invece, riconquistare la fiducia dei propri connazionali internati, anche con l’intento di rivitalizzare le adesioni alla R.S.I. e al suo esercito ridotte ai minimi. Il cambiamento di status, quindi, come ulteriore tentativo di propaganda.

In termini pratici, il primo effetto della dichiarazione ufficiale di cambio di status del 3 agosto 1944 è il passaggio delle squadre da lavoro degli I.M.I. al cosiddetto “status civile” (Zivilverhältnis). Ciò comporta l’impegno a lavorare per la Germania fino alla fine della guerra alle stesse condizioni della manodopera civile, sottraendosi così al controllo dell’OKW, ed il passaggio dalla giurisdizione militare a quella civile con conseguente assegnazione alla Gestapo[59] dei compiti di sorveglianza e repressione dei reati considerati più gravi. Secondo testimonianze riportate da Ugo Dragoni, però, il passaggio non avviene in maniera maggioritariamente volontaria.[60] Questa scarsa adesione (circa il 30% ad inizio settembre 1944) spingerebbe anzi l’OKW a soprassedere il 4 settembre alla dichiarazione d’adesione firmata da ciascun internato (una sorta di adesione volontaria allo sforzo bellico tedesco) e ad effettuare – entro il 23 settembre 1944 – il cambio d’ufficio anche per chi si sarebbe in un primo momento rifiutato. La rivoluzione amministrativa, tendente ad equiparare gli ex-internati ai lavoratori civili del Reich, si sostanzia anche nell’emissione di nuova documentazione agli ex-prigionieri. Dragoni[61] ricostruisce una lista di adempimenti per i nuovi “lavoratori civili” a riprova degli avvenuti progressi: ritiro delle competenze maturate per il lavoro interno con rilascio di ricevuta con firma; sottoscrizione dell’impegno di lavoro per il Reich; carta di rilascio dallo Stalag o di passaggio a civile dell’A.K. (Arbeitskommando); iscrizione all’Ufficio del lavoro e rilascio del libretto di lavoro; firma del contratto di lavoro con l’imprenditore; ritiro della tessera annonaria (Esskarte), del supplemento per lavoratori e della tessera del tabacco; documento di identità e nazionalità dell’Ambasciata o del Consolato della R.S.I.; tessera di controllo tedesco; tesserino personale di fabbrica (Ausweis); tessera bancaria per rimesse in Italia. A tutto questo va aggiunto il saldo in Lagermark convertito alla pari in Reichmark al momento dell’uscita dallo Stalag. Altre conseguenze del cambio di status sono: la facoltà, in realtà solo nominale, di essere adibiti a incarichi speciali (anche turni festivi o notturni) solo dietro consenso, il graduale miglioramento della situazione alimentare con aumento delle razioni (momentaneo e limitato al 1944, dato che la situazione nei primi mesi del 1945 peggiora drasticamente), miglioramento della condizione sanitaria con conseguente calo della mortalità e degli infortuni sul lavoro. [62]

Il salario viene finalmente equiparato (nominalmente) a quello di un lavoratore civile tedesco e predisposta l’affiliazione ad un’assicurazione malattia e infortuni. Fanno la loro comparsa tasse e contributi. A fronte, quindi, di un miglioramento innegabile delle condizioni di vita, si apprezza un limitato innalzamento del corrispondente potere d’acquisto delle retribuzioni. Nello schedario salari del settembre-dicembre 1944 della ditta Meier & Weichelt di Lipsia[63] (settore metallurgico) sono riportate le voci di trattenute al salario lordo che vengono applicate ai lavoratori italiani ex-I.M.I.: imposta sul reddito dal 5% all’11% del salario lordo; contributi previdenziali ed assicurativi tra il 7% e il 10% del lordo; contributo dell’1,5% per il Fronte tedesco del Lavoro (sindacato DAF); acconto sul salario 32-35% (non meglio definito); trattenuta per spese di vitto e alloggio tra i 40 e i 50 marchi. Ne consegue un salario netto pagato ai “lavoratori civili italiani” stimabile intorno al 10-30% del lordo.

Ultimo aspetto, infine, da citare è la coercizione al lavoro a danno degli ufficiali, nonostante l’articolo 27 della Convenzione del 1929 lo proibisca. Già alla fine del 1943 viene proposto di degradare quelli non collaborazionisti per renderli avviabili al lavoro, ma è solo nel 1944 che, prima con la richiesta di sottoscrizione di una dichiarazione di disponibilità al lavoro e poi con l’avviamento coercitivo generalizzato, vengono obbligati anch’essi. La disposizione delle SS a firma di Berger del 31 gennaio 1945, vista la cronica mancanza di manodopera nel Reich, destina al lavoro coatto tutti gli ufficiali italiani che non hanno compiuto i sessant’anni di età, vengono “esentati solo i generali, i cappellani militari, i medici, i malati cronici e gli ufficiali che avevano apertamente manifestato la loro ostilità nei confronti del regime”.[64]

7. Il contributo degli I.M.I. all’industria tedesca negli anni 1943-45. Conclusioni?

In sintesi, per dare risposta a come si sia strutturato il lavoro degli Internati Militari Italiani all’interno del Terzo Reich negli anni di prigionia 1943-1945 è necessario partire dalla situazione produttiva tedesca. L’intera prigionia degli italiani si inquadra, infatti, nel contesto della guerra tecnologica che, proprio nel 1943, raggiunge il culmine, legando le prospettive di vittoria finale alla capacità produttiva dei Paesi. Se dall’ottobre del 1943 in poi, le sorti dei nostri connazionali ricalcano quelle di prigionieri di altre nazionalità al servizio dello sforzo industriale, emergono nondimeno numerosi distinguo che rendono singolare la loro esperienza: l’assistenza carente del S.A.I. e della C.R.I., il generale scarso rendimento e la scarsa nutrizione, l’assegnazione prioritaria all’industria bellica e non secondo le competenze professionali, il cambiamento di status in “Internati Militari” etc.

Ma che effetto ha avuto tutto ciò sulla produzione tedesca? Se “fra l’agosto e il dicembre del 1944 la produzione di materiale bellico toccò livelli mai raggiunti in precedenza, […] [questo è dovuto] all’allungamento dell’orario di lavoro, la razionalizzazione dei processi produttivi, il provvisorio accantonamento di compiti di minor rilievo, la riduzione dei rifornimenti e un più marcato ricorso alla produzione di materiale bellico su basi artigianali. Ma un altro importante fattore alla base di questo aumento della produzione va individuato nella mobilitazione sempre orientata al rendimento – ma ancora da esaminare nel dettaglio – della manodopera straniera e dei prigionieri di guerra, che fu ottenuta in prevalenza con misure coercitive finalizzate ad aumentarne sempre di più il rendimento.”[65] La manodopera, quindi, come motore insostituibile della crescita produttiva tedesca. Ma questo è anche il limite delle ricerche sulla questione del lavoro degli I.M.I. in Germania: si è arrivati, nella ricerca storica, ad un esaustivo inquadramento della vicenda nel quadro dei centri di prigionia tedeschi, se ne è descritta la struttura, le vicende documentali che ne hanno influenzato lo sviluppo, gli elementi della vita quotidiana ed amministrativi che l’hanno contraddistinta. Manca però, ad oggi, la possibilità di “misurare” con scientificità l’apporto produttivo che hanno dato alla Germania. I dati sulla produzione tedesca di quegli anni, sebbene esistenti, sono di difficile utilizzo, l’universo degli I.M.I. assegnati alle fabbriche troppo vasto per poterne dare un quadro generale, le distorsioni storiche dei dati troppo probabili per poter desumere conclusioni. In definitiva, questa difficoltà nell’identificarne il contributo “fattivo” non sottrae però dignità alla vicenda del lavoro degli Internati Militari Italiani in Germania dal 1943 al 1945[66], che è stata prima di tutto una vicenda umana, di lavoro e sacrificio, al pari di quelle vissute da centinaia di migliaia di prigionieri in Europa.

 

 

 

Bibliografia

 

  • Luigi Cajani, Aspetti per una storia degli internati militari italiani in mano tedesca (1943-1945) attraverso le fonti d’archivio in Nicola Della Santa (a cura di), I Militari Italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, atti del convegno di studi Firenze 14/15 novembre 1985, Giunti, Firenze, 1986 pagg. 81-117
  • Simona Colarizi, Storia del novecento italiano. Cent’anni di entusiasmo, di paure, di speranza, RCS Libri, Milano, 2000
  • Nicola Della Santa (a cura di), I Militari Italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, atti del convegno di studi Firenze 14/15 novembre 1985, Giunti, Firenze, 1986
  • Ennio Di Nolfo, Storia delle Relazioni internazionali – dal 1918 ai giorni nostri, Laterza, Bari, 1994-2008
  • Ugo Dragoni, La scelta degli I.M.I. Militari italiani prigionieri in Germania (1943-1945), Le Lettere, Firenze, 1996
  • Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania, 1943-1945, Il Mulino, Bologna, 2004
  • Nicola Labanca (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), Le Lettere, Firenze, 1992
  • Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich: 1943-1945, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Roma, 1992
  • Roberto Socini Leyendecker , Aspetti giuridici dell’Internamento in Nicola Della Santa (a cura di), I Militari Italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, atti del convegno di studi Firenze 14/15 novembre 1985, Giunti, Firenze, 1986 pagg. 130-135
  • Claudio Sommaruga, Alcuni aspetti amministrativi della gestione degli IMI in Nicola Della Santa (a cura di), I Militari Italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, atti del convegno di studi Firenze 14/15 novembre 1985, Giunti, Firenze, 1986 pagg. 249-267
  • Luciano Zani, Resistenza a oltranza. Storia e diario di Federico Ferrari internato militare italiano in Germania, Mondadori Università, Milano, 2009

 

Siti internet

www.moosburg.org/info/stalag/laglist.htm

[1] Per “vocazione tecnologica” si intende “forza dell’apparato industriale e in particolare dell’industria pesante; capacità di sfruttare con rapidità le materie prime e le risorse tecnologiche e le fonti energetiche disponibili; possibilità di ottenere pezzi di ricambio per le macchine belliche e forniture sufficienti per le bocche da fuoco; una marina mercantile e militare di dimensioni sconosciute al passato; un’aviazione della quale la guerra d’Etiopia e la guerra civile spagnola avevano appena dimostrato il ruolo risolutivo; significava pensare a scontri combattuti su spazi illimitati con uomini e mezzi trasportati lungo linee di comunicazione efficienti e sicure” (Ennio Di Nolfo, Storia delle Relazioni internazionali – dal 1918 ai giorni nostri, Laterza, Bari, 1994-2008, pag. 312)

[2] Alla vigilia della seconda Guerra Mondiale (1938)  il potenziale industriale degli USA è due volte e mezzo quello tedesco, mentre la quota di produzione manifatturiera dei due Paesi sul totale mondiale è del 28,7% (USA) a fronte del 17,6% della Germania. La produzione bellica ne costituisce una quota consistente: nel 1937 la Germania dedica alle spese militari il 23,5% del reddito nazionale, l’URSS il 26,4%, il Giappone il 28,2%, l’Italia il 14,5%, mentre Gran Bretagna, Francia e USA si limitano al 9,1%, 5,7% e 1,5% rispettivamente. Già prima della guerra, dunque, gli USA hanno un evidente vantaggio strategico in termini di divario tra una grande capacità produttiva – primo potenziale industriale al mondo – ed un limitato impiego delle risorse per la produzione militare, suscettibile, di conseguenza, di maggiori margini di espansione. Minore potenziale risulta avere la Germania, che già dedica un quarto della suo reddito alle spese militari. (Dati citati in Di Nolfo , op. cit., pag. 313)

[3] Oberkommando der Wehrmacht

[4] Generalbevollmächtiger für den Arbeitseinsatz

[5] Dirigente regionale del partito NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei – Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori) ed a capo di un Gau/Land in cui è suddiviso il Reich

[6] Selbstverantwortung der Industrie

[7]“Dopo la massiccia ondata migratoria, però, il flusso di lavoratori sembra quasi esaurirsi: nessuno vuole più partire e molti vogliono addirittura tornare. Eppure la paga è buona e non manca il cibo. E’ l’atmosfera che si respira in Germania ad apparire soffocante agli emigrati italiani, trattati con disprezzo dai capireparto tedeschi e discriminati dalla popolazione locale quasi fossero prigionieri di guerra o peggio ancora deportati comuni […] Qualcosa dell’orrore quotidiano vissuto nei campi di concentramento nazisti arriva alle orecchie degli operai italiani” (Simona Colarizi, Storia del novecento italiano. Cent’anni di entusiasmo, di paure, di speranza, RCS Libri, Milano 2000)

[8] Fedele al concetto di priorità del fattore razziale, in una circolare segreta del 4 dicembre 1942, Himmler classifica i lavoratori civili in quattro categorie gerarchiche: italiani (perché alleati), i lavoratori “germanici” (fiamminghi, olandesi, norvegesi, danesi etc.), i popoli non germanici ma non ostili o già sottomessi (slovacchi, croati, bulgari, ungheresi, romeni, francesi, spagnoli) e i popoli slavi nemici, ossia i sovietici ed i cosiddetti Ostarbeiter.

[9] “Convenzione Internazionale sul trattamento dei prigionieri di guerra” (firmata a Ginevra il 27 Luglio 1929) articolo 27 “I belligeranti potranno impiegare come lavoratori i prigionieri validi, a seconda del grado e delle attitudini, ad eccezione degli ufficiali. I sottufficiali potranno essere costretti al lavoro di sorveglianza, a meno che siano loro stessi a domandare d’essere adibiti a lavori remunerativi”.

[10] L’articolo 29 sancisce “Nessun prigioniero sarà obbligato a lavori ai quali sia fisicamente inadatto”.

[11] L’articolo 31 stabilisce che “Le prestazioni d’opera dei prigionieri non avranno alcun rapporto con le operazioni belliche. E’ strettamente proibito adibire i prigionieri alla fabbricazione e al trasporto di armi e munizioni come pure al trasporto di materiale destinato a unità combattenti”.

[12] Per la trattazione della distinzione tra «guerra» e «stato di guerra» vedasi Roberto Socini Leyendecker , Aspetti giuridici dell’Internamento  in Nicola Della Santa (a cura di), I Militari Italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, atti del convegno di studi Firenze 14/15 novembre 1985, Giunti, Firenze, 1986, pagg. 133-134

[13] Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania, 1943-1945 , Il Mulino, Bologna, 2004,  pag. 87

[14] Dati tratti da Gabriele Hammermann, (op. cit.) pag. 89 elaborazione mia.

[15] Gabriele Hammermann, (op. cit.) pag. 88

[16] Gabriele Hammermann, (op. cit.) pagg. 87-88

[17] Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich: 1943-1945, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Roma, 1992 (pag. 223 dell’edizione tedesca, traduzione mia)

[18] Il 9 settembre il Comando Supremo della Wehrmacht emana una direttiva, sul trattamento dei soldati italiani che si trovavano nelle zone controllate dai tedeschi, che stabilisce che i “soldati italiani che non siano disposti a continuare la lotta al fianco dei tedeschi devono essere disarmati e considerati quali prigionieri di guerra” [Archivio Federale – Archivio Militare di Friburgo, RW 4/v. 902: OKW/WFSt/Qu 2 (S) Nr. 005117/43 g.kdos., 9.9.2943].

[19] Il 20 settembre Hitler dispone che i “prigionieri di guerra italiani” devono essere denominati “Internati militari italiani”. Le direttive di massima del 15 settembre [e precedenti] andavano corrette in tal senso [Archivio Federale – Archivio Militare di Friburgo, RW 4/v. 508 a: Oberkommando der Wehrmacht Nr. 005282/43 g.kdos/WFSt/Qu 2 (S) II. Ang., F.H.Qu., den 20.9.1943]; nel testo originale si può leggere: ” Per ordine del Führer e con effetto immediato, i prigionieri di guerra italiani non devono essere più indicati come tali, bensì con il termine di ‘internati militari italiani’. Nell’ordine di riferimento le parole ‘prigionieri di guerra’ devono pertanto essere sostituite con la suddetta nuova denominazione.”

[20] Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 43

[21] Ugo Dragoni, La scelta degli I.M.I. Militari italiani prigionieri in Germania (1943-1945), Le Lettere, Firenze, 1996, pag. 73

[22] In un ordine del giorno conservato nel museo del campo Stalag III A di Luckenwalde, una cittadina a 30 km a sud di Berlino, da me visitato nel maggio del 2009, si legge che il giorno 16 settembre 1943 risulta essere arrivato un vagone di militari italiani qualificati come KGF cioè Kriegsgefangenen (prigionieri di guerra). Tra i militari figurano un ufficiale, 4 sottufficiali e 24 soldati. Trattandosi di un campo di transito, una tabella di presenze nel campo per nazionalità fornisce la consistenza dei flussi di italiani censiti: 15.084 all’ 01.10.1943, 8.210 all’01.02.1944,  3.831 a settembre 1944 e 1.519 al 01.12.1944.

[23] Gerhard Schreiber calcola che furono complessivamente catturati 58.722 soldati in Francia, 321.000 in Italia, 430.000 nell’ area sud orientale, per un totale di oltre 800.000 soldati prigionieri. Di questi, circa 186.000 – che Schreiber chiama “fedeli all’alleanza” – decisero di mettersi a disposizione della Wehrmacht o della nascente R.S.I. Da qui il dato da più parti condiviso di oltre 600.000 militari internati nei campi di prigionia del Reich. Dati tratti da Gerhard Schreiber  (op. cit.)  pagg. 126, 138 e 455.

[24] Ciascun campo viene identificato da una sigla comprendente il codice del distretto in cui sorge (in numero romano) ed una lettera progressiva. Per una lista esaustiva dei campi di prigionia tedeschi: www.moosburg.org/info/stalag/laglist.html

[25] Gerhard Schreiber (op. cit.) tabella 18, pag. 416

[26] In tedesco Stalag sta per Mannschaftsstammlager ossia “campi per la truppa” ed Oflag per Offizierlager  “campi per gli ufficiali”

[27] Gabriele Hammermann (op. cit.) pagg. 39-40

[28] Joseph Goebbels, già il 21 settembre 1943, annota sul suo diario come la carenza di manodopera porti tutti i settori dell’economia tedesca a richiedere l’impiego della nuova forza lavoro rappresentata dagli I.M.I. :“Adesso tutti, ma proprio tutti quelli che hanno bisogno di manodopera si buttano sugli italiani”, Joseph Goebbels, Tagebücher, pag 427, 21.9.1943

[29] Ugo Dragoni, (op. cit.) pag. 99

[30] Gerhard Schreiber (op. cit.) Tabella 19 pag. 417, integrata con percentuali in Gabriele Hammermann (op. cit.) tabella 1 in appendice pag.383-384

[31] Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 70

[32] Luigi Cajani in Nicola Della Santa (a cura di) (op.cit.) pag. 83

[33] BA, R 41, vol. 280, f.169: Der Beaufrtrage fuer den Vierjahresplan, GBA, Der Arbeitseinsatz in 3. Quartal 1943, 5.10.1943; citato in Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 93.

[34] “Gli Stati Uniti, che producevano circa 3.000 aerei all’anno prima della guerra, fecero salire rapidamente la produzione sino a oltre 96.000 aerei nel 1944, per un totale di 275.000 aerei prodotti durante il conflitto (dei quali 40.000 furono trasferiti agli Alleati); la produzione americana di carri armati, praticamente inesistente all’inizio della guerra, salì a 14.000 unità nel 1941 e a 21.000 nel 1943 e 1944. I Tedeschi alla vigilia della guerra producevano circa 8.000 aerei all’anno; gli Italiani quasi 2.000 e i Giapponesi circa 4.500. I Tedeschi e i Giapponesi (in minor misura e per meno tempo gli Italiani) riuscirono ad accrescere la dimensione del loro sforzo produttivo.”. Ennio Di Nolfo (op. cit.) pag. 315

[35] Reichsarbeitsministerium und Generalbevollmaechtiger fuer den Arbeitseinsatz (a cura di), „Der Arbeitseinsatz im Grossendeutschen Reich“, 1 (1944): 31.1.1944 (15.11.1943), pag.3; 2/3 (1944): 31.3.1944 (15.2.1944), pag.63; 6/7/8 (1944): 21.8.1944 (15.5.1944), pag.51; 10 (1944): 31.10.1944 (15.8.1944), pag. 23 citato in Hammermann (op. cit.) pag. 93.

[36] Gabriele Hammermann (op .cit.) pag 83

[37] Le caratteristiche degli alloggi per i prigionieri devono rispettare certe regole: avere finestre munite di inferriate e porte chiudibili a chiave, trovarsi all’interno di un campo con filo spinato ed essere sorvegliati da un numero adeguato di sentinelle. Il 2 ottobre 1943 “Speer emanò un’ordinanza con la quale dispose di accantonare le questioni della sicurezza in modo da utilizzare subito i vari campi. […]. Il 20 ottobre 1943, il dirigente per le questioni concernenti i prigionieri di guerra ordinò di non considerare più prioritarie le questioni tecniche e di sicurezza, al punto che venne perfino ordinato di affidare parte dei compiti di sorveglianza, che avrebbero dovuto essere svolti dal personale tedesco, a sottufficiali italiani”. In BAMA, RH 49 vol. 35: OKW, Chef Kriegsgef. Org. III, 2.10.1943; ibidem: OKW, Chef Kriegsgef. Org III b, 14.10.1943 citato in Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 84

[38] Un interessante compendio statistico su vari dati amministrativi degli I.M.I. (salari, documenti, alimentazione, assistenza sanitaria, caduti, prezzari nei lager, retribuzioni ecc) è il lavoro di Claudio Sommaruga, Alcuni aspetti amministrativi della gestione degli IMI, in Nicola Labanca (a cura di) (op. cit.) pagg. 249-267

[39] Nel settore dell’industria pesante e nell’industria meccanica l’orario, compreso tra le 52 e le 62 ore settimanali, prevedeva per gli stranieri ed i prigionieri il disbrigo dei turni più gravosi. Nel settore agricolo essi venivano messi a svolgere i lavori di raccolta più duri, mentre nel settore tessile l’orario si aggirava intorno alle 60 ore settimanali.

[40] Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 114

[41] Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 115

[42] Luigi Cajani (op. cit.) pag. 94

[43] “Particolarmente richiesti erano gli operai specializzati, gli elettricisti, gli artigiani e i meccanici, e in particolare i meccanici per auto. Decisamente in numero limitato al confronto con gli altri internati, questi lavoratori  venivano rapidamente prelevati dagli Stalag e, a differenza degli altri, avviati subito al lavoro. I prigionieri fisicamente molto robusti venivano invece scelti per il lavoro in miniera e come braccianti e manovali.” Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 107

[44] C’è da dire che le aziende, data la pressione per una sempre maggiore produzione e la precarietà delle situazioni di impiego, si dimostrano piuttosto restie a trasmettere a maestranze straniere nozioni specialistiche indipendentemente dalla durata della loro occupazione e dal posto che occupano nella gerarchia sociale della fabbrica.

[45] Il S.A.I.  costituito e diretto dall’Ambasciata della Repubblica Sociale Italiana a Berlino

[46] Secondo i documenti del S.A.I. e della C.R.I. da giugno 1944 (quando il S.A.I. entrò pienamente in funzione) a settembre 1944, arrivarono in totale nel Reich 262 vagoni di aiuti destinati agli italiani a fronte dei 250 previsti ogni mese (con una media di 5,3 kg di cibo per ogni internato durante tutto il periodo giugno-settembre 1944). A partire dalla trasformazione in “lavoratori civili”, nell’autunno del 1944, il flusso cessò poi quasi del tutto [tranne che negli Oflag dove la maggior parte delle consegne ebbe luogo tra settembre 1944 e febbraio 1945] anche a causa delle scarse possibilità di reperire in Italia le risorse alimentari da inviare. In due inchieste ai reduci del 1986 e del 1990 , l’87-88% degli intervistati dichiarò di non aver mai ricevuto, durante tutta la prigionia, aiuti alimentari dal S.A.I. – FBA Micheletti, Federazione Provinciale ANEI Brescia, Questionario A futura memoria, 1986 e  Gabriele Hammermann, Indagine svolta su 300 questionari in 14 sezioni ANEI nel 1990 citate in Gabriele Hammermann (op. cit.)

[47] Pubblicazione del Ministero della Difesa, Militari Italiani caduti nei lager nazisti di prigionia a e di sterminio, Roma, 1975, pag 79,

[48] Gerhard Schreiber (op. cit.) pag. 694

[49] “Alla fine del 1943, un cattivo raccolto, la scarsità di fertilizzanti, il progressivo ritiro dai territori occupati e la critica situazione dei trasporti provocarono una seria carenza di patate e verdura, soprattutto in alcune regioni (Ruhr, Sassonia, Turingia e Alta Slesia) […] nelle regioni minerarie e fortemente industrializzate, che erano poi le regioni in cui la presenza degli IMI era più diffusa. La conseguente riduzione delle razioni ufficiali colpì in primo luogo gli internati italiani, i «lavoratori dell’Est» e i prigionieri di guerra sovietici.”  Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 133

[50] Nel 1944 le razioni alimentari dei prigionieri di guerra e degli internati attraversano quattro principali momenti: fino alla metà del 1944 vengono ancora suddivise per nazionalità (lavoratori civili, prigionieri di guerra, prigionieri sovietici e lavoratori dell’Est); ai sovietici vengono riservate meno proteine e prodotti più scadenti. Dal 21 agosto al 30 settembre 1944, tutte le razioni dei prigionieri sono equiparate a quelle dei tedeschi, mentre da ottobre si verifica una generale diminuzione delle razioni fino a consistere in 320 grammi di pane, 36 di carne, 31 di grasso, 21 di preparati alimentari, 25 grammi di zucchero e marmellata al giorno. Completano le razioni, patate e verdura secondo l’approvvigionamento del momento. La fase più drammatica è però nel gennaio 1945 quando le razioni vengono ulteriormente ridotte di un 20%, fornendo a fine conflitto un apporto calorico (teorico) di appena 1.350 Kcalorie (secondo i dati della Croce Rossa Internazionale).

[51] Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 144

[52] In linea generale i supplementi consistevano in un’aggiunta di calorie (da +179 Kcal a +812 Kcal a seconda che si trattasse di lavori a lunga durata, pesanti, molto pesanti o in miniera) che venivano erogati solo in presenza di un aumento delle ore lavorate (intorno alle 75 settimanali. Vi erano anche premi in tabacco, consistenti in 75 sigarette mensili.

[53] Passibile di aumento fino ad un 10% in caso di buon rendimento e di riduzione fino al 50% in caso di (vero o presunto) cattivo rendimento

[54] Buoni nominali corrispondenti a 1, 2, 5, 10, 20 Reichsmark emessi dall’OKW, spendibili soltanto all’interno dello Stalag e cambiati in marchi correnti presso la tesoreria del campo, spesso in regime di 2 a 1.

[55] Ugo Dragoni (op. cit.) pag. 106

[56] Hammermann parla di 500 uomini (pag. 294), mentre Cajani (pag. 96) parla di 5.000 I.M.I.

[57] “Passati poi civili, gli Italiani stettero molto meglio. Avevano rancio più abbondante, e soprattutto potevano arrangiarsi meglio. I malati della nostra infermeria diminuirono di molto, e fu assai minore il numero dei morti”. Don G. Barbero, “La croce”, p.31 riportato in Ugo Dragoni (op. cit.) pag. 155

[58] “La direttiva emanata da Hitler il 25 luglio 1944 sulla “guerra totale” prevede lo sfruttamento di tutte le residue potenzialità militari ed economiche della nazione. Le nuove assegnazioni di manodopera dovevano essere adeguatamente ripartite fra la Wehrmacht e l’industria bellica. Oltre alle istituzioni statali ora bisognava porre sotto controllo senza eccezioni anche le imprese. […] Anche in un anno estremamente difficile come il 1944, Speer riuscì a imporre la sua linea consistente nell’impiegare gli I.M.I. in primo luogo nell’industria bellica. Sauckel, invece, solo in minima parte riuscì a tradurre in pratica i suoi programmi in tema di organizzazione del lavoro basati prevalentemente sulle necessità complessive dell’economia”. Gabriele Hammermann, (op. cit.) pag. 95

[59] Geheime Staatspolizei – Polizia segreta di Stato

[60] Dragoni cita fonti, al contrario, che ricordano come “la massa rifiutò questa soluzione”, e che “non fu un invito, fu un ordine”, o ancora che “dapprima tentarono di «civilizzarli», come dicevamo noi, facendo loro firmare una carta, in cui si dichiarava che volontariamente rinunziavano alle loro qualifiche di prigionieri, che pur volontariamente stipulavano un contratto di lavoro con la ditta. Si rifiutarono quasi tutti di firmare e allora furono passati civili d’autorità” Testimonianza di Don G. Barbero, “La croce”, p.30 riportato in Ugo Dragoni (op.cit.) pag. 155

[61] Ugo Dragoni (op. cit.) pag. 105

[62] Su questo punto gli studi non concordano. Secondo Hammermann “alcuni miglioramenti apportati dal cambiamento di status furono vanificati dalle misure adottate nel quadro della «guerra totale». Molte imprese, per esempio, introdussero la settimana lavorativa di settantadue ore, […] il carattere obbligatorio del lavoro cambiò solo gradualmente, […] ma pare che solo poche imprese si siano sentite in dovere di rivedere le norme, spesso assai approssimative, in materia di sicurezza sul lavoro. Gli incidenti sul lavoro continuarono dunque a essere tutt’altro che rari”. Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 301

[63] STA Leipzig, Fa. Meier & Weichelt, Eisen– und Stahlwerke, Leipzig, vol. 834: Schedario salari, settembre-dicembre, 1944.

[64] Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 313

[65] Gabriele Hammermann (op. cit.) pag. 100

[66] Secondo Attilio Bruno, ufficiale di collegamento presso l’esercito americano, nel giugno 1945 circa 350.00 italiani si trovano nella zona occupata dagli alleati e 300.000 nella zona orientale occupata dai sovietici, ricomprendendo in questa cifra sia gli ex-I.M.I., sia i lavoratori civili di vecchia data.

 

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