Luigi Marsibilio
Nel 1915 quando l’Italia entrò in guerra, nota il Segato, “sugli altri fronti europei, per le forze dell’Intesa, la situazione bellica era alquanto critica. Ad Ypres gli inglesi erano stati molto provati. La cittadina belga era stata uno dei campi di battaglia più sanguinosi di tutto il fronte occidentale, con due caratteristiche principali: qui operarono in massa i soldati britannici ed i tedeschi utilizzarono le nuove armi chimiche per la prima volta su larga scala”. Il gas “mustard”, quello derivato dal cloro e gli altri agenti letali contemporanei, non sono altro che elaborazioni dei gas ideati e usati nella Grande Guerra. Inoltre, si delineava sempre più l’insuccesso della spedizione dei Dardanelli. La battaglia, per gli anglo-francesi, voleva essere decisiva per lo sfondamento di Gallipoli, verso Istanbul e il Bosforo. E invece le loro navi da battaglia subirono una cocente disfatta grazie alla capacità di resistenza dell’esercito ottomano che le mise a dura prova. Su un altro fronte, i russi che nell’aprile si erano resi padroni di Przemysl e che dai Carpazi si erano affacciati ai piani ungarici, nei quali avevano spinto qualche scorreria, attaccati da poderose forze tedesche, erano stati battuti a Gorlice e stavano ritirandosi col nemico alle calcagna. Ormai appariva chiaro come per parecchi mesi su quell’esercito non ci sarebbe stato da contare molto, perché, non solamente era stato battuto, ma la negligenza, la imprevidenza e fors’anche il tradimento, gli avevano fatto mancare armi e munizioni e già i russi stavano abbandonando le loro fortezze in Polonia per ripiegare sulla linea Niemen – Bug. Sempre i russi, in Galizia avevano condotto due grandi offensive e gli austriaci erano stati costretti ad abbandonare Leopoli ripiegando sui Carpazi. Dopo la prima offensiva russa i tedeschi vennero in aiuto degli austriaci tentando di accerchiare i russi, che quindi dovettero abbandonare l’assedio di Przemysl.”
Tale situazione, quando noi entrammo in guerra, avrebbe consentito all’Austria-Ungheria, approfittando delle linee ferroviarie di cui disponeva, di concentrare rapidamente grandi forze contro di noi, per attaccarci prima che la nostra mobilitazione fosse stata ultimata, tanto più che gli austro-ungarici ben conoscevano le nostre condizioni e sapevano che non avremmo potuto essere pronti prima della metà di giugno. Questa convinzione la indusse a non trarre profitto: né della denuncia del trattato di alleanza, fatta il 4 maggio; né della pubblicazione, fatta verso la metà di maggio, del trattato di Londra, nel quale era esplicitamente dichiarato l’impegno da parte nostra d’entrare in guerra prima del 26 di quel mese; e ciò perché essa forse non concepiva come il nostro esercito si sarebbe avventurato in grandi operazioni offensive, prima d’aver compiuto la sua mobilitazione. Per resistere contro attacchi di carattere locale, il Comando Supremo austriaco pensava che sarebbero bastate le truppe che già si trovavano sul posto, qualora avessero saputo approfittare del terreno e dell’accuratissima sistemazione difensiva.
Certamente il nostro esercito non era ancora in grado di procedere a grandi operazioni offensive; tuttavia era stato posto in condizioni di poter approfittare delle notevoli masse raccolte alla frontiera, per irrompere di sorpresa al di là e conquistarvi punti dei quali avrebbe potuto poi giovarsi, a mobilitazione ultimata, sia per iniziare le grandi operazioni, sia per appoggiare la sua resistenza.
Le prime quattro battaglie lungo il corso del fiume Isonzo, si svolsero tra giugno e dicembre del 1915 ed ebbero carattere di guerra di posizione. Infatti, analogamente a quanto era avvenuto nelle prime fasi della guerra nel 1914, anche sul fronte italiano, l’inopinato trinomio reticolato – mitragliatrice – trincea aveva incanalato inesorabilmente il conflitto verso una gigantesca battaglia di posizione e di logoramento statico. Gli obiettivi territoriali che man mano venivano raggiunti erano pressoché trascurabili, ma l’Austria fu obbligata a inviare sul fronte italiano forze sempre più numerose.
Dal 24 maggio al 13 giugno, noi compimmo un primo sbalzo offensivo, che ci permise:
- l’azione di sorpresa del monte Nero, definita dalla Shalek come un colpo da maestri;
- la riconquista della dorsale Vrsic – Vrata e della testa di ponte di Plava (per la quale lo stesso Borojevic, nella sua relazione, giustifica col valore delle nostre truppe la propria sconfitta) e di un lembo del Carso a Monfalcone;
- la tenace resistenza ai contrattacchi nemici sulla cresta delle Alpi Carniche e sul medio Isonzo e le notevoli avanzate compiute nel Trentino ed in Cadore, dove l’ampia conca di Cortina cadde in pochi giorni nelle nostre mani.
Tutto un complesso di operazioni veramente onorevoli per il nostro esercito, i cui soldati, in pochi giorni, si erano imposti all’ammirazione dello stesso nemico e avevano mostrato di essere degni della vittoria.
Il balzo offensivo iniziale si era appena concluso che già il 21 giugno, il Generale Cadorna emanava gli ordini per la prima battaglia dell’Isonzo, indicando come obiettivo il campo trincerato di Gorizia, contro il quale la 2ª Armata avrebbe dovuto agire per conquistare monte Kuk e le alture Podgora-Oslavia; mentre la 3ª, pur avanzando con la destra ed il centro verso il margine dell’altopiano carsico, tra Monfalcone e Sagrado, avrebbe dovuto tentare con la sinistra di completare il passaggio dell’Isonzo, fra Sagrado e Mainizza.
La prima battaglia dell’Isonzo (23 giugno – 7 luglio).
Dopo il primo sbalzo offensivo, il nostro Comando Supremo aveva compreso che ben poco si poteva sperare dalle operazioni negli altri scacchieri, dato che i nostri mezzi erano inadeguati agli scopi e, deciso, per conseguenza, ad agire specialmente in quello isontino, il 21 giugno emanò l’ordine per le nuove operazioni, che furono le seguenti:
- operazioni contro il campo trincerato di Gorizia (2ª Armata: II e VI Corpo) e contro l’altopiano carsico sulla fronte Monfalcone – Sagrado (3ª Armata: Corpi d’Armata XI, V, VII), iniziatesi il 23 giugno;
- operazioni contro Tolmino (VI Corpo), che ebbero inizio il 1° luglio, come azione di concorso.
La forza operante era così composta:
- 2ª Armata – comandata dal Generale Capello: 10 divisioni, 160 battaglioni, 21 squadroni, 136 batterie;
- 3ª Armata – comandata dal Duca D’Aosta: 7 divisioni, 65 battaglioni, 90 squadroni, 76 batterie.
L’azione contro il campo trincerato di Gorizia e l’altopiano carsico comprese a sua volta:
- l’attacco a Plava;
- la conquista del Kuk (611);
- l’attacco della linea Sabotino – Oslavia – Podgora e l’attacco sul Carso, il quale, a sua volta, si svolse in tre fasi (23 – 28 giugno, 30 giugno – 2 luglio, 5 – 7 luglio).
Questa volta gli obiettivi assegnati alle due Armate erano vicini, poiché i primi combattimenti avevano già fatto svanire molte illusioni e consigliato ad emanare, il 16 giugno, la “Circolare sui procedimenti per l’attacco frontale nella guerra di trincea”. Ma le artiglierie erano ancora scarse ed i fanti dovevano ancora liberarsi dei reticolati o con le pinze o coi tubi di gelatina.
Per l’attacco al campo trincerato di Gorizia, il Comando Supremo si limitava a fissare come primi obiettivi:
- alla 2ª Armata (azione principale), le alture del Kuk 611, sulla sponda sinistra dell’Isonzo, e quelle di Oslavia – Podgora, sulla sponda destra;
- alla 3ª Armata (azione di concorso indiretto), il margine dell’altopiano carsico, tra Monfalcone e Sagrado, e la sponda sinistra dell’Isonzo in corrispondenza del San Michele. Inizio dell’azione il giorno 23; la 3ª Armata, con le sue artiglierie avrebbe dovuto battere anche il San Michele, in collaborazione con la destra della 2ª Armata.
Da parte nostra presero parte alla battaglia circa 250 mila uomini.
Di fronte alle Armate italiane era schierata la 5ª Armata austriaca (comandata dal Generale Borojevic), divisa in 5 settori, con un complesso di 109 battaglioni e di 114 batterie. Prese parte alla battaglia anche l’ala sinistra del gruppo Rohr e, complessivamente, noi ci trovammo di fronte circa 115 mila uomini. Le nostre truppe combatterono con fervido entusiasmo, ma la fortuna non fu pari al loro valore. Particolarmente cruenta fu la lotta nel settore della nostra 2ª Armata. Fanti ed alpini del IV Corpo invano cercarono di completare la conquista del massiccio del monte Nero. L’attacco da Plava al Cucco, affidato al II Corpo d’Armata (Reisoli), e quello della testa di ponte di Gorizia, condotto dal VI Corpo (Ruelle), non riuscirono.
La 3ª Divisione a Plava si prodigò nell’eseguire otto assalti consecutivi; ma soltanto Globna poté essere occupata. In modo analogo, nel settore di Gorizia, contro le alture di Oslavia-Peuma, Podgora e il Sabotino, le nostre truppe (Fanti, Carabinieri e Guardie di Finanza) videro fallire i loro sforzi generosi.
Ai piedi del Carso s’impegnarono le truppe della 3ª Armata. Ottenuta la rottura dell’argine del canale dei Dottori e quindi la riduzione dell’inondazione, truppe dell’XI Corpo (Cigliana) poterono passare l’Isonzo a Sagrado, congiungersi con quelle del VII (Garioni), già passate più a sud, ed assalire con esse i primi gradini dell’altopiano. Occupato il villaggio di Sagrado e gli speroni fra questa località e Redipuglia, si tentò, nei giorni 26 e 27 giugno, un’avanzata generale su tutto il fronte monte San Michele – monte Sei Busi, ma il tiro delle artiglierie austriache e le forti difese accessorie non consentirono che scarsi progressi. Selz, più volte presa e riperduta, restò in mano nostra il 29 giugno. Verso Sdraussina le difese di bosco Lancia e di bosco Cappuccio vietarono ulteriori progressi. Dopo una sosta di due giorni, a mezzogiorno del 30, le truppe della 3ª Armata ripresero l’attacco: il X Corpo, rinforzato da elementi dell’XI, puntò sulla zona Marcottini – San Martino – San Michele; il VII fu diretto a sud di Doberdò. Cominciarono così i leggendari combattimenti del San Michele; ma, a costo di gravi perdite, le nostre truppe poterono fare qualche progresso soltanto ad oriente di Polazzo e presso Redipuglia e riuscirono ad occupare i trinceramenti tra Polazzo e Doberdò. La 20ª Divisione si coprì di gloria.
L’arciduca Eugenio scrisse al Borojevic che su quell’altipiano “ la crisi delle truppe austriache aveva raggiunto il massimo grado”.
Alla fine della prima battaglia, la possibilità di impiegare altre forze fresche, che avessero immediatamente sfruttato il successo, avrebbe potuto spezzare la resistenza nemica. Ma la sera del 2 luglio le truppe della 2ª Armata erano già tutte in linea e le riserve del Comando Supremo ancora lontane. Era stato anzi necessario togliere alla 3ª Armata il VI Corpo per assegnarlo alla 2ª. Dopo una breve sosta per riordinare le forze e schierare nuovamente le artiglierie, il 4 luglio fu ripresa l’azione. L’XI puntò contro la linea San Michele – San Martino; il X Corpo, già padrone del ciglio dell’altopiano ad oriente di Polazzo, puntò contro il monte Sei Busi. Il VII continuò ad avere come obiettivo Doberdò. Dopo replicati sforzi, si poté vincere la resistenza delle trincee nemiche nella zona di Castelnuovo ed a Selz ed espugnare estesi trinceramenti anche fra il San Michele e San Martino da una parte e sulle falde del Sei Busi dall’altra. L’ultima fase della battaglia del Carso e di Gorizia fu contemporanea ad una poderosa offensiva della sinistra della 2ª Armata nella zona del monte Nero. I tentativi degli alpini per agire di sorpresa, come per la conquista del monte, fallirono. L’azione del IV Corpo si esaurì nella stessa giornata del 3 luglio. Il 7 luglio, per ordine del Comando Supremo, l’azione venne sospesa, in attesa di riprenderla al più presto con maggiori mezzi, specialmente di artiglieria.
Noi avevamo perduto poco più di 16 mila uomini, l’avversario 20 mila.
Dal punto di vista della condotta della battaglia i tre attacchi ordinati dal Comando Supremo si erano svolti indipendentemente e ciascuno con caratteristiche proprie. Quello di Plava era stato subito fronteggiato dagli austriaci; quello di Oslavia-Podgora aveva dovuto arrestarsi di fronte alla resistenza avversaria, nonostante gli sforzi delle nostre fanterie che si prodigarono generosamente; quello del Carso aveva dato risultati più tangibili, col passaggio dell’Isonzo, la conquista del primo gradino del Carso, in corrispondenza di Sagrado, Fogliano, Redipuglia e Selz e l’occupazione di zone idonee per lo schieramento delle artiglierie al coperto contro il San Michele. Sotto la nostra spinta, le posizioni difensive austriache subirono qualche oscillazione e, di fronte alla nostra ala destra (Carso), dovettero venire, in qualche punto, arretrate; ma, in complesso, resistettero saldamente.
Coi nostri limitati mezzi del 1915, non si poteva ottenere di più. Una grave condizione di inferiorità ci era imposta dal dominio delle posizioni del nemico, che poteva scorgere ogni nostro movimento e più facilmente regolare il suo tiro. Le nostre fanterie, mediocremente appoggiate dalle artiglierie e decimate da quelle avversarie e dalle mitragliatrici, si erano arrestate di fronte alle formidabili posizioni del Podgora, di San Martino, del Sei Busi, come davanti al Nad Logem, al Sabotino e ad Oslavia. Ed anche quando, a costo di ingenti perdite, i nostri Fanti erano riusciti a penetrare in qualche tratto dei reticolati e ad espugnare i ridotti nemici alla baionetta, un contrattacco in forze li aveva respinti sulla linea di partenza.
Tuttavia non si può negare che, nella prima battaglia dell’Isonzo, la nostra fanteria aveva combattuto con più ammirevole valore. La stessa battaglia ci aveva chiaramente rivelato le caratteristiche della guerra che ci apprestavamo a sostenere: era quella “guerra di posizione”, che si combatteva da un pezzo sugli altri fronti, ma della quale noi non avevamo ancora alcuna esperienza.
Nei giorni di questa prima, sanguinosa prova si ebbero episodi di valore sovrumano e si svolsero le epiche lotte della 20ª Divisione per la conquista del San Michele e del nostro VII Corpo d’Armata per quella dell’altopiano di Doberdò. Con la battaglia si ottenne un lieve progresso alla colletta di Monte Nero; si raggiunse la quota 1000 dello Sleme e del Mrzli; ci avvicinammo minacciosi alla testa di ponte di Tolmino: potemmo compiere qualche progresso verso Globna e Plava, occupare qualche difesa avanzata davanti a Gorizia, conquistare sul Carso le quote 92 ed 89; nonché le pendici di quota 170 e di monte Sei Busi; occupare Vermegliano e Selz.
La prima battaglia dell’Isonzo ci costò 2.275 caduti, dei quali 122 ufficiali, e 13.970 feriti, in confronto ai 20.000 uomini circa perduti dal nemico. A proposito di essa, il Krauss, Capo di Stato Maggiore al Comando delle truppe operanti sul fronte italiano, scrisse che: “l’avervi partecipato avrebbe sempre costituito un alto titolo di onore per i soldati austriaci.
La seconda battaglia dell’Isonzo (18 luglio – 3 agosto).
Appena undici giorni dopo la conclusione della prima, il Generale Cadorna fece iniziare la seconda battaglia e durante la quale, mentre la 2ª Armata doveva proseguire le operazioni verso Tolmino ed impegnare da Plava le forze nemiche, la 3ª Armata, opportunamente rinforzata, doveva svolgere l’azione principale con obiettivo il San Michele, caposaldo della difesa del campo trincerato di Gorizia. Come ricorda il Corselli, mentre terminava la prima battaglia dell’Isonzo, si erano riuniti a Chantilly (7 luglio) i rappresentanti dei Comandi dell’Intesa per coordinare le operazioni. Avevano deciso che i francesi e gli inglesi avrebbero iniziato al più presto le loro grandi offensive; che gli italiani avrebbero sviluppato attacchi verso Laybach-Villach ed i serbi avrebbero sferrato la loro offensiva. Il Comando Supremo mantenne fermo il concetto dell’offensiva sulla fronte Giulia e volle soltanto spostare la direzione dell’attacco: sia perché si erano rivelate più gravi le difficoltà dalla parte di Tolmino; sia perché appariva conveniente fare acquistare più spazio alla 3ª Armata, che aveva l’Isonzo alle spalle.
L’attacco principale fu quindi affidato alla 3ª Armata, per raggiungere la fronte M. Cosich – M. San Michele, mentre la 2ª Armata, da Plava a valle, con attacchi concomitanti, avrebbe impegnato le forze nemiche che la fronteggiavano. Nel settore della 3ª Armata, questa volta, invece di procedere all’attacco diretto della testa di ponte di Gorizia, avanzando nella cortina fra Sabotino e San Michele, le nostre forze dovevano mirare ad impadronirsi in precedenza del pilastro meridionale (San Michele, Sei Busi), operando con l’ala destra appoggiata al mare. Il mutamento derivava dal fatto che i risultati soddisfacenti, ottenuti sul carso nella prima battaglia, avevano fatto supporre che ivi avrebbe potuto avvenire il cedimento della resistenza nemica. Ed, invero, ai primi di luglio, la situazione dell’Armata del Borojevic era critica. La 3ª Armata rimase costituita dai Corpi XI, X, VII, ciascuno con due Divisioni, e dalle tre Divisioni di Cavalleria; e ricevette in rinforzo artiglierie pesanti campali e pesanti, tolte in gran parte alla 2ª Armata; ebbe quattro squadriglie aviatori per l’esplorazione ed altrettante per la ricerca degli obiettivi per le artiglierie e per l’osservazione del tiro. L’Armata teneva, per la battaglia, una Divisione in riserva. La 2ª Armata, costituita dai Corpi VI, II e IV, tenne due Divisioni in riserva. Il Comando Supremo aveva in riserva il XIV Corpo nella zona Tapogliano – Ruda. Lo schieramento di tutte le artiglierie pesanti e pesanti campali, fra il Korada e il mare, venne effettuato direttamente dal Comando Supremo e, per esso, dall’Ispettore generale di Artiglieria d’Armata. Il fuoco di artiglieria contro le difese nemiche doveva precedere l’azione delle fanterie per spianare loro la strada. I tiri, però, non dovevano essere rivolti particolarmente contro i reticolati, dei quali non era stata ancora ben valutata l’importanza; i varchi sarebbero stati aperti – così almeno si pensava – per effetto del fuoco diretto sui trinceramenti; a sussidio, durante la notte precedente l’azione, si sarebbero adoperati i soliti tubi di gelatina esplosiva.
La battaglia può essere distinta in due grandi fasi: la prima, dal 18 al 29 luglio fu la fase di massima violenza dove si sviluppò in pieno l’offensiva italiana e dove i risultati tangibili degli attacchi furono più evidenti. La fase successiva, dal 29 luglio al 4 agosto, vide la risposta austro-ungarica all’offensiva italiana, con lo sviluppo di alcuni contrattacchi locali.
Fin dal primo giorno emersero delle perplessità sulla efficacia della preparazione della nostra artiglieria in quanto, mentre venivano colpite le trincee e le fanterie di prima linea, l’artiglieria nemica veniva risparmiata, rimanendo quindi pronta ad intervenire contro le nostre fanterie, non appena queste si fossero lanciate all’attacco. Questo venne iniziato nel pomeriggio dello stesso 18 luglio. Contro la linea avversaria, che dal bosco Cappuccio andava al poggio di quota 170, sotto San Martino, furono lanciate le Divisioni 21ª e 19ª dell’XI Corpo d’Armata; la 20ª Divisione (del X Corpo) avanzò contro il fitto groviglio di trincee della zona centrale, tra il San Michele ed il Sei Busi; il VII Corpo contro il Sei Busi e le alture di Selz e di Monfalcone. Durante l’azione giunsero all’avversario forze provenienti dalla fronte balcanica, che migliorarono la sua situazione.
Attraverso qualche breccia aperta nei reticolati dalle artiglierie ed allargata poi per opera di audaci manipoli di arditi, il 10° reggimento fanteria (Brigata “Regina”) assaltò alla baionetta le trincee del poggio di quota 170, sbaragliando i difensori; la Brigata “Brescia” si spinse risolutamente fino al margine nord-ovest del bosco Cappuccio e le Brigate “Siena” e “Ferrara” penetrarono decise attraverso le difese di Castelnuovo, riuscendo alla fine, il giorno 19, ad occupare quel forte centro di resistenza. Liberate così dalla minaccia sul fianco destro, le truppe del San Michele poterono tentare uno sforzo supremo per la conquista del monte. Due colonne, composte da elementi delle brigate “Bologna” e “Regina” e di bersaglieri, convergendo verso la sommità da opposte direzioni, riuscirono finalmente a porvi piede nel pomeriggio del 20. Prima dell’alba però, un forte contrattacco di una intera Divisione austriaca investì le compagnie che occupavano la cima del San Michele e, dopo accanitissima lotta, riuscì a scacciarle dalla vetta. Allora il Comando della 3ª Armata impegnò il XIV Corpo d’Armata, inviatogli dal Comando Supremo, ripartendone le unità tra i Corpi d’Armata impegnati. Gli austriaci, insistendo nel contrattacco, volevano, dopo la riconquista del San Michele, ricacciare l’XI Copro d’Armata oltre l’Isonzo; ma non vi riuscirono e furono costretti a ripiegare sotto il fuoco delle nostre artiglierie, che li decimò sulle falde del San Michele.
Si concluse così la prima fase della battaglia, durata dal 18 al 23 luglio.
Seguì la seconda fase, dal 24 luglio al 3 agosto, per la quale la 3ª Armata mise a disposizione del Comando Supremo il XIII Corpo. Anche l’avversario aveva ricevuto notevoli rinforzi e la lotta si riaccese la sera del 24, con un attacco della nostra 14ª Divisione contro il Sei Busi, per estendersi il 25 e il 26 su tutto il fronte. Il 26 luglio si ritentò la conquista del San Michele. Una colonna, costituita dalla brigata “Bari”, dal III reggimento fanteria (della brigata “Piacenza”) e da un battaglione bersaglieri, benché flagellata dalla pioggia e sottoposta ai tiri dell’artiglieria avversaria, riuscì a raggiungere la sommità del monte; ma il terribile concentramento del fuoco austriaco ed un contrattacco di forze superiori le impedirono di rimanervi. Né miglior sorte ebbero i nuovi attacchi contro il Sei Busi, sferrati dalla 27ª Divisione. Furono espugnate le trincee di quota 111, primo gradino del monte; si progredì a nord-est di Vermegliano e ad oriente di Selz; più volte, nei giorni successivi, fu raggiunta anche la vetta (quota 118); ma, dopo una lunga e sanguinosa vicenda di attacchi e contrattacchi, si dovette alfine sgomberarla. La cima del Sei Busi, battuta com’era dalle opposte artiglierie, finì per restare “terra di nessuno”.
Vani riuscirono anche gli sforzi della 22ª Divisione a San Martino; mentre il X Corpo d’Armata riusciva ad occupare una larga striscia di terreno sino al ciglio della conca di Doberdò ed a stabilirsi su una linea che dal Sei Busi saliva verso nord, sino a circa 2 chilometri ad oriente di Castelnuovo, dove la sinistra del X Corpo si collegò con la destra dell’XI.
Anche sul fronte della 2ª Armata si era combattuto aspramente, per quanto essa dovesse svolgere soltanto un’azione di alleggerimento. Dei suoi tre Corpi d’Armata, il IV proseguì le operazioni al Monte Nero; il II si limitò a puntare offensive per fissare il nemico sulla fronte di Plava; il VI procedette verso Gorizia, tentando la conquista del Podgora e facendo dimostrazioni sull’Isonzo, fra Mainizza e Sant’Andrea, in modo da agevolare l’azione della 3ª Armata sul San Michele. Alla testa di ponte di Gorizia si combatté duramente dal 18 al 24 luglio. Sulla fronte del Podgora attacchi e contrattacchi si succedettero sino al 24 luglio e le truppe del VI Corpo riuscirono a tenere parte del terreno conquistato. La 12ª Divisione italiana si distinse per il suo valore. Scarsi risultati ottenne il II Corpo sulla fronte di Plava; mentre gli alpini del IV Corpo ed elementi dell’8ª Divisione allargarono l’occupazione del monte Nero, impadronendosi dell’altura a sud-est della cima, chiamata poi da noi monte rosso (quota 2163), sulla quale gli austriaci contrattaccarono invano per ben tre volte nella giornata del 21 luglio. In complesso la battaglia ci fruttò la conquista della linea fra le posizioni di q. 170, l’orlo originale della conca di Doberdò ed il Sei Busi e l’eliminazione del saliente di Sagrdado. Nella zona di Plava fu allargata alquanto la nostra occupazione attorno a Globna e fu compiuto un notevole progresso a est di monte Nero. Anche stavolta la linea di difesa nemica si era piegata, ma non spezzata e la battaglia non era riuscita a por fine a quella lotta di logoramento, nella quale avrebbe vinto chi avesse avuto maggiori disponibilità di mezzi e di riserve. Lo stesso Cadorna dovette riconoscere, infatti, che: “i mezzi in bocche da fuoco di medio calibro presso le Armate 2ª e 3ª, e soprattutto le munizioni, si rivelavano assolutamente inadeguate”. Forse sarebbe stato più opportuno riunire sulla fronte della 3ª Armata tutte le artiglierie di medio calibro di cui l’esercito disponeva.
La seconda battaglia dell’Isonzo, meglio preparata della prima, si era svolta accanitissima dal 18 luglio al 3 agosto, dal monte Nero al mare; ma, pur migliorando la nostra situazione, non ci aveva procurato vantaggi territoriali considerevoli, salvo la conquista quasi completa del ciglio tattico dell’altipiano di Doberdò. Essa si era svolta mentre le nostre truppe, sottoposte a sacrifici d’ogni sorta, venivano minacciate anche dall’epidemia colerica e ci aveva permesso di raggiungere per due volte il San Michele ed il Sei Busi, senza poterne peraltro conservare il possesso.
Noi vi perdemmo ben 1221 ufficiali e 32.246 soldati ed il nemico ebbe messi fuori combattimento ben 47 mila uomini (2); ma la battaglia fu da noi combattuta con una tenacia, che i Pitreich definì “stupefacente”, e con tanto valore, ds infliggere al nemico perdite che, per il VII Corpo d’Armata austriaco e la 20ª Divisione Honved, i documenti ufficiali nemici affermano terrorizzanti.
Secondo la stessa Relazione austriaca, alla fine di questa seconda battaglia, “tutti i Comandi elevati austro-ungarici erano costretti a chiedersi con grave preoccupazione se la 5ª
Armata e tutte le forze militari e le stesse energie dell’Impero avrebbero potuto sopportare il frequente ripetersi di simili, terribili sacrifici.
Ma anche questa nostra offensiva, già così ben avviata ai primi di agosto e prossima al conseguimento dello scopo (scrisse il Cadorna) dovette essere sospesa “per le tre principali, ben note ragioni e cioè: la penuria di munizioni, la deficienza dei velivoli e la lentezza con la quale si provvedeva a l’invio di complementi, sia di truppa che di ufficiali.”
Per conseguenza, prima di affrontare una nuova prova, per la quale sarebbe stato chiesto all’esercito uno sforzo ancora più grande, si rendeva indispensabile una sosta non breve, durante la quale si cercò di colmare così gravi lacune, istituendo uno speciale organo direttivo per le munizioni; mentre importanti operazioni venivano compiute in Carnia, in Val Boite, nel settore di Plezzo ed in quello di Tolmino.
Sui risultati conseguiti con le operazioni, che si svolsero dall’agosto all’ottobre 1915, presso Plezzo e presso Tolmino, e che portarono all’occupazione della conca di Plezzo, agli attacchi per il possesso del Rombon e del Javorcek ed alla temporanea conquista del Mrzli, il Generale Cadorna scrisse: “Conseguenze delle operazioni svolte. L’attacco generale confermò l’esistenza di una potente sistemazione difensiva nemica, quasi uniforme su tutta la linea dell’Isonzo, per superare la quale contemporaneamente su tutta la fronte, i mezzi in bocche da fuoco di medio calibro esistenti presso le Armate 2ª e 3ª (e soprattutto le munizioni) si rivelarono assolutamente inadeguati. Fu necessario quindi concentrare questi mezzi volta a volta, per il raggiungimento di singoli obiettivi, a nord, al centro e a sud, secondo che le circostanze consigliarono. Di pari passo si provvide ad organizzare nuovi mezzi in artiglierie di medio e grosso calibro, traendo materiali dalle fortezze, utilizzando materiali della Marina ecc.. Conviene però ancora tener conto di un altro importantissimo elemento: cioè della possibilità che, in settembre, si dia inizio al trasporto di grandi masse austriache contro di noi (cosa possibile dopo i grandi successi austro-tedeschi in Polonia). Queste masse potranno essere pronte ad operare contro di noi, al più presto, alla fine di settembre. Nell’eventualità che tale fatto si verifichi, noi dobbiamo approfittare del settembre per organizzare la difesa dell’Isonzo, aumentare le batterie di medio e grosso calibro ed accumulare la maggior quantità di munizioni, poiché solo da novembre queste potranno venir giornalmente rifornite nella quantità necessaria.
Il 6 settembre lo stesso Cadorna scrisse al Presidente del Consiglio, rilevando che:
“La nostra offensiva, già così bene avviata ai primi di agosto e prossima al raggiungimento dello scopo, aveva dovuto essere sospesa per tre principali ragioni: la penuria di munizioni, la deficienza di velivoli e la lentezza con cui il Ministero provvedeva all’invio dei complementi, sia di truppa che di ufficiali. Lo sforzo che intendevo richiedere alle nostre truppe doveva essere poderoso; esso quindi andava preparato in guisa che tutto contribuisse a renderlo tale. Affrontarlo prima di aver ottenuto i mezzi sarebbe stato un grave e pericoloso errore. E, poiché tali mezzi, per quanto era dato prevedere, non si sarebbero avuti in misura soddisfacente che verso i primi giorni di ottobre, così non sarebbe stato possibile riprendere, prima di quell’epoca, la sospesa nostra azione offensiva. La qual cosa non avrebbe infirmato sensibilmente la contemporaneità desiderata dal Comando francese, trattandosi, nel caso, di contemporaneità largamente approssimativa.
Benché le condizioni del nostro esercito non fossero quali avrebbero dovuto essere e benché la situazione generale non fosse, nell’autunno 1915, come ho accennato all’inizio, favorevole alle forze della triplice Intesa, il nostro Comando Supremo, aderendo alle sollecitazioni di quello francese, iniziò la grande offensiva che quasi ininterrottamente venne combattuta dal 18 ottobre al 2 dicembre 1915.
Essa comprese la terza e la quarta battaglia dell’Isonzo.
La terza battaglia dell’Isonzo (18 ottobre – 4 novembre)
Anch’essa ebbe come scopo la conquista del campo trincerato di Gorizia. Di conseguenza alla stessa parteciparono ancora una volta le nostre Armate 2ª e 3ª , che combatterono accanitamente dal Rombon al mare, su quasi 90 chilometri di fronte. In complesso 312 battaglioni e 1363 cannoni nostri dovevano superare le resistenze di 147 battaglioni austriaci, rafforzati da 700 bocche da fuoco.
A tale riguardo lo stesso Cadorna ebbe ad affermare che: “la nostra superiorità veramente notevole stava nelle fanterie; ma essa non poteva prevalere, sia perché le fanterie nemiche erano ormai da più di un anno esercitate a questo tipo di guerra; sia perché anche nelle odierne battaglie occorrono superiorità grandi di artiglierie e largo munizionamento che a noi mancavano”.
Contemporaneamente, durante la battaglia, i nostri dovevano operare nella conca di Plezzo e di fronte alla testa di ponte di Tolmino per tendere al completo possesso delle valli dell’Isonzo e del Judrio, così importanti per noi.
La battaglia si svolse in due fasi, la prima delle quali raggiunse il maggiore accanimento nella giornata del 21 ottobre, nella quale la brigata “Verona” conquistò l’abitato di Peteano, sulle propaggini del San Michele; la brigata “Alessandria” riuscì ad occupare le posizioni austriache tra il San Michele e San Martino; la “Catanzaro” e la “Bari” raggiunsero la sella di San Martino; le brigate “Bologna”, “Cagliari” e “Savona” s’impadronirono delle trincee nemiche sul Monte Sei Busi. Durante questa fase gli austriaci furono costretti a chiedere rinforzi, che vennero tratti dagli altri fronti e quindi favorirono i nostri alleati. Nei primi 7 giorni di lotta il nemico aveva perduto circa 28 mila uomini, fra cui circa 6.500 prigionieri. Ma anche i nostri combattenti erano esausti ed il nostro Comando Supremo sospese l’azione dal 25 al 28 ottobre, data in cui si iniziò la seconda fase. Questa comprese l’attacco di Tolmino da parte del nostro IV Corpo d’Armata, l’attacco del Sabotino e di Gorizia, eseguito dalla nostra 4ª Divisione (II Corpo d’Armata); quello nella zona di Plava da parte della 32ª e della 3ª Divisione; l’attacco al Podgora, la cui cresta fu conquistata, ma solo per qualche giorno, dalla 12ª Divisione.
Nonostante il grande valore dimostrato dalle nostre truppe, i risultati conseguiti furono poco notevoli. Noi avevamo perduto nella battaglia 67 mila uomini; gli austriaci oltre 30 mila. Malgrado le gravi perdite subìte nella terza battaglia, le operazioni vennero riprese appena sei giorni dopo.
La quarta battaglia dell’Isonzo (10 novembre – 5 dicembre)
In essa combatterono in maniera accanita le stesse truppe che già avevano partecipato all’inizio dell’offensiva autunnale. Anche la quarta battaglia si svolse in due fasi, nella prima delle quali, durata 4 giorni, il VI Corpo d’Armata, appoggiato dal II, attaccò sul fronte Oslavia-Mocchetta, mentre altri due Corpi d’Armata cercavano di immobilizzare il nemico tra Plezzo e Selo. Vennero attaccate le posizioni del Sabotino, del San Michele, di San Martino e di Monte Sei Busi, obbligando gli austriaci ad impiegare nella resistenza tutte le loro energie e conseguendo qualche vantaggio; ma inducendo il nostro Comando Superiore, per la stanchezza delle nostre unità decimate, a concedere una sosta di soli quattro giorni. La battaglia venne ripresa, infatti, il giorno 18 e si combatté accanitamente a Zagora, alla testa di ponte di Plava, sul Sabotino, ad Oslavia, sul Grafenberg e sul Podgora. Oslavia, riconquistata e nuovamente perduta, venne ripresa definitivamente dai nostri il 27 novembre. Sul San Michele le brigate “Perugia” e “Lazio” conquistarono il costone di quota 124 e la brigata “Sassari” riuscì ad espugnare alla baionetta le trincee delle Frasche e dei Razzi. Dal 26 novembre al’1 dicembre si combatté accanitamente anche a Tolmino ed a Plezzo. L’VIII Corpo d’Armata attaccò le posizioni di San Martino e di Santa Lucia; il IV Corpo d’Armata attaccò il Vodil e il Mrzli, conquistando qualche ridotto nemico.
L’intera durata della battaglia fu funestata dalle gravi difficoltà imposte dalle condizioni meteorologiche particolarmente avverse che rendevano le strade quasi del tutto impraticabili, rallentando quindi l’afflusso di rinforzi e rifornimenti di ogni tipo verso la prima linea. Le trincee si riempivano di acqua e fango, rendendo precaria anche solo la mera sopravvivenza al loro interno. Molti reparti erano devastati da una seria epidemia di colera che ne riduceva gli organici e la forza effettiva. Alla fine della quarta battaglia, pur avendo conseguito qualche vantaggio, non erano stati raggiunti gli obiettivi più importanti e, secondo la relazione del nostro Stato Maggiore, l’offensiva, iniziatasi con un piano organico di azione a fondo, finì per infrangersi in una serie di spinte isolate, che qua e là intaccarono la difesa avversaria, senza riuscire a spezzarla.
Durante la quarta battaglia dell’Isonzo, noi perdemmo circa 49 mila uomini; gli austriaci perdettero circa 30 mila uomini.
Con queste due battaglie si concluse, il 5 dicembre, l’ultima nostra offensiva del 1915, svolta dalle nostre fanterie, scrive il Tosti: “nel fango e nel sangue”;
offensiva che, prima diretta a vincere le resistenze di Tolmino per sboccare nella valle dell’Idria; ad impossessarsi del campo trincerato di Gorizia ed a portare la lotta dall’altipiano carsico ad oriente del vallone, per le difficoltà opposte dalla stagione e dal terreno, per la tenace resistenza nemica e per la nota grave penuria di mezzi offensivi, ci procurò soltanto notevoli progressi nelle zone di Tolmino, di Plava, di Gorizia, del Carso; progressi pagati con la perdita di circa 119 mila uomini, in confronto coi circa 72 mila perduti dagli austriaci.
Al termine del 1915 noi avevamo conquistato la conca di Plezzo, gran parte del massiccio del monte Nero, la maggior parte delle alture ad ovest di Gorizia, eravamo riusciti a costituire la testa di ponte di Plava ed a scacciare il nemico dalla pianura sulla riva destra dell’Isonzo, al di là del quale avevamo fortemente impegnato le poderose linee costruite dall’avversario lungo i margini del Carso, intaccandole in più punti e costringendo il difensore a rinforzare, sia pure gradatamente, con altre 21 Divisioni, le 4 inizialmente schierate sul nostro fronte. Tuttavia, per quanto riguarda i nostri acquisti territoriali, i risultati conseguiti nel 1915, di tanto inferiori alla nostra impaziente aspettativa, sembrarono troppo modesti e tali furono giudicati anche da eminenti uomini politici come il Salandra.
Anche i nostri nemici considerarono il Cadorna come un condottiero metodico e prudentissimo e si felicitarono dei nostri indugi. Titubanze che noi possiamo ritenere, invece, pienamente giustificati dall’insufficienza delle bocche da fuoco e dal munizionamento di artiglieria. Dal problema sempre più grave dei Quadri; dalla lentezza con la quale giungevano i complementi; dall’immobilità dell’esercito serbo ed anche dal fatto che l’Austria, avvertita da molti segnali e dalla denunzia della Triplice Alleanza (il 4 maggio), aveva potuto ergere validi ostacoli al nostro cammino vittorioso. Contro detti apprestamenti dell’avversario e le sue posizioni, rese inespugnabili anche dall’aiuto della natura, noi dovevamo acquistare la necessaria, dolorosa esperienza della guerra di trincea, così diversa da quella auspicata, e compiere il grande sforzo indispensabile ad adeguare i mezzi agli scopi ed alle difficoltà. Ma quante volte, anche durante il 1915, senza che noi potessimo saperlo, il nostro impeto ci avvicinò alla vittoria decisiva.
Si tenga presente che fin dall’8 giugno, il Comando Supremo austro-ungarico, scrivendo all’Arciduca Eugenio, affermava che questi avrebbe disimpegnato un compito assai arduo, se fosse riuscito a resisterci. Compito che dovette infatti apparire difficilissimo allo stesso Arciduca, se egli, il 4 luglio, si sentiva indotto a scrivere al generale Borojevic che “sull’altipiano di Doberdò la crisi aveva raggiunto il massimo”. Dopo pochi giorni, l’11 luglio, il Comandante la 20ª Divisione Honved, che aveva invano tentato di riprenderci la dorsale Vrsic-Vrata, riconosceva pienamente, nella sua relazione, la superiorità dei nostri combattenti. E, subito dopo la prima battaglia dell’Isonzo, il Borojevic era stato costretto a riconoscere che “la tensione alla quale i nostri continui attacchi costringevano le truppe della 5ª Armata era ormai insopportabile”. A proposito poi della seconda battaglia dell’Isonzo, la Relazione austriaca accenna in particolar modo ai ripetuti ed ostinati attacchi del nostro VII Corpo d’Armata sull’altopiano di Doberdò ed alle terribili perdite subìte. Perdite per le quali il Comando Supremo austro-ungarico dovette pensare che tutti i possibili invii di truppe dal fronte russo sul nostro sarebbero stati appena sufficienti a compensare il consumo delle forze della 5ª Armata. Anche per i nostri attacchi fra Plezzo e Tolmino, la stessa Relazione austriaca definisce come addirittura “stupefacente” la tenacia da noi dimostrata ed a proposito della terza battaglia dell’Isonzo, il Borojevic è costretto a scrivere nel suo diario, che “taluni reggimenti austriaci erano ridotti a meno della metà, alcune compagnie ad appena pochi uomini, le posizioni austriache in gran parte rase al suolo”. Anche dopo la nostra quarta battaglia, lo stesso Borojevic dovette riconoscere, con espressioni che noi non possiamo leggere senza un fremito di orgoglio, che qualche reggimento austro-ungarico vi aveva perduto il 60% dei suoi effettivi e non poté fare a meno di rispondere al Comando Supremo austro-ungarico, vivamente preoccupato degli avvenimenti, che la resistenza della sua Armata non poteva più durare molto a lungo.
Secondo i documenti conservati nell’archivio di guerra di Vienna, gli austriaci avevano perduto, sul nostro fronte, in appena sette mesi di guerra, ben oltre 266 mila uomini.
Le ultime operazioni del 1915, ricorda il Corselli nel suo pregevole volume sul Generale Cadorna, si erano svolte in condizioni climatiche ed atmosferiche completamente invernali. Lungo lo scacchiere montano le temperature variavano tra i 18 e i 28 gradi sotto zero; la sferza della bora sul Carso e l’acqua stagnante nei ricoveri, producevano numerosi congelamenti e polmoniti. Colossali valanghe seppellivano interi reparti nei loro baraccamenti. Verso la fine di novembre, mentre sull’Isonzo l’offensiva autunnale volgeva al termine, il Comando Supremo emanava le prime direttive per le operazioni da effettuarsi durante l’inverno, mantenendo inalterato il suo intendimento di persistere nel programma tracciato fin dall’inizio della guerra: resistere col minimo delle forze sulla fronte montana e, con la massa principale, “intensificare fino all’estremo limite la pressione sull’avversario schierato sul medio e basso Isonzo,con lo scopo di aprire una larga breccia attraverso le sue linee di difesa, per conseguire libertà di movimento e di manovra verso i noti obiettivi. Indipendentemente da ciò, i Corpi avrebbero moltiplicato e rese saldissime le linee di difesa dallo Stelvio al mare e svolto su tutta la fronte una vigile attività, capace di rinvigorire le truppe, senza stancarle, e di fissarvi le forze nemiche, in modo da non permettere loro spostamenti o diminuzioni. Con limitate azioni offensive dovevano inoltre proporsi di sgretolare le linee di difesa avversarie e di migliorare le proprie.
In particolare la 2ª Armata doveva, in un primo tempo, conquistare quelle posizioni che l’avversario ancora teneva sulla destra dell’Isonzo; quindi rivolgere la propria attività all’occupazione del Mrzli e del Vodil. La 3ª Armata doveva procedere all’espugnazione delle posizioni nemiche sul San Michele, sul Cosich e sul Debeli, dando la precedenza alle operazioni attorno al San Michele. Sulla fronte trentina, la 1ª Armata doveva consolidare e migliorare la propria situazione in val Sugana, mirando all’occupazione della linea Borgo-Forcella Cadino-Cavalese.
Sul fronte cadorino la 4ª Armata doveva limitare il suo programma a sistemare l’occupazione del Col di Lana ed adiacenze.
Sul fronte carnico, all’infuori di una vigile attività, intesa a fissarvi le forze avversarie, non si dovevano svolgere particolari operazioni.
La guerra di logoramento era ormai l’unica praticabile.
Gen. Luigi Marsibilio.
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