Osvaldo Biribicchi. I prigionieri militari italiani in mano statunitense e britannica dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943: riflessi sulla Guerra di Liberazione

  

 

 di Osvaldo Biribicchi

L’armistizio dell’8 settembre 1943, che per l’Italia non ha significato la fine della guerra e delle sofferenze come normalmente avviene quando una delle parti non è più in grado di condurre un conflitto, aprì scenari di guerra devastanti che non si erano mai visti prima di allora. Questa data spartiacque ebbe riflessi, ancora poco conosciuti, anche nel complesso ambito dei prigionieri di guerra italiani. Due settimane dopo l’annuncio dell’armistizio l’Italia si ritrovò divisa in due: da una parte il Regno del Sud, alleato di quelli che erano stati i nemici fino alle ore 19.45 dell’8 settembre (l’armistizio era stato già firmato in segreto il 3 settembre) dall’altra la Repubblica Sociale Italiana, alleata dei tedeschi. In mano agli ex nemici vi erano quattro masse di prigionieri italiani: due, quelle detenute nei campi di concentramento dell’Unione Sovietica e della Francia Libera, rimasero estranee alla Guerra di Liberazione; le altre due, quelle in mano agli Stati Uniti ed al Regno Unito, ne vennero totalmente coinvolte.                                                                                                                                       I prigionieri italiani dell’Unione Sovietica, peraltro non invitata al tavolo delle trattative armistiziali, erano pochi, circa 11.000; quelli dalla Francia Libera, circa 41.000 per lo più concentrati in Tunisia ed in Algeria, non furono oggetto di alcuna trattativa in quanto De Gaulle non aveva ancora dimenticato l’aggressione dell’Italia fascista nel giugno del 1940.                                                       Discorso diverso invece per Stati Uniti e Regno Unito; i primi, al momento del loro ingresso in guerra in Europa, avevano stabilito che tutti i prigionieri dell’Asse sarebbero stati trasferiti oltre oceano. Successivamente, l’esigenza di mano d’opera per la propria organizzazione logistica nel teatro di guerra mediterraneo impose una revisione di questa politica. Per una parte dei prigionieri italiani catturati in Tunisia dal novembre 1942 al maggio 1943 ciò significò rimanere prima in nord Africa e poi essere trasferiti in Francia. Dal punto di vista giuridico, dopo l’8 settembre 1943 i prigionieri militari italiani in mano Alleata non potevano essere più considerati tali e, pertanto, non gli si poteva più applicare l’articolo 31 della Convenzione di Ginevra. Il proclama del maresciallo Badoglio, che incitava tutti gli italiani a combattere i tedeschi ed a collaborare alla causa degli Alleati, fu da questi ultimi interpretato secondo i propri interessi ed iniziarono, con decisione unilaterale non concordata con il governo italiano, ad utilizzare i prigionieri direttamente in lavori, non contemplati dalle norme internazionali, connessi con il proprio sforzo bellico.                                                              Nonostante la dichiarazione di guerra del Regno del Sud, il 13 ottobre 1943, alla Germania e l’appello ai prigionieri del maresciallo Badoglio affinché collaborassero, i contrasti e gli attriti tra italiani ed americani circa lo “status” dei prigionieri durò per tutto il resto della guerra.                                                 Per determinare lo “status” da accordare ai prigionieri militari italiani occorre rifarsi primariamente alla filosofia operativa degli Alleati verso l’Italia nel maggio – settembre 1943. Nella campagna in nord Africa ed in Sicilia gli americani usarono, in misura crescente, l’arma della propaganda al fine di convincere i soldati italiani ad arrendersi. Arrivarono al punto di promettere di liberarli a patto che l’Italia non consegnasse i prigionieri Alleati, in sua mano, ai tedeschi.                                           Dalla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, fino alla firma dell’Armistizio la propaganda, soprattutto americana, fu un crescendo ricco di promesse per chi si fosse arreso. Nelle stesse trattative di armistizio, si era specificato che l’Italia doveva restituire i prigionieri alleati in sua mano. Era ovvio, anche se nelle clausole non era stato specificato, che gli Alleati a loro volta avrebbero dovuto restituire i prigionieri italiani, ovunque si trovassero. L’articolo 75 della Convenzione di Ginevra, del resto, è chiaro: «Quando Paesi belligeranti concludono una Convenzione di armistizio, essi devono, in linea di principio, farvi apparire accordi riguardanti il rimpatrio dei prigionieri di guerra. Se non sarà stato possibile inserire accordi a questo riguardo nella Convenzione, i contraenti dovranno tuttavia raggiungere un accordo a tale riguardo il più presto possibile. In questo caso, il rimpatrio dei prigionieri sarà attuato con il minimo ritardo possibile dopo la conclusione della pace». Ebbene, l’Italia si era arresa, i prigionieri Alleati in mano italiana erano stati restituiti ma i prigionieri militari italiani continuarono a rimanere nei campi di concentramento Alleati.                                                   Gli americani, mai minacciati direttamente dall’azione bellica e con la presenza in patria di molti cittadini di origine italiana, erano tuttavia per un atteggiamento benevolo e comprensivo verso gli italiani. In tale ottica i prigionieri erano visti più come futuri cooperatori.                                                   Gli inglesi, invece, che avevano visto i loro possedimenti ed i loro interessi nel Mediterraneo minacciati da vicino dal dinamismo della politica italiana, erano per un trattamento severo verso i prigionieri militari italiani e decisamente contrari ad utilizzarli come cooperatori.                    Era chiaro che gli inglesi volevano tenere gli italiani come prigionieri per sfruttarne tout court la manodopera nella propria agricoltura e industria; gli americani, con un senso più umano delle cose, come cooperatori. Unico punto d’accordo fu che entrambi non volevano prendere in considerazione l’ipotesi di impiegare gli italiani in combattimento.                                                                  Il Comando Supremo italiano, invece, covava la segreta speranza di creare subito con i prigionieri liberati Grandi Unità da combattimento, equipaggiate con materiali ed armi Alleate. Richiesta, in tal senso, veniva avanzata l’11 ottobre e reiterata il 26 dello stesso mese quando il Regno del Sud, con la dichiarazione di guerra alla Germania, era diventato “cobelligerante”.                                            Con la cobelligeranza il Regno del Sud sperava in una partecipazione più diretta e fattiva nella lotta al tedesco. Ma, anche in questo caso, le speranze andarono deluse. La cobelligeranza, come la intendevano inglesi ed americani, non significava l’instaurazione di nuovi rapporti formali con gli Alleati, ma semplicemente una formula che indicava che l’Italia e gli Alleati avevano un nemico comune, la Germania, ma i termini dell’armistizio restavano immutati, lo status dell’Italia rimaneva quello di nemico sconfitto. Ciò che la cobelligeranza non escludeva, però, era la vaga promessa che una più ampia partecipazione italiana nella lotta antitedesca avrebbe potuto mutare le condizioni applicative dell’armistizio. Gli Alleati dichiararono: «La relazione di cobelligeranza fra il governo d’Italia ed i governi delle Nazioni Unite non può di per sé intaccare le clausole recentemente firmate, che conservano il loro pieno vigore e potranno essere modificate mediante accordo fra i governi Alleati in considerazione dell’assistenza che il governo italiano potrà dare alla causa delle Nazioni Unite».                                                                                                                                        Come in precedenza a Quebec, con le loro dichiarazioni gli Alleati facevano sperare agli italiani che la loro “redenzione” dipendeva dall’impegno messo nell’aiutare la loro causa. Appare quindi comprensibile l’idea delle autorità militari italiane che per realizzare tale scopo fosse necessario organizzare con gli ex-prigionieri Unità combattenti. Badoglio, all’atto della dichiarazione formale di guerra alla Germania, inviava al generale Eisenhower una nota in cui chiedeva un aiuto affinché l’Italia potesse validamente collaborare nella lotta antitedesca, onde migliorare in tal modo le condizioni armistiziali. In particolare, egli prospettava che «con i prigionieri di guerra e volontari italiani desiderosi di combattere per la liberazione del Paese si potevano formare grandi unità».  L’atteggiamento Alleato appariva su questa questione molto ambiguo. Si facevano delle promesse che lasciavano ben sperare gli italiani, ma quando questi tentavano di concretizzarle gli Alleati rispondevano negativamente. L’ambiguità di tale posizione veniva colta chiaramente dal generale Ambrosio, in un memorandum inviato alla fine di ottobre a Badoglio, dove diceva: «Nell’atteggiamento angloamericano si conferma sempre più la tendenza da un lato (propaganda) ad invitarci a combattere ed a far dipendere la nostra futura sorte dall’entità del nostro apporto bellico, dall’altro (fatti) a cercare di ridurre al minimo tale apporto». Alle richieste di Badoglio, infatti, gli Alleati avevano risposto con direttive restrittive circa l’apporto italiano alla guerra. Le forze italiane venivano divise in tre categorie: truppe combattenti (oltre al Raggruppamento Motorizzato non esistevano ulteriori progetti); truppe impiegate nelle linee di comunicazione, nella difesa e nei servizi; truppe da impiegare come manodopera, inclusi i prigionieri di guerra. Vi furono da parte italiana molte reiterate insistenze per una più ampia partecipazione alla guerra ma gli Alleati non accettarono tali proposte. Alla fine, dopo discussioni e riunioni, adottarono a tutti i livelli le decisioni prese dai Comandi Alleati in nord Africa ovvero utilizzare gli italiani mantenendoli nel loro “status” di prigionieri. Stando a quel che diceva il generale Eisenhower, in nord Africa si vedeva chiaramente che i francesi non avevano perdonato all’Italia l’attacco di Mussolini alla loro terra nel giugno 1940 e che erano estremamente critici per il trattamento, da loro giudicato troppo mite, che gli Alleati riservavano ai prigionieri italiani. Liberare migliaia di prigionieri in nord Africa avrebbe significato, secondo Eisenhower, mettere in pericolo la fragile economia di guerra di quell’area. Gli stessi italiani poi, diceva il generale, sembravano felici del programma ed i francesi non avevano protestato.             Al fine di avere una politica uniforme sulla questione, il Dipartimento della Guerra americano aggiustò la propria posizione adottando un piano simile a quello in funzione in nord Africa e quindi lo “status” dei prigionieri di guerra per gli italiani fu mantenuto.                                               Scrive F. Conti al riguardo: «A nostro avviso le ragioni di questa decisione non risiedono tanto nei problemi di carattere internazionale citati da Eisenhower, benché certamente anche quelli avevano la loro importanza, quanto in quelli del fronte interno americano. La situazione dell’industria e dell’agricoltura americane giocò un ruolo determinante nella decisione americana. Le autorità di quel paese, sotto la pressione montante di mantenere alti livelli di produzione bellica, ricevevano continue richieste da parte di datori di lavoro pubblici e privati, per un maggior ricorso all’utilizzazione del lavoro dei prigionieri. Già in settembre varie organizzazioni del settore agricolo avevano scritto al Segretario di Stato, Cordell Hull, chiedendo l’impiego dei prigionieri italiani in lavori agricoli. In particolare esse esortavano il Segretario a raggiungere un accordo col governo italiano che permettesse ai prigionieri italiani negli Stati Uniti di rimanere per tutta la durata della guerra a lavorare nell’agricoltura, invece di essere rimpatriati come chiedeva la Convenzione di Ginevra».                Simili richieste pervenivano anche da molti stati dell’Unione. Il Governatore dello Stato di New York, Dewey, dichiarava che la carenza di manodopera nelle industrie di prodotti agricoli in scatola stava danneggiando il raccolto di due milioni di tonnellate di frutta e verdura e sollecitava il generale Marshall ad approvare l’utilizzazione di almeno 1.200 prigionieri italiani detenuti nello stato di New York. Nel telegramma a Marshall, il governatore diceva: «non vorrei aumentare i suoi gravi compiti, ma lo sforzo bellico rende necessario questo aiuto addizionale. La resa dell’Italia sembrerebbe permettere l’impiego dei prigionieri italiani in luoghi, precedentemente proibiti, quali i porti, dove questo bisogno è disperato».                                                                                                  Certamente per rispondere anche a queste pressioni, le autorità americane decisero di non riconsegnare i prigionieri al governo italiano e di mantenerli nel loro “status”. Le giustificazioni ufficiali per tali decisioni erano naturalmente diverse ed essenzialmente di tre tipi: la presenza, tra i prigionieri, di fascisti politicamente pericolosi; difficoltà di trasporti per terra e per mare; il desiderio di non aggiungere ulteriori problemi di carattere militare, sociale ed economico al già così oberato Comando Alleato in Italia.                                                                                                                                                     Nonostante le prese di posizioni italiane, gli Alleati prepararono un piano per l’impiego dei prigionieri, comunicato alla stampa il 7 maggio 1944, secondo il quale i prigionieri che si offrivano volontari ricevevano «l’opportunità di lavorare in unità di servizio organizzate su base militare».     Tali unità avrebbero reso «servizi di vario genere in appoggio allo sforzo bellico contro il comune nemico, eccetto in combattimento effettivo», sarebbero state comandate da ufficiali italiani, ed avrebbero avuto delle libertà e privilegi che in precedenza non avevano.                                     Dunque gli Alleati, malgrado l’opposizione italiana e malgrado il fatto che i negoziati in quel momento fossero ufficialmente sospesi, decisero di utilizzare i prigionieri in una forma che infrangeva le norme della Convenzione di Ginevra mettendo in discussione, in questo modo, la stessa esistenza del Governo italiano.                                                                                                         Per riassumere, le posizioni Alleate e quelle italiane sulla questione dei prigionieri, così come si erano definite agli inizi di aprile del 1944, quando vennero interrotti i negoziati, erano le seguenti: i governi americano e britannico avrebbero voluto che i militari italiani, nonostante fossero cobelligeranti, rinunziassero alle garanzie della Convenzione di Ginevra e conservassero lo “status” di prigionieri;  il governo italiano richiedeva che i propri militari cessassero dal loro “status” di prigionieri di guerra; i governi americano e britannico volevano che il comando dei prigionieri italiani di fatto fosse esercitato da loro ufficiali mentre quello italiano intendeva «che il comando di diritto e di fatto fosse tenuto da ufficiali italiani, pur essendo le unità a disposizione per l’impiego, delle autorità alleate».  Alla fine prevalse la volontà del governo americano che impiegò i prigionieri italiani come collaboratori, ma sempre con lo status di prigionieri. Chi non collaborava era rinchiuso in campi di “insicuri”, “non collaboratori” ed escluso dallo sforzo bellico Alleato.                                        In conclusione, per gli Alleati i prigionieri militari italiani erano una forza lavoro non indifferente, utilissima ed indispensabile alla produzione di beni necessari alle truppe combattenti. I mezzi per il rimpatrio non erano disponibili e gli Alleati, inoltre, non vedevano di buon occhio un rientro massiccio di prigionieri in Italia sia per non dover accogliere le richieste del Comando Supremo Italiano, atte a costituire unità combattenti, sia per non surriscaldare ulteriormente i confronti politici in corso in Italia. Queste ed altre ragioni provocarono una profonda delusione in tutti i prigionieri, che dovettero prendere atto, loro malgrado, che la loro prigionia continuava nonostante l’armistizio. Le due masse di prigionieri in mano agli Stati Uniti ed alla Gran Bretagna ebbero pertanto sulla Guerra di Liberazione una incidenza diretta ancora non adeguatamente approfondita dalla storiografia.