Vero Fazio.Ruolo dell’artiglieria nella campagna del settembre 1870 per la presa di Roma

  

 

  1. Premessa

L’iconografia ufficiale che ha contribuito a rendere popolare la campagna militare culminata con la presa di Porta Pia da parte del Regio Esercito e, quindi, l’acquisizione di Roma che doveva divenire poco dopo la nuova Capitale del Regno, è certamente quella offerta dal notissimo quadro di Michele Cammarano: La carica dei bersaglieri alle mura di Roma (1871, Napoli, Museo di Capodimonte). Il quadro ha legato indissolubilmente i Fanti Piumati a quell’episodio del nostro Risorgimento ed ha contribuito a dare vita ad una semplificazione concettuale sintetizzata dal binomio “Bersaglieri – Roma italiana”.

Nella realtà le cose non andarono proprio così e senza nulla togliere ai tantissimi meriti che vanno ascritti alla assai popolare ed amatissima Specialità dell’Esercito italiano nei suoi 184 anni di vita (la Specialità della Fanteria denominata “Bersaglieri” fu creata il 18 giugno del 1836, per una felicissima intuizione del Generale Alessandro La Marmora), il compito dello storico è quello di ricercare e divulgare la verità nel modo più completo su quanto accadde a Roma in quella splendida  mattinata di pieno sole che fu il 20 settembre del 1870. E’, infatti, storicamente ed eticamente corretto attribuire a tutte le Armi e Specialità che costituirono il Corpo di Spedizione italiano il giusto merito, per quello che fu uno degli episodi più significativi sulla strada dell’unificazione della nostra Nazione.

A tale fatto d’arme, oltre a ben 17 battaglioni di Bersaglieri, parteciparono i migliori reggimenti di fanteria, di cavalleria, di artiglieria, del genio zappatori e pontieri, dei carabinieri e delle truppe dei servizi che avevano preso parte a tutte le guerre risorgimentali che avevano portato all’Unità nazionale ed alla costituzione del Regio Esercito italiano

In particolare, in questa sede, dopo avere esaminato tutti gli aspetti storici, politici, strategici, diplomatici ed organizzativi che caratterizzarono tale campagna, verrà, in particolare, esaminato il ruolo ricoperto dall’Arma di Artiglieria, cui si deve la rottura materiale della cinta muraria della Città Eterna e l’apertura del varco da cui irruppero le truppe di fanteria e bersaglieri.

 

  1. Precedenti storici

La cosiddetta “Questione Romana”, che sottende il conflitto sorto, prima, tra lo Stato Pontificio e il movimento nazionale di unificazione italiana e, a seguire, tra Potere Papale ed il neocostituito Regno d’Italia per la sovranità su Roma, ha caratterizzato profondamente gli anni che vanno dal novembre del 1848 al settembre del 1870, quando le truppe regie entrarono nella Città Eterna.

Il primo sussulto libertario si ebbe con la mazziniana Repubblica Romana del 1849, che ebbe vita brevissima, ma che fu così feconda di ideali da segnare con forza tutto il Risorgimento nazionale. In quel contesto, oltre a Giuseppe Garibaldi ed ai suoi volontari, accorse sulle mura del Gianicolo il fior fiore di quanti dettero vita al Risorgimento italiano e nel cui ambito è doveroso ricordare i nomi di Luciano Manara, di Goffredo Mameli, di Angelo Masini, detto Masina, di Carlo Pisacane, delle donne come Cristina Trivulzio di Belgiojoso e Colomba Antonietti, di Francesco Daverio, di Angelo Brunetti detto Ciceruacchio e di mille altri.

La Repubblica, pur nella sua breve vita, oltre ad illuminare, come si è accennato, tutto il processo di unificazione nazionale, ebbe anche il merito di precorrere spiritualmente la nascita dell’Italia moderna, ispirandone, con la promulgazione di un proprio e per quell’epoca modernissimo dettato costituzionale, i presupposti ideali e giuridici che cento anni più tardi sarebbero stati la base su cui fu scritta la Costituzione della Repubblica Italiana[1].

Altri due tentativi, ancora più effimeri e ispirati dalla formula “O Roma o Morte” di Giuseppe Garibaldi, furono soffocati, il primo, sull’Aspromonte il 29 agosto del 1862, ad opera dell’esercito dell’appena nato Regno d’Italia, il cui vertice politico-istituzionale riteneva quell’azione intempestiva e foriera di un pericoloso “incidente”, sulla via del progetto diplomatico che Torino stava conducendo nei confronti di Napoleone III, protettore del Regno Pontificio, e che si riprometteva di acquisire Roma pacificamente. Lo scontro si configurò più come una operazione di polizia che come un combattimento vero e proprio e fu volutamente mantenuto ad un basso livello di intensità, costando ai garibaldini 7 morti e 20 feriti, tra questi ultimi lo stesso Giuseppe Garibaldi raggiunto da una fucilata ad un piede, mentre il Regio Esercito lamentò 5 morti e 23 feriti.

Il secondo tentativo, ancora guidato dall’Eroe dei Due Mondi, si consumò tra il 23 ottobre ed il 3 novembre del 1867, con scontri episodici che si ebbero nel cuore di Roma, in particolare a Trastevere dove incontrarono la morte i componenti della famiglia Arquati, da tempo ferventi patrioti, ed a Villa Glori dove tra gli altri caddero i fratelli Enrico e Giovanni Cairoli. Il tentativo insurrezionale si concluse nei pressi della cittadina di Mentana, poco a nord di Roma, dove lo scontro assunse i connotati di un vero combattimento e si concluse con la morte di circa 270 garibaldini, per mano di qualche migliaio di truppe papaline e di un contingente di 2000 zuavi francesi, armati con un nuovo micidiale fucile a retrocarica, che fece esclamare all’esultante comandante transalpino Gen. Pierre De Failly “Les Chassepots ont fait merveilles[2].

 

  1. Preparazione diplomatica

La Questione Romana fu aperta già nei mesi immediatamente successivi alla proclamazione del Regno d’Italia e fu il Cavour ad intraprendere con tenacia la strada che doveva condurre a fare di Roma la Capitale del nuovo Stato. In virtù di tale convincimento, dopo che il Parlamento Subalpino il 17 di marzo 1861 aveva proclamato Vittorio Emanuele II Sovrano del Regno d’Italia ed il successivo 22 marzo confermato il Cavour alla guida del Governo, questi, solo tre giorni dopo, il 25, davanti allo stesso Consesso dichiarava che Roma sarebbe dovuta diventare la Capitale d’Italia. Non era estraneo a questa sua determinazione il convinto anticlericalismo che lo pervadeva e che gli faceva attribuire al Papa una indiscussa autorità spirituale e morale, ma certamente non quella temporale. L’uomo politico aveva, inoltre, ben compreso la necessità che il compimento di quel progetto non restasse prerogativa dei partiti rivoluzionari e che fondamentale fosse il coinvolgimento della Francia di Napoleone III nelle trattative. Purtroppo il successivo 6 giugno Cavour decedeva, ma non il suo disegno che fu perseguito dai suoi successori e che portò a stipulare con la Francia la Convenzione del 15 settembre del 1864, secondo la quale, in particolare ed in sintesi[3]:

  • l’Italia si impegnava a non attaccare il territorio del Santo Padre e a difenderlo da attacchi provenienti dal di fuori dello stesso territorio;
  • la Francia si impegnava a ritirare entro tre anni il proprio contingente militare, presente a Roma dal 1849;
  • l’Italia non si opponeva alla creazione di una Armata papalina, per mantenere l’autorità del Santo Padre e la tranquillità all’interno e alla frontiera del suo Regno;
  • l’Italia si impegnava a farsi carico dei debiti delle Provincie già appartenenti al Papato ed ora annesse al Regno.

Inoltre, collegata al protocollo ufficiale, veniva aggiunta una clausola segreta secondo la quale il Trattato non avrebbe avuto valore sino a quando il Re d’Italia non avesse decretato e dato avvio alle procedure per il trasferimento della Capitale del Regno da Torino ad un’altra città e che lo stesso avrebbe dovuto aver luogo entro sei mesi dalla stipula della Convenzione.

Alla luce di questo accordo segreto, dopo aver valutato la scelta di Napoli quale possibile nuova capitale, la decisione cadeva su Firenze, per la sua posizione geografica più baricentrica. Tale scelta doveva rendere manifesta la rinunzia ad ogni pretesa nei confronti della città di Roma. Il provvedimento venne accolto a Torino con grande delusione e rabbia; sentimenti che causarono nei giorni 21 e 22 settembre dei violenti moti di protesta nella Capitale Subalpina e che portarono alla morte di 43 persone tra manifestanti e forze dell’ordine ed al ferimento di altre 144[4].

Sembrava venisse a cessare in questo modo ogni rivendicazione del Regno nei confronti di quella che da tutti gli italiani era considerata la loro naturale Capitale, ma nella realtà non era cosi e tutti: Sovrano, Governo e popolazione aspettavano le favorevoli condizioni che avrebbero portato all’affermarsi delle loro giuste rivendicazioni.

Il primo evento su quella strada derivò dalle risultanze del Concilio Vaticano I, indetto da Pio IX per l’8 dicembre 1869; con esso veniva sancito il Dogma dell’infallibilità del Papa in tutte le sue decisioni promosse “ex Cattedra”. Questa decisione fu vista dai governanti italiani come un possibile strumento con cui il Papa avrebbe potuto intromettersi negli affari politici dello Stato e quindi porre ostacoli sulla via dell’annessione di Roma. Come prima conseguenza, si ebbe già il 9 dicembre la reazione del nuovo Presidente del Consiglio Giovanni Lanza, che nel corso della cerimonia per il suo insediamento ebbe a dichiarare che solo l’acquisizione di Roma come Capitale avrebbe compiuto l’unità nazionale.

Nel corso dello stesso anno ci furono segnali della ripresa di una intensa attività cospirativa da parte del Mazzini, che i governanti italiani soffocarono con il suo arresto, al fine di evitare intempestive iniziative che, come era avvenuto nel ‘62 e nel ’67, avrebbero potuto ostacolare ogni altra iniziativa di natura istituzionale.

Ma l’evento decisivo sulla via della affermazione delle rivendicazioni italiane si ebbe nel luglio del 1870, quando la Francia dichiarò guerra alla Prussia e chiese un concorso da parte del Regio Esercito, in cambio del ritiro di tutte le proprie truppe presenti nel territorio del Regno Pontificio; nella sostanza Napoleone III con il suo gesto dava il tacito riconoscimento delle giuste pretese dell’Italia su Roma.

Il Governo negò l’aiuto richiesto motivandolo ufficialmente con la peraltro reale disastrosa situazione del Regio Esercito, in quel momento interessato da un processo di ristrutturazione in chiave riduttiva, ma più propriamente il diniego era da attribuire al favore con cui l’Italia guardava a Berlino come possibile partner nel gioco di nuove alleanze continentali. Nel contempo furono adottate predisposizioni militari, indirizzate alla creazione di un contingente di truppe da impiegare per la conquista di Roma, mentre la Diplomazia ufficiale registrava il favore o quantomeno l’indifferenza delle maggiori Potenze europee verso la possibile iniziativa italiana.

In tale quadro, nella primavera del 1870 venne rotto ogni indugio e si dette corso al richiamo in servizio le classi ’42, ’43, ’44 e ’45[5] in aggiunta a quelle già alle armi ed alla costituzione di un Corpo d’Esercito, da schierare sul confine pontificio e ufficialmente incaricato di contrastare e reprimere ogni possibile tentativo insurrezionale portato da forze rivoluzionarie nei confronti dello stesso Stato Pontificio.

Contemporaneamente venne promossa una intensa attività da parte del Governo italiano nei confronti della Santa Sede, per addivenire alla soluzione della controversia per via pacifica. In particolare, Vittorio Emanuele II inviò a Roma un suo emissario, il Conte Gustavo Ponza di San Marino, latore di una sua nota per il Santo Padre, nella quale dopo aver paventato le possibili  minacce da parte dei partiti sovversivi, esplicitava la necessità, per la sicurezza della Santa Sede e dell’Italia, che le truppe già poste a guardia del confine entrassero nei territori pontifici per occupare posizioni indispensabili per la tutela del Pontefice e per il mantenimento dell’ordine pubblico. Pio IX rigettò seccamente la richiesta e rivolto all’emissario del Sovrano dichiarò che mai le truppe italiane sarebbero entrate in Roma. Convocato successivamente Generale Kanzler, responsabile della difesa della città, gli ordinò di attuare una difesa della città limitata e sufficiente per dimostrare la consumazione di una ingiusta aggressione. La parola ora passava alle armi.

 

  1. Approntamento del Corpo di spedizione

Nella metà del mese di agosto, l’Italia concentrò ai confini dello Stato Pontificio un forte complesso di truppe, denominato Corpo d’Esercito d’Osservazione dell’Italia Centrale, agli ordini del Tenente Generale Raffaele Cadorna, su tre Divisioni e con il compito dichiarato di[6]:

  • mantenere inviolata la frontiera dello Stato Pontificio da qualunque tentativo insurrezionale di bande armate che intendessero penetrarvi;
  • reprimere ogni violenza che dovesse manifestarsi nelle provincie occupate;
  • nel caso i moti avessero luogo nello Stato Pontificio, impedire la loro estensione al di qua del confine.

Il Ministro della Guerra, Gen. Govone, propose al Cadorna quale comandanti delle Divisioni da impiegare i Generali Emilio Ferrero, Gustavo Mazè de la Roche e Nino Bixio, ma quest’ultimo non incontrò il favore del Cadorna, che giudicava il “Garibaldino” elemento troppo irruento, sanguigno, che mal si adattava ad una operazione militare che, pur tuttavia, doveva mantenersi ad un livello di bassa intensità, per non inficiare ogni altra concomitante azione di natura diplomatica e che richiedeva, pertanto, prudenza e moderazione. Il Gen. Cadorna osservò, in particolare, che Bixio, che era anche senatore del Regno, durante un recente dibattito parlamentare sulla Questione Romana aveva dichiarato che “i Cardinali erano tutti da gettarsi nel Tevere[7]. Il Ministro concordò sul punto di vista del Comandante in Capo e decise di sostituire il Bixio con il Generale Enrico Cosenz, con piena soddisfazione del Cadorna.

Le tre Divisioni assunsero la numerazione 11a, 12a, 13a e furono poste agli ordini rispettivamente di Cosenz, Mazè de la Roche e Ferrero e furono avviate le procedure di mobilitazione e radunata per consentire a tutte le unità di passare dalle formazioni “sul piede mobile incompleto” a quello “sul piede mobile completo[8] ed al loro trasferimento sul confine nord dello Stato pontificio.

A seguito di decisioni successive, volte a parare eventuali imprevisti ed allo scopo di dare al Contingente una dimensione quantitativa tale da scoraggiare ogni volontà di resistere da parte delle truppe papaline, furono aggiunte, nell’imminenza dell’attacco, altre due Divisioni: la 9a agli ordini del Gen. Diego Angioletti in afflusso dal sud Italia e la 2a agli ordini del Gen. Bixio, che avrebbe minacciato Roma provenendo da Civitavecchia[9]. A seguito dell’aggiunta di queste ultime due Grandi Unità e della Riserva comandata dal Gen. Celestino Corte, che era anche il Comandante dell’artiglieria, il Corpo di osservazione modificò la propria denominazione in IV Corpo d’Esercito.

Le cinque Divisioni il 18 agosto assunsero le seguenti posizioni di partenza[10]:

  • 11a Divisione a Rieti;
  • 12a Divisione Terni;
  • 13a Divisione a Narni;
  • 2a Divisione, partendo da Orvieto doveva raggiungere Civitavecchia;
  • 9a Divisione, radunatasi in corrispondenza del confine sud dello Stato Pontificio, doveva spingersi sino ad una giornata di marcia da Roma ed arrestarsi in attesa di ordini;
  • la Riserva dislocata a Spoleto, insieme al Comando del Corpo d’Esercito. uartier Generale del

Dal punto di vista ordinativo le cinque Divisioni disponevano tutte di due Brigate di Fanteria, ciascuna di due reggimenti di fanteria, su tre battaglioni. Disponevano, inoltre, di due battaglioni bersaglieri ciascuna, ad eccezione della 2a che ne contava tre, e di unità di cavalleria a livello di reggimento per la 2a e la 9a e di alcuni squadroni per le altre tre. Per il necessario supporto di fuoco, avevano in organico tre o quattro batterie di artiglieria come sarà descritto più ampiamente in seguito[11].

I reparti di fanteria di linea erano armati con il fucile a retrocarica Carcano mod. 67, calibro di mm. 17,5, ottenuto dalla trasformazione di vecchi materiali ad avancarica. Anche i reparti di bersaglieri erano armati con una carabina a retrocarica con il sistema Carcano, anch’essa del calibro di mm. 17,5, ottenuta per trasformazione di un vecchio modello del 1856 ad avancarica.

La Riserva si fondava sul reggimento di cavalleria Lanceri di Novara, sei battaglioni di bersaglieri, una Brigata di artiglieria su tre batterie, un equipaggio da ponte ed una Brigata di zappatori su tre compagnie[12].

Un discorso particolare meritano i reparti di artiglieria in organico al IV Corpo, che costituiscono l’oggetto particolare di questo studio.

Le Divisioni disponevano ciascuna di una Brigata di artiglieria (la Brigata costituiva il livello ordinativo che oggi corrisponde al Gruppo di artiglieria) e tutte disponevano di tre batterie, ad esclusione della 2a Divisione che oltre ad una Brigata completa disponeva anche di una quarta batteria. Tutte queste minori unità erano tratte dai reggimenti 7°, 8° e 9°.

Tutte erano armate con i nuovi pezzi di costruzione italiana, entrati in servizio nel 1863, in bronzo ad avancarica, con anima rigata del calibro di mm. 95,9 ed incavalcate sull’affusto Cavalli 1844, questi pezzi costituivano l’armamento base dell’artiglieria da campagna. Dal punto di vista tecnico, queste artiglierie raggiungevano la gittata massima di 3200 m. e utilizzavano granate cilindro-ogivali esplosive, del peso di 4,5 kg., o scatole a mitraglia del peso di 6,5 kg.; utilizzavano cariche di lancio confezionate in sacchetti di tela da 100 o 150 grammi, che si potevano combinare a seconda delle gittate da ottenere; quella massima era raggiunta con una carica di lancio di 900 g.[13].

Dal punto di vista degli effetti voluti dal fuoco, queste artiglierie svolgevano le seguenti tipologie di tiro[14]:

  • di Lancio: erano quelli effettuati con la carica maggiore, affinché la velocità e la forza d’urto fossero massime; la traiettoria era tesa e con angoli di tiro minimi. Si divideva in: a granata, a mitraglia ed in breccia.

Il primo era adottato con granata scoppiante e destinata ad abbattere ostacoli o contro truppe allo scoperto e disposte in ordine profondo; il secondo era diretto contro truppe allo scoperto a breve distanza e vulnerabili dalle pallette contenute nella scatola-proietto; il tiro in breccia si utilizzava per abbattere le mura che cingevano le piazzeforti;

  • in Arcata: erano quelli che si eseguivano con le cariche minori e con elevazioni maggiori; la traiettoria era curva. Si dividevano “in arcata” o “curvi” e mentre i primi si usavano contro la parte alta di edifici protetti con massa coprente, i secondi si fondavano sull’effetto schegge, esercitato contro uomini e cavalli riparati da masse coprenti.

 

Sempre per quanto concerne le artiglierie, una trattazione particolare deve riguardare la Brigata di artiglieria della Riserva, espressamente destinata ad effettuare il tiro in breccia, per realizzare la demolizione di un tratto delle Mura Aureliane, che avrebbe consentito l’accesso delle fanterie nella città di Roma.

A questa azione era stata destinata la 2a Brigata dislocata a Firenze e distacca dal 9° reggimento di artiglieria da piazza, con sede a Pavia.

La Brigata era comandata dall’allora Maggiore Luigi Pelloux che tanta parte ebbe nella storia d’Italia come Ministro della Guerra e successivamente e per due mandati come Presidente del Consiglio dei Ministri.

La 2a Brigata inquadrava le batterie 5a, 6a e 8a, comandate, rispettivamente, dai Capitani Giacomo Segre, Luigi Castagnola e Francesco Rogier ed armate con cannoni da mm. 95,9 come tutte le altre unità da campagna in servizio nell’artiglieria del Regio Esercito[15].

Nella metà di agosto del 1870, in previsione delle operazioni per l’occupazione di Roma, la Brigata venne interessata da una serie di attività riorganizzative. La prima e la più importante fu la sostituzione dei pezzi calibro mm. 95,9, con materiali più potenti di calibro mm.121,2, ad avancarica in bronzo e rigati, modello 1863 con una gittata massima di 3300 metri, che non erano ancora in servizio, ma ritenuti idonei e necessari nel caso ce ne fosse stato bisogno, per aprire un varco nelle Mura Aureliane. Contemporaneamente, venne dato ordine al Comandante della 2a Brigata, di far svolgere alle batterie dipendenti una intensa attività addestrativa e di familiarizzazione con i nuovi materiali, ma cercando di mantenere il più assoluto segreto, allo scopo di non suscitare allarmi che potessero compromettere le azioni diplomatiche in corso in quei giorni, per addivenire ad una acquisizione di Roma in via pacifica.

Al termine delle operazioni vittoriose, la 2a Brigata il 25 settembre lasciò la Città Eterna e fece ritorno a Firenze per via ordinaria, dove dopo aver versato le artiglierie che aveva impiegato per aprire la Breccia, riacquisì i pezzi da mm. 95,9 che la armavano precedentemente. Dopo due giorni riprese la marcia verso Pavia sede del 9° Reggimento di artiglieria, mettendo la parola fine alla vicenda che l’aveva vista protagonista.[16]

Complessivamente l’intero IV Corpo d’Esercito disponeva di 19 batterie che ebbero un ruolo decisivo per la buona riuscita dell’intera operazione, ma per renderle pienamente operative, furono fatti sforzi notevoli per il loro completamento. Come detto precedentemente furono richiamati alle armi ben quattro classi di riservisti, ma, in particolare per l’artiglieria, cosa di più complessa attuazione fu l’acquisto precipitoso dei quadrupedi, che comportò l’introduzione in servizio di pessime mute per le batterie[17].

Per dare la misura della rilevante incidenza di questo aspetto, si ritiene opportuno ricordare che una batteria aveva in organico 98 quadrupedi per il traino dei sei pezzi e per i serventi e 40 per i carri munizioni[18]. Notazione di non poco interesse è quella che ci dice che le unità di artiglieria, oltre al proprio munizionamento, erano addette anche al trasporto delle scorte di cartucce per i fucili delle fanterie[19].

 

A tale complesso di forze, si contrapponeva l’Esercito pontificio, nettamente inferiore dal punto di vista quantitativo e qualitativo, che assommava alcuni reggimenti effettivi e molti reparti di volontari di varia estrazione e provenienza e di dubbia efficienza bellica. Cronisti dell’epoca riportano notizie secondo le quali tra queste truppe fossero presenti elementi di nazionalità francese e prussiana e che si verificassero tra questi anche violenze e scontri a causa del conflitto in corso tra le loro Nazioni di origine. Con l’inizio del conflitto franco-prussiano gli elementi francesi furono tutti rimpatriati.

Esercito contava un numero complessivo di circa 17000 uomini ed era posto agli ordini del Gen. Hermann Kanzler, un ufficiale tedesco entrato a far parte dell’esercito pontificio nel 1843.

Le artiglierie che armavano in postazioni fisse la Piazza di Roma ammontavano a circa 160 pezzi[20], ma ad eccezione di 53 rigati, erano nella totalità ad anima liscia, della più disparata provenienza, di ogni epoca e soprattutto obsoleti. In previsione dell’attacco, questi erano stati schierati in vari luoghi della città, non conoscendo da dove il regio esercito avrebbe tentato l’irruzione. In particolare: erano in posizione nel Forte Aventino; sulla cortina muraria della destra Tevere ed a Castel Sant’Angelo; altri erano schierati sui bastioni della cinta muraria di sinistra Tevere; altri 20 inseriti nei tamburi[21] difensivi realizzati in corrispondenza delle Porte di sinistra Tevere; meno di dieci erano tenuti in riserva. Oltre a questi materiali, l’artiglieria pontificia contava anche un reggimento mobile, con 2 batterie montate e tre a piedi per complessivi 40 pezzi[22].

 

  1. Lo scontro e l’occupazione della città

Venuta meno ogni possibilità di una soluzione pacifica della vicenda, il Gen. Govone, Ministro della Guerra, dette ordine al Cadorna di superare i confini dello Stato Pontificio e dare inizio al movimento verso Roma e di impadronirsi della città con la forza, ad esclusione della Città Leonina che doveva rimanere sotto la giurisdizione papale.

In sede di pianificazione iniziale, lo stesso Ministro aveva precedentemente approvato quanto proposto dal Comandante del IV Corpo e che prevedeva di raggiungere il più rapidamente possibile la città, utilizzando la via Salaria e la ferrovia esistente sulla sinistra del fiume Tevere, ma il 10 settembre, in concomitanza con l’inizio delle operazioni di invasione, venne modificato l’ordine dal Gen. Ricotti, succeduto al Govone, prescrivendo che la marcia avvenisse lungo la destra del corso d’acqua, utilizzando le vie Cassia e Flaminia, per poi tornare sulla sinistra del Tevere, appena raggiunta la città con il grosso delle truppe. Ciò era dettato dalla necessità di dare più tempo alla Diplomazia, per cercare di addivenire ad una soluzione pacifica al conflitto.

In tale quadro, le Divisioni che stazionavano in località alla sinistra del Tevere iniziarono i movimenti superando il corso d’acqua in corrispondenza dei ponti esistenti in corrispondenza dell’abitato di Orte e di Ponte Felice, mentre la 2a del Gen. Bixio, che partendo da Orvieto fu la prima ad attraversare i confini pontifici e si diresse verso la località di Bagnorea (l’attuale Bagnoregio), catturandone il locale presidio di una ventina di zuavi con i loro ufficiali. La 9a, a sua volta, partendo dalla Campania, superava Frosinone e raggiungeva Ceprano.

Subito dopo l’attraversamento del Tevere si ebbe uno scontro tra reparti di bersaglieri della 12a Divisione con alcune compagnie di zuavi che presidiavano la cittadina di Civita Castellana.

Il giorno 15, a seguito di una disposizione del Ministro della Guerra, il Gen. Cadorna attuava un ulteriore tentativo volto alla ricerca di una soluzione pacifica ed invia il suo Sottocapo di Stato Maggiore Tenente Colonnello Caccialupi dal Gen. Kanzler, per invitarlo a lasciare occupare pacificamente dalle truppe italiane la città di Roma ed evitare un inutile spargimento di sangue, ma il Comandante pontificio, in termini moderati e dignitosi rispondeva negativamente[23].

Lo stesso giorno 15, il Gen. Bixio, in previsione dell’occupazione di Civitavecchia, stabilì un contatto con l’Ammiraglio Del Carretto, comandante della flotta italiana che era alla fonda di fronte alla città, per pianificare un eventuale concorso di fuoco navale, ad integrazione dell’intervento delle batterie divisionali. Subito dopo intimava al Comandante della piazza la capitolazione che, dopo un tentativo di quest’ultimo volto a guadagnare del tempo, avvenne con immediatezza e senza condizioni.

Completata la presa di Civitavecchia, il giorno 16 il Gen. Cadorna incaricò il Gen. Carchidio, comandante della Brigata “Modena”, di compiere un ulteriore passo nei confronti del Gen. Kanzler, ma anche questo tentativo non ebbe successo.

Il grosso del Corpo d’Esercito proseguì, quindi, il movimento indisturbato sino alla periferia nord di Roma dove, come pianificato, in località Grottarossa, il giorno 18 le tre Divisioni e la Riserva attraversarono nuovamente il Tevere, utilizzando un ponte d’equipaggio gittato dal Genio e raggiunsero le rispettive zone di attesa, prescelte lungo il corso del fiume Aniene (il Teverone).

Lo stesso giorno il Gen. Cadorna dette ordine ai dipendenti organi logistici di provvedere all’integrazione delle scorte di munizionamento di artiglieria sia per i calibri da mm. 95,9 che per quelle da mm.121,2; la sera dello stesso giorno quanto richiesto veniva spedito a Roma per ferrovia dai depositi di Firenze e di Capua ed il giorno successivo erano già presso le zone di attesa occupate dalle artiglierie.

In particolare, erano state individuate delle aree idonee per lo svolgimento delle operazioni successive, rispettivamente, presso Ponte Salario per la 11a, Ponte Nomentano per la 12a e la via Tiburtina per la 13a. Contemporaneamente la 2a Divisione era a Civitavecchia e la 9a nella zona sud di Roma.

Il successivo giorno 19 fu utilizzato per le necessarie ricognizioni e per la individuazione delle aree di schieramento per le artiglierie.

In tale quadro, la 11a Divisione “Cosenz” si dispiegava dalla Villa Borghese a destra e, tenendo il centro del proprio schieramento davanti alla Porta Salaria, si saldava a sinistra con la 12a Divisione “Mazè”. Quest’ultima, che era destinata all’investimento della Porta Pia, doveva comprendere nel suo settore il saliente di Castro Pretorio e, quindi, collegarsi con la 13a Divisione “Ferrero”. Quest’ultima, doveva dirigere il proprio attacco contro le Porte San Lorenzo e Maggiore, collegandosi ancora a sinistra con la 9a Divisione “Angioletti”, che aveva come obiettivi le Porte San Giovanni e San Sebastiano.

La 2a Divisione “Bixio” doveva agire isolatamente, attaccando a sud ovest della città il saliente del Gianicolo, con al centro la Porta San Pancrazio; per uno strano gioco del destino l’ex “Garibaldino” si trovò ad operare negli stessi luoghi, ma a fronte rovesciato, dove ventuno anni prima aveva combattuto per la difesa della Repubblica Romana.

Sfumato un ulteriore tentativo per addivenire ad una soluzione pacifica del conflitto, condotto questa volta per iniziativa dell’Ambasciatore di Prussia presso la Santa Sede von Arnim, all’alba del 20 settembre tutte le unità assunsero le formazioni d’attacco.

La 9a Divisione si articolò su due scaglioni, uno con tre battaglioni della Brigata “Savona” e 14 pezzi di artiglieria al comando del Gen. De Sauget e diretto contro Porta San Giovanni; un secondo con tre battaglioni della Brigata “Pavia” e 4 pezzi di artiglieria agli ordini del Gen. Migliara, che puntava su Porta Latina e Porta San Sebastiano. Alle 5 e 15 i pezzi di questi due complessi di forze aprirono il fuoco e cominciarono a demolire i tamburi difensivi che erano stati realizzati dai pontifici davanti alle Porte stesse. Alle 10,30, mentre stava per iniziare l’attacco delle fanterie, sulle mura venne issata una bandiera bianca.

Per la 13a Divisione del Gen. Ferrero il punto d’attacco era il tratto detto dei Tre Archi in corrispondenza della Porta Maggiore, dove transitava la linea ferrata. Anche qui i pontifici avevano realizzato una struttura difensiva improvvisata, che tuttavia offrì una scarsa resistenza al tiro delle artiglierie, anche qui iniziato alle ore 5 e 15. Le fanterie italiane, schierate lungo la via Prenestina e via Malabarba, si apprestavano a dare avvio all’assalto ed all’irruzione nella città, quando anche qui alle ore10,30 venne issata la bandiera bianca.

Nel settore d’attacco a sud ovest della città, la 2a Divisione “Bixio” venne articolata in tre colonne d’attacco dirette su Villa Panphili, il Convento San Pancrazio e la Porta San Pancrazio. Sentito il rombo del cannone proveniente dalle altre fronti d’attacco, anche queste truppe si mossero accolte da un fitto fuoco di fucileria e di artiglieria, che fu ampiamente controbattuto dalle quattro batterie in organico alla Divisione e dal fuoco dei battaglioni bersaglieri; anche qui poco dopo le 10 sulla Porta San Pancrazio veniva innalzato il segno di resa.

Sul settore a nord, compreso tra la villa Borghese ed il saliente rappresentato da Castro Pretorio, le operazioni furono più complesse, riguardando il tratto tra Porta Salaria e Porta Pia, dove, per il minor spessore della cinta muraria, era previsto di realizzare la breccia e quindi l’irruzione delle fanterie.

Come già precedente indicato, erano state incaricate dell’attacco la 11a e la 12a Divisione, comandate rispettivamente dai Generali Cosenz e Mazè de la Roche ed avrebbero dovuto agire secondo le direttrici materializzate dal tracciato delle vie Salaria e Nomentana. Tra queste due grandi unità presero posizione le artiglierie della 2a Brigata della Riserva, destinate all’esecuzione del tiro in breccia per aprire un varco nella cinta muraria, oltre a quelle organiche alle Divisioni stesse, che avrebbero dovuto effettuare il fuoco di disturbo nei confronti delle difese, preparare l’assalto delle fanterie e concorrere al fuoco per la realizzazione della breccia.

Di queste ultime, in particolare le batterie 10a, 11a e la 12a del 7° Reggimento da campagna che erano in organico alla 11a Divisione, si schierarono, la 10a nei pressi del Collegio dei Nobili a circa 500 metri dalla Porta Salaria, con il compito di sfondarla, mentre la 11a e la 12a, schierate al confine orientale della Villa Della Porta, avrebbero dovuto sviluppare con tiri in arcata un efficace fuoco contro i fucilieri pontifici appostati sulle mura; inoltre dovevano integrare il tiro in breccia delle batterie della Riserva.

Quelle in organico alla12a Divisione, le batterie 1a, 2a e 8a ancora del 7° Reggimento da campagna, vennero poste a cavallo della via Nomentana, in particolare: la 2a e l’8a davanti alla Cascina Bonesi e la 1a a Villa Torlonia, con il compito di sfondare la Porta Pia, contrastare il fuoco dei difensori e concorrere anch’esse al tiro in breccia. Azione durante, una aliquota di queste tre batterie attuò un cambio di schieramento per meglio assolvere al compito assegnato ed assunsero nuove posizioni; in particolare, la 1a sulla via Nomentana nei pressi del cancello della villa Torlonia per battere con maggiore efficacia la Porta, mentre una Sezione dell’8a su un dosso all’interno della villa stessa, per contrastare con tiri in arcata l’azione di fuoco violentissimo proveniente dal Castro Pretorio.

Per l’effettuazione della rottura delle mura, che doveva avvenire dopo il terzo torrione a destra della porta per chi guarda dall’esterno, vennero destinate, come accennato, principalmente le tre batterie della 2a Brigata di artiglieria della Riserva, composta dalle batterie 5a, 6a ed 8a. Delle tre, la 5a batteria, comandata dal capitano Giacomo Segre e destinata a svolgere l’azione di fuoco principale, venne condotta in posizione dallo stesso comandante della Brigata Magg. Pelloux e venne schierata nei giardini di Villa Albani, a poco più di 500 metri di distanza dal punto dove doveva essere realizzata la Breccia; le altre due presero posizione  a nord di Villa Macciolini su un lieve altipiano distante 750 metri dalle mura ed avrebbero svolto un compito di concorso. La 5a batteria alle ore 5 e 20 circa iniziò un fuoco di demolizione preciso ed efficace ed alle 9 e 30 circa la breccia era già praticata per un’ampiezza di circa 30 metri alla destra della Porta Pia.

A questi fini va sottolineata l’azione posta in essere dalle artiglierie, sia quelle della Riserva che quelle delle Divisioni, che, con una precisione definibile chirurgica, dopo aver aperto il varco continuarono il proprio fuoco con accresciuta precisione, per sbriciolare le macerie e rendere più agevole l’approccio alla breccia.

La reazione degli zuavi pontifici fu violenta ed un fitto fuoco di fucileria partente da un avamposto creato al di fuori delle mura, in corrispondenza di Villa Patrizi, si abbatté sulla batteria “Segre”, causando gravi perdite, tanto che fu necessario impiegare tiratori scelti del 19° reggimento fanteria e del XXXIV battaglione bersaglieri, per distogliere con i loro fuoco quello dei difensori diretto contro gli artiglieri.

La breccia era realizzata, ma risultava ancora presidiata da reparti di zuavi e di carabinieri pontifici decisi ad ostacolare l’assalto, il Gen. Mazè dette, pertanto, ordine alla sua 2a batteria ed alla rimanente sezione della 8a di portarsi avanti ed assumere un nuovo schieramento, per contrastare con tiri in arcata quelle suddette forze avversarie e costringerle a ripiegare.

Poco dopo su Villa Albani, sede del Comando del Cadorna, venne issato il Tricolore, segnale concordato che dava l’ordine del cessate il fuoco per le batterie e quello di attacco per le fanterie.

L’assalto in direzione della Breccia fu portato, da destra, dai fanti del 19° Reggimento e dai bersaglieri del XXXIV battaglione della Divisione Cosenz e, da sinistra, dal II battaglione del 41° Reggimento Brigata “Modena” e dal XII battaglione bersaglieri della Divisione Mazè. Entrambe le aliquote si mossero coperte dalla strada che costeggiava le mura e che in quel tratto correva in rilevato, coprendole al tiro dei difensori. Questa epica gara fu vinta dalle truppe del Cosenz che irruppero per prime nella Città Eterna, ma fu il XXXIV Battaglione Bersaglieri a pagare un prezzo elevatissimo per questo primato, con la morte del suo Comandante, il Maggiore Giacomo Pagliari.

Contemporaneamente i fanti del 39° Reggimento, Divisione Mazè, attaccavano Porta Pia e ne catturavano i difensori.

Il giorno dopo l’azione, il Governo diramò il comunicato che Roma era stata occupata dai soldati italiani ed il Capitano Segre scrisse alla moglie: “Ieri fu giornata abbastanza calda. Contro la mia aspettazione le truppe pontificie fecero resistenza e si dovette coi cannoni aprire la breccia che poi fu presa d’assalto dalla fanteria e dai bersaglieri. La mia batteria prese parte all’azione e si batté con onore. Rimase morto un caporale, ferito gravemente il mio tenente che morì stamane. Povero bel giovanottino di ventiquattro anni! Ferito ugualmente altro caporale che forse non camperà sino a questa sera e più leggermente altri quattro cannonieri”[24].

Alla fine, la batteria conterà 3 caduti, il Luogotenente Giulio Cesare Paoletti ed i Caporali Michele Plazzoli e Carlo Corsi, e quattro feriti. Per la sua perizia e per la condotta efficace del suo reparto, il Capitano Segre verrà decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare “Per la splendida direzione data al fuoco della sua batteria”.

Dopo poco più di quattro ore di fuoco effettuato dalle artiglierie, cui aveva fatto seguito l’ingresso delle fanteria, la città fu velocemente occupata, secondo un piano accuratamente predisposto e che prevedeva di impadronirsi di slancio dei luoghi più importanti, quali il Quirinale, il Viminale, il Pincio e il Castro Pretorio.  Contemporaneamente il Gen. Cadorna riceveva i parlamentari, inviati del Gen. Kanzler per trattare la resa delle truppe pontificie.

Il 2 ottobre successivo fu celebrato il Plebiscito popolare che sanciva l’acquisizione di Roma al Regno d’Italia

Complessivamente, per l’intera campagna da parte del Regio Esercito persero la vita in combattimento 48 uomini (3 Ufficiali e 45 di Truppa) e tra questi gli artiglieri caduti furono 12 (1 Ufficiale e 11 di Truppa), i feriti complessivamente furono 143. L’esercito pontificio lamentò 19 morti e 68 feriti.

Merita, a conclusione di questo studio, ricordare un episodio che ha visto il coinvolti ancora una volta, come era avvenuto in sede di formazione del Corpo d’Esercito per l’invasione dello Stato Pontificio, il Gen. Cadorna e Nino Bixio[25].

Per il giorno 21 venne organizzata presso Porta San Pancrazio, alla presenza del Gen. Cadorna e degli altri Comandanti italiani, una cerimonia ufficiale per la concessione dell’onore delle armi alle truppe pontificie che abbandonavano la città. Nel corso dello sfilamento alcuni militari papalini assunsero un contegno di derisione e scherno nei confronti dei soldati italiani che presentavano le armi. Il Gen. Bixio, accortosi di quanto stava accadendo, con stizza si rivolse al Cadorna per chiedergli se non ritenesse necessario un suo immediato intervento per far cessare tale comportamento, da ritenersi altamente lesivo dell’onore militare dei soldati italiani. Il Cadorna zittì con veemenza il “Garibaldino” e poi si rivolse al Generale Zappi, rappresentante ufficiale del Gen. Kanzler alla cerimonia, invitandolo ad adottare i provvedimenti necessari. Il Gen. Bixio per protesta abbandonò la cerimonia ed il giorno successivo, di sua iniziativa, lasciò Roma e fece ritorno a Firenze. La vicenda fu trattata con molta diplomazia e venne messa a tacere facendo apparire il Bixio in licenza per motivi personali.

 

  1. Considerazioni finali

La campagna per l’unione di Roma al Regno d’Italia, mentre dal punto di vista politico e storico ebbe una enorme rilevanza, da quello strettamente militare non ebbe una analoga valenza e questo soprattutto per la grande sproporzione quantitativa e qualitativa delle forze in campo. Il Regio Esercito approntò un complesso di forze volutamente numeroso per scoraggiare ogni volontà di resistenza da parte dell’Esercito Pontificio, che appariva raccogliticcio, costituito in gran parte da volontari di varia provenienza ed afflitto da carenze enormi dal punto di vista tecnico, in particolare per quanto riguardava le unità di artiglieria, dotate di materiali obsoleti.

L’Esercito che invase i territori pontifici, per contro, era il prodotto di un processo, seppure non ancora completato, di ammodernamento cui era stato sottoposto dopo le infauste giornate di Custoza del 1866; processo di ammodernamento, che pur condotto in un quadro di carenze economico-finanziarie, riuscì a far compiere all’intero strumento militare un significativo salto di qualità. In particolare, fu messo mano a quei fattori culturali, ordinativi, tattici e materiali che maggiormente avevano condizionato e gravemente compromessa la condotta della Terza Guerra di indipendenza.

Il primo e forse più importante provvedimento fu quello con cui l’11 marzo del 1867 venne creata la Scuola Superiore di Guerra, voluta dal Ministro della Guerra gen. Efisio Cugia, e concepita sul modello dell’Accademia di Guerra prussiana.

Gli scopi dell’Istituto erano quelli del perfezionamento e dell’elevazione del livello culturale degli ufficiali da destinare al Corpo di stato Maggiore del Regio Esercito ed ai Comandi delle Grandi Unità, dell’elaborazione di un pensiero militare italiano, della costituzione di una fonte di ricerca, di studio e di consulenza nelle scelte dottrinali ed ordinative ed infine dell’accrescimento del bagaglio di conoscenze nell’ambito dell’intero esercito.

Nel contempo furono introdotte norme per accelerare le procedure di mobilitazione, stabilendo la distinzione tra unità sul piede stanziale o sul piede mobile, che a sua volta poteva essere completo o incompleto, in relazione alla corrispondenza della forza presente agli organici di guerra.

Da punto di vista tattico vennero riviste le modalità per lo sfruttamento del terreno e quelle per l’assunzione delle formazioni delle unità di fanteria nella marcia o nel dispiegamento per il combattimento e venne data la preferenza a quella per battaglione in colonne ad intervalli tali da consentire il rapido dispiegamento, mentre per il Corpo dei bersaglieri veniva definito normale l’ordine sparso per il combattimento.

Dal punto di vista del materiale, significativa fu l’adozione di fucili a retrocarica, seppure ottenuta dalla trasformazione di vecchi modelli ad avancarica, mentre per l’artiglieria entrarono in servizio pezzi di più moderna concezione e costruzione

Inoltre, adeguati risultarono i nuovi criteri e procedimenti tattici elaborati ed adottati, anche se la campagna nel suo complesso non offrì molte e significative occasioni di manovra e di atti tattici di rilievo. Confermò, peraltro, la validità della nuova dottrina d’impiego, specialmente nei riguardi dell’importanza del fuoco di artiglieria per il supporto da fornire alle altre Armi. In particolare, per quest’ultimo aspetto, a Civita Castellana, l’impiego delle tre batterie della 12a Divisione in cooperazione con reparti di bersaglieri accelerò la resa del presidio pontificio. Civitavecchia si arrese senza nemmeno dover sparare un solo colpo perché minacciata dalle artiglierie terrestri della 2a Divisione e, dal mare, da quelle della flotta del Contrammiraglio Evaristo Del Carretto.

Tutto questo porta ad affermare che la presa di Roma fu prima di tutto opera dell’artiglieria che anticipò gli attacchi delle fanterie o li rese non necessari, costringendo l’avversario alla resa anticipata e che il fuoco di preparazione dell’artiglieria o la minaccia di esso, sapientemente predisposto ed effettuato, anche adottando la procedura mai prevista prima  della manovra delle traiettorie per far gravitare tutto il fuoco disponibile su un unico obiettivo, fu sicuramente determinante per la migliore riuscita delle operazioni.

In definitiva la campagna nelle Provincie già appartenenti allo Stato pontificio non offrì molte occasioni di manovre di rilievo, ma le poche che si presentarono furono colte con prontezza ed efficacia.

Uno storico ha affermato “che l’intera campagna somigliò più ad una grande esercitazione che non ad una impresa bellica; ammesso che ciò fosse vero, sarebbe necessario aggiungere che è stata un’esercitazione molto bella[26].

 

 

 

[1] E. Fimiani e M. Togna “Le Costituzioni Italiane 1796 1948” TEXTUS EDIZIONI p. 17

[2] Raffaele Cadorna, “La Liberazione di Roma nell’anno 1870 ed il Plebiscito” L. Reux e C. Editori, p 25.

[3] Comando del Corpo di Stato Maggiore “Memorie Storiche Militari Vol.IIi” Stab. Tip. Della Società editrice Laziale 1910, pp 293-294.

[4] Giunta Municipale di Torino “Inchiesta amministrativa sui Fatti avvenuti in Torino nei giorni 21 e 22 settembre 1864” Per gli Eredi Botta Tipografi del Municipio – Palazzo Carignano, Torino 1864.

[5] R. Cadorna, “La liberazione di Roma nell’anno 1870 ed il Plebiscito”. L.Roux Editori – Torino 1889, p 59.

[6] R. Cadorna. Op. citata, p. 60

[7] R. Cadorna. Op. citata, p. 61

[8] Il Ministro della Guerra con R.D. del 24 giugno 1869 stabilì un nuovo ordinamento per l’Esercito che prevedeva “Unità sul piede stanziale” e “Unità sul piede mobile”, queste ultime ulteriormente suddivise in unità sul piede mobile completo e unità sul piede mobile incompleto, in relazione al loro stato di approntamento: organici di guerra per le prime e organici di pace per le seconde. Filippo Stefani, “La Storia della Dottrina e degli Ordinamenti dell’Esercito Italiano” Vol. I, p. 220.

[9] La riproposizione del Bixio avvenne all’insaputa del Cadorna, che tuttavia non fece opposizione, nella considerazione che la 2a Divisione avrebbe svolto un ruolo ritenuto marginale ed, in parte, avulso da quello dell’intero Contingente. R. Cadorna, “La liberazione di Roma nell’anno 1870 ed il Plebiscito”. L. Roux Editori Torino 1889 p. 531.

[10] R. Cadorna “Operazioni Militari del 4° Corpo d’Esercito nelle Provincie già pontificie dal 10 al 20 settembre 1870 – Relazione ufficiale al Signor Ministro della Guerra”. Voghera Carlo Tipografo – Firenze 1870, p. 4

[11] F. Stefani “La Storia della Dottrina e degli Ordinamenti dell’Esercito Italiano” Vol. I, p. 237 e 238

[12] F. Stefani, Op. citata, p 238.

[13] C. Montù Storia dell’Artiglieria Italiana. Parte II, Vol. V. Rivista di Artiglieria e Genio – Roma 1938.

[14] Breve descrizione delle artiglierie rigate dell’Esercito italiano, loro uso ed ordinamento dell’Artiglieria in guerra – Stamperia dell’Unione Tipografico- Editrice 1866, pp. 9, 10, 11.

[15] Luigi Pelloux. Quelques souvenirs de ma vie, Istituto per la Storia del risorgimento italiano 1967, p. 77.

[16] Luigi Pelloux. Opera citata, p. 84 e 85.

[17] Filippo Stefani. “Storia della Dottrina e degli Ordinamenti dell’Esercito Italiano”, Vol. I p. 221.

[18]Breve descrizione delle Artiglierie rigate dell’Esercito Italiano. Loro uso ed ordinamento delle artiglierie in guerra”. Stamperia dell’Unione Tipografico-Editrice, Torino 1866, p. 56.

[19] Opera citata, pagina 53.

[20] R. Cadorna. “La liberazione di Roma nell’anno 1870 ed il Plebiscito”. L Roux e C. Editori Torino 1889, p. 78.

[21] I tamburi erano apprestamenti difensivi delle fortificazioni a uno o due piani eretto ai fronti di gola per fiancheggiamento del fosso, con funzione sia di difesa dell’imbocco delle opere fortificate sia di difesa esterna ravvicinata. Vocabolario Treccani.

[22] F. Stefani, Op. citata, p. 239.

[23] Raffaele Cadorna, Operazioni Militari del IV Corpo d’Esercito nelle provincie già Pontificie. Relazione a S.E. il Ministro della Guerra. Voghera Carlo Tipografo, Firenze 1870.

[24] SME – Ufficio Storico, Il Generale Roberto Segre. Antonino Zarcone, pp. 13, 14.

[25] R. Cadorna, La liberazione di Roma nell’anno 1870 ed il Plebiscito. L. Roux e C. Editori – Torino 1889, p. 531.

[26] Filippo Stefani, Opera citata, p. 232.