Premessa
Cent’anni fa si ponevano le basi politiche per il periodo storico che chiamiamo il Ventennio. Ecco una oggettiva sintesi dei fatti accaduti, rispetto ai dati storici del tempo, senza tendenze di parte.
La politica dopo il “Natale di sangue”
Verso la fine del 1920, Mussolini si trovava a capo di un movimento che aveva ottenuto grandi successi. Si era inserito, infatti, nel discorso politico giolittiano, sfruttando: la conclusione della questione di Fiume e quella che sembrava la fine della parabola politica dannunziana; il grande consenso del fascismo agrario, soprattutto nelle campagne emiliane e quel dimostrarsi la giusta forza politica in grado di raccogliere la fine della protesta dei partiti “rossi”, per porsi come reazionario, quindi capace di catalizzare l’attenzione dei borghesi, degli imprenditori agricoli e industriali.
Un lavoro che Mussolini sapeva dovesse essere svolto nel corso del 1921, sapientemente conducendo verso il successo gli sforzi finora fatti che, di certo, si dovevano imputare soprattutto a lui. Era ben chiaro al fondatore dei Fasci che non avrebbe potuto a lungo rimanere nell’ombra giolittiana, per non venire fagocitato nella politica liberista che, sotto sotto, sperava nell’implosione del fascismo stesso verso forme politiche più consone ad un periodo che si stava allontanando dalla guerra mondiale, cercando di acquisire equilibri sempre più stabili. Questo seguire la mera politica del grande statista Giolitti, avrebbe certamente allontanato la base dal fascismo, magari dando spazio ancora a D’Annunzio o a coloro che lo seguivano, come alcuni fedeli legionari che, di certo, erano pronti a riconquistare potere.
La “Carta del Quarnaro” era molto importante, infatti, e aveva così lungimiranti visioni politiche che sicuramente qualcuno l’avrebbe sfruttata a suo favore, cercando di occupare quelle anse politiche che Mussolini non aveva saputo soddisfare. Era il momento di allargare la base politica e consolidare il risultato ottenuto, a proprio favore, soprattutto rivolgendosi alla classe media, a coloro interessati a difendere la nazione da qualsiasi tipo di prevaricazione di sinistra, su modello russo.
Il fascismo agrario, verso i primi del 1921, lo portavano ad essere a capo di un movimento certamente di caratura nazionale, tuttavia non poteva contare sulla durata di quel fenomeno e, tantomeno, basarsi sulla possibilità di continuare a restare sulla cresta dell’onda soltanto contando sugli squadristi e sulle agitazioni. L’appoggio agrario aveva ingrossato le fila del movimento, spostando la percentuale di iscritti cittadini ed ex militari, verso le forze contadine, gli studenti e i piccolo borghesi, su tutto il territorio della Penisola.
Anche se la prevalenza di Fasci era al Nord, tutta Italia aveva visto prolificare il movimento. Nel 1921 i Fasci erano 817 al Nord, 266 al Centro, 183 al Sud e 67 nelle Isole, per un totale di 218.453 iscritti. Al Congresso di Livorno gli iscritti al Partito Socialista erano poco più di 216mila, e questo indica la portata del fascismo in quel momento.
Secondo l’onorevole Gino Sarrocchi, alla fine di gennaio 1921, il fascismo non era altro che una salutare reazione di tutto un popolo che, finalmente, aveva trovato chi ne prendeva le difese, dopo essere stato bistrattato. E la parte che scendeva al suo fianco era quella dei giovani, in sostanza in un movimento spontaneo di difesa che da solo, senza le organizzate forze governative, aveva saputo generare il ridestarsi della coscienza pubblica in un Paese che risultava appiattito. Il successo risultava strepitoso, in quel lasso di fine 1920-inizio 1921, non soltanto per la capacità organizzativa del fascismo stesso, quanto anche per l’incapacità del Partito Socialista di reagire, di uscire dal suo massimalismo e di porsi come suo contraltare, anche opponendosi fermamente alla violenza fascista. Era fuor di dubbio che il fascismo fosse diventato una forza politica con la quale fare i conti nello scenario italiano, necessaria se non indispensabile per gli equilibri politici e di governo. Il Partito Socialista non era stato in grado di fronteggiare l’urto reazionario che il fascismo esprimeva, mentre Giolitti, appunto, lo inseriva nei Blocchi nazionali per le elezioni del 1921. Dinanzi alla timidezza degli avversari politici, il fascismo si presentava come nazionalista, capace di difendere i valori nazionali, di rivendicarli a gran voce, sbandierando l’antibolscevismo, cioè la contrarietà a quanto aveva realizzato la rivoluzione in Russia, con i contemporanei fatti di guerra civile che ne aveva conseguito. I fascisti continuavano a manifestarsi come attaccati alla patria e alla volontà di difenderne di confini, rivendicando la vittoria bellica, anche se lo scivolone del mancato appoggio alla questione di Fiume, dopo il Trattato di Rapallo e il “Natale di sangue”, poteva aver fatto venire alcuni dubbi. Mussolini era conscio di questo, ma altrettanto consapevole che l’oceanica massa di neofascisti provenienti dalle zone rurali, rischiava di distaccare il movimento dal suo pensiero. Il fascismo rurale sembrava, all’epoca, diverso da quello mussoliniano milanese di San Sepolcro: appariva vecchio e da superare, mentre Mussolini e i suoi attaccavano la borghesia e ne andavano a braccetto, semplicemente perché anche nella borghesia c’era qualcosa di buono e qualcos’altro no. Quindi bisognava ripulire la situazione cercandone il lato migliore, senza dare troppo spazio ai reazionari rurali, che erano indispensabili in quel momento (il concetto del “numero” per Mussolini era sempre fondamentale), ma che non avrebbero avuto prospettive politiche. Si sarebbero avvantaggiati momentaneamente, ma non sarebbero andati oltre, come Mussolini invece voleva. Infatti, l’osservatore politico Giuseppe De Falco, nel 1921, scriveva che il fascismo era destinato a scomparire, in quanto la sua azione era stata solamente reazionaria, buona a sfasciare cooperative e sedi di giornali, ma non a costruire qualcosa. Ora che tutti stavano per rientrare nei ranghi, sarebbero stati liquidati e rimandati a casa e degli squadristi non sarebbe rimasto nulla; così come i giovani studenti, visto come erano soltanto stati usati nella loro lotta disinteressata, se ne sarebbero tornati a studiare, mentre il fascismo sarebbe stato chiuso. Finito.
Violenze e connivenze
Intanto il Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Interno, Corradini, scriveva un telegramma a Rodinò, Ministro della Guerra, per mettere in guardia rispetto al comportamento dei militari in quel frangente, siamo nella primavera del 1921.
Corradini riteneva necessario un intervento del Ministro per disciplinare il comportamento dei militari che sembravano considerare il fascismo come un ideale movimento per restaurare la forza nazionale e accettare ogni eccesso delle squadre fasciste come giustificato, soprattutto nell’area toscana. Il Sottosegretario sottolineava come ufficiali dell’esercito partecipassero alle riunioni organizzative fasciste, anche avendo parte ad atti delittuosi, in modo da avvalorarne la liceità e, quindi, consapevolmente o inconsapevolmente, moltiplicandola. Corradini riteneva indispensabile agire subito e con fermezza, per mettere uno stop sia alle violenze e ai soprusi organizzati ampiamente in varie province toscane, sia all’atteggiamento errato dei militari che le appoggiavano, ostentando i simboli fascisti e partecipando direttamente alle spedizioni punitive. La sintesi del telegramma fa ben capire quanto fossero contingenti le azioni fasciste, soprattutto agrarie e di buona parte degli appartenenti di fede reazionaria soltanto. Mussolini rimaneva colui che, pur agendo giorno per giorno, tatticamente, aveva però una visione strategica, volta al domani, per poter strutturare un’azione politica nel vero senso della parola, con azioni e modalità che portassero alla stabilità foriera di realizzazioni. Per esempio, chi aveva pensato che la brutta chiusura della questione di Fiume sarebbe stata la fine del fascismo, aveva sbagliato, perché invece si era rivelato il modo di tendere la mano verso Giolitti ed essere ammessi nell’agone politico vero e proprio. Ora si passava a chi voleva usare il fascismo per i propri scopi, mentre Mussolini cercava di muoversi per realizzare i propri e quelli del suo movimento. Infatti, per molti borghesi reazionari, finalmente si affiancava al governo giolittiano, notoriamente contrario ad intervenire nelle controversie lavorativo-sindacali, una forza armata che mettesse un freno alle attività sindacali, concludendo quella neutralità governativa che a molti stava stretta da tempo. Davanti alle violenze fasciste, infatti, questi ceti chiedevano l’intervento deciso, anche armato, contro le violenze e le manifestazioni di sinistra. Il fascismo sembrava l’arma giusta, quindi, e pare che tutti ne volessero usare la parte che era loro più congeniale, mentre il fascismo stava usando quel momento per consolidarsi nella politica e acquisire potere. Anche i popolari indicavano nell’inazione governativa molta responsabilità: invece di agire e di prendere il posto del fascismo che scorazzava per il Paese, il governo era stato a guardare, aveva lasciato fare. Perciò si era arrivati al punto che le azioni fasciste, spregiudicate e violente, invece che venire valutate per quello che erano, finivano per essere addebitate alla sinistra, a quei “rossi” che avevano iniziato scioperi e proteste e li portavano avanti, non senza azioni decise anch’essi.
Sembra quindi, secondo De Felice, nascere in questi mesi la fiaba del fascismo paladino della giustizia e della libertà del popolo italiano, novello salvatore dalle mire bolsceviche. L’unico capace di un’azione armata (giusta) rispetto al governo. Intanto Mussolini si barcamenava tra cercare di non farsi annullare dentro i movimenti politici dei Blocchi, da una parte, dall’altra di non tacitare la sua voce politica sotto quella autorevole di Giolitti, e dall’altra ancora di cercare di dare al Movimento, sempre più gonfio di iscritti, un programma politico, o almeno una linea di condotta politica. Giolitti, dal canto suo, non riuscendo a convincere Turati e i socialisti ad entrare nella compagine di governo, indice le elezioni, cercando di tenere a bada il più possibile i fascisti. Infatti, il suo governo cercò sempre di contenere il fascismo violento, soprattutto le eventuali connivenze con le forze dell’ordine. Anche rispetto alla situazione toscana, ad esempio, inviò osservatori e diede disposizioni severe per reprimere le violenze fasciste anche nella primavera 1921. I rapporti dei Prefetti di quel tempo scrivono tutti di largo consenso della popolazione al fascismo stesso.
A livello di numeri, verso la metà del 1921 a Roma, per citare solo la capitale, si contavano 1073 casi di violenza tra fascisti e socialisti, ma ciò che ha maggiore rilievo è che sono stati arrestati 396 fascisti rispetto ai 1421 socialisti. Malgrado la richiesta d’intervenire anche duramente, soprattutto contro militari e altri appartenenti alle forze dell’ordine invischiati nelle azioni squadriste, Giolitti comunque vedeva una certa reazione della classe media, sperava nell’altrettanta reazione della sinistra, come auspicava che questa si decidesse, come abbiamo scritto, ad entrare nella compagine governativa. Nel frattempo, pensava di poter tenere sotto controllo il fascismo coinvolgendolo nei Blocchi, perché l’uso della violenza era antitetico con la politica militante nei ranghi, anche se, forse, pensava che un po’ di violenza “esterna” servisse per tenere a basa i socialisti più rivoluzionari, fosse una buona occasione per avere argomentazioni politiche al momento opportuno, fosse un modo per smuovere i più restii verso la candidatura politica. Insomma, ancora una volta lo Stato appariva incapace di fermare l’avanzata del movimento capeggiato da Mussolini. Che, ai primi del 1921, non voleva diventare un partito, cioè non voleva né rientrare nei ranghi, né scendere a patti, per mantenere la propria azione violenta e decisa a rivoluzionare un po’ tutto. Questo si leggeva a Bologna, ad esempio, piuttosto che a Milano. Dinanzi ai proclami di gennaio 1921, addirittura del Segretario generale dei Fasci di combattimento, non disposto a nessuna piega e a nessuna trattativa volte a sedare l’azione violenta, Mussolini dal suo giornale rispondeva che era necessaria una sorta di tregua con il governo, quindi con Giolitti. Ritorniamo alla già citata volontà, e necessità, di ampliare le vedute oltre alla lotta del momento che, alla lunga, sarebbe diventata sterile. Altra assoluta necessità per Mussolini e i suoi fedeli, era evitare la rottura tra loro e i fascisti dannunziani che ancora rimproveravano l’atteggiamento tenuto durante il triste Natale precedente, quando non si era mosso un dito per aiutare D’Annunzio a Fiume. Anzi, i fascisti più interventisti erano stati tenuti freno, con una mozione poi approvata, ma che non contentava ancora tutti, polemici anche nei giorni e mesi seguenti agli episodi che avevano portato alla cessione della Dalmazia. I fascisti più nazionalisti incolpavano la monarchia di avere ceduto con la firma dei trattati, e quindi chiedevano a Mussolini un’azione più in chiave repubblicana, tornando a quelle idee già espresse di cancellare il governo del Re. Rispetto al mantenimento della monarchia, poi, si esprimeva contrariamente tutta la base squadrista nelle varie province italiane, che si manifestava anche dalla parte di D’Annunzio. Soprattutto il fascismo padano cercava di organizzarsi con i principi della “Carta del Quarnaro”, volendo prendere il posto delle organizzazioni sindacali socialiste che era riuscito a sconfiggere. A quel punto, con la pessima figura monarchica nella questione fiumana, i legionari e i fascisti filo dannunziani ancora inviperiti, si era davanti ad un’evidenza. Se D’Annunzio, andando al Congresso di Milano, avesse radunato attorno a sé i suoi sostenitori, probabilmente il capo del movimento non sarebbe più stato Mussolini. Oppure, Mussolini avrebbe dovuto dividere con il Vate la direzione del movimento. Proprio quel D’Annunzio che tanto sperava nel suo appoggio e che ora non aveva per lui che giustificato rancore, data la posizione tenuta in occasione del Trattato di Rapallo.
Ecco, ancora una volta, spiegata la scelta di aderire ai Blocchi. Bisognava fermare D’Annunzio; alleandosi con Giolitti ci sarebbe stata la prospettiva di entrare nel governo; si sarebbero tenuti a bada i fascisti più reazionari; il fascismo si sarebbe posto (e Mussolini ovviamente) come il salvatore dalla minaccia bolscevica.
La politica presentata nelle adunanze
Cominciarono ad essere indette le adunanze regionali fasciste in vista di quella nazionale, per prepararsi adeguatamente e, in fondo, l’idea di entrare nei Blocchi nazionali non aveva creato problemi tra i membri del movimento. Nei proclami si comincia a porre l’accento su “la terra a chi lavora”, ancora cavalcando l’annoso problema della riforma agraria mancata, sempre indicando la necessità di sostituire nell’organizzazione sindacale, camerale e di collocamento i socialisti. Mussolini nei suoi discorsi in seno alle adunate, si occupava di trattare la politica estera, e cominciò ad affrontare il tema del Trattato di Rapallo, del fatto che il fascismo non aveva mai negato la solidarietà con la causa fiumana, ma che la soluzione si era rivelata la meno peggio, per una serie di motivi. Una rivoluzione dopo il Trattato di Rapallo, secondo Mussolini, si sarebbe rivelata assurda: combattere contro un Trattato di pace dopo anni di guerra! Quindi, niente rivoluzione, ma cercare di annettere economicamente Fiume all’Italia, mantenendo alto il nazionalismo italiano nella città e nella zona. Questi argomenti furono sviscerati nelle prime quattro adunate regionali e servirono a Mussolini per delineare, in pratica, il quadro politico della relazione del movimento con Giolitti, le clausole della collaborazione.
Interessante notare che, da abbastanza abile politico, Mussolini, durante i discorsi tenuti alle adunate fasciste di febbraio e marzo 1921, non chiedeva di fermare le violenze fasciste, accontentando così la base popolare del movimento, ma approfittava delle violenze degli avversari per fomentare quelle della propria parte, sempre attribuendo agli altri la maggiore responsabilità di situazioni anche molto violente ai danni della popolazione inerme. Il fatto più grave, tra i molti, accadde a Milano, al Teatro Diana, tra il 23 e il 24 marzo 1921. Era stato causato da anarchici individualisti e costò la morte di ventuno persone, con il ferimento di circa duecento, comprese donne e bambini. Lo scopo dell’attentato doveva probabilmente essere l’assassinio del questore Gasti, ma bastò a Mussolini per tacciarlo come la peggiore manifestazione della truce violenza bolscevica. Il 24 marzo, “Il Popolo d’Italia” relazionava su un fallito attentato anarchico a Mussolini e l’ondata di violenza complessiva stava sempre più esasperando gli animi di tutti. Sulle colonne del suo giornale, Mussolini altalenò parole vendicative e assolutamente violente, a parole più miti e possibiliste, cercando pertanto di cavalcare un’onda senza volersi apertamente macchiare, politicamente, di ulteriore sangue versato che, sapeva, poteva essere addebitato a lui, in senso assolutamente negativo per i suoi scopi. Lo scopo politico qual era? Cercare di aprire la porta alle alleanze per le imminenti elezioni, dal momento che era chiaro che il governo sarebbe durato ben poco.
Nel frattempo, se è vero che l’ultimo discorso di D’Annunzio aveva dato vita, attraverso i suoi legionari, ad una Federazione nazionale dei legionari fiumani che, poi, avrebbero inaugurato periodici affini al loro pensiero politico, è altrettanto vero che il Vate, stanco e deluso dopo gli episodi del “Natale di sangue”, si era ritirato nella sua villa di Gardone Riviera, dove desiderava soprattutto tornare ad essere un Poeta. Molti legionari confluirono nelle fila dei Fasci comunque.
Mussolini continuava gli incontri soprattutto con i suoi fascisti, ma il 5 aprile 1921 si recò in visita a D’Annunzio a Gardone. La notizia venne anche riportata su “Il Popolo d’Italia”, ma senza troppe informazioni, se non che i due avrebbero discusso della situazione politica attuale, gettando le basi per gli accordi in vista di una comune politica nazionale. D’Annunzio non pensava di candidarsi e molti fiumani non sarebbero entrati nei Blocchi nazionali, pertanto nessun accordo venne raggiunto, anche se a Mussolini avrebbe fatto di sicuro molto comodo. Il 7 aprile, infatti, D’Annunzio scriveva che Mussolini avrebbe fatto suo il programma politico dannunziano già letto a Fiume, una rassicurazione che avrebbe portato a consigliare ad alcuni legionari di candidarsi o di non ostacolare la candidatura dei Fasci, ma di certo non era chiaro che si fosse sottoscritto un vero e proprio accordo. Molto più probabilmente entrambi gli uomini non volevano arrivare ad una rottura, ma non si fidavano troppo l’uno dell’altro, per lo meno sul piano politico.
Il 15 aprile successivo, i Fasci resero noto il loro programma politico agli elettori.
Le elezioni politiche del 1921
Con lo scioglimento anticipato della Camera dei Deputati della XXV legislatura del Regno d’Italia, vennero indette le elezioni per il 15 maggio successivo.
I disordini continuarono a ripetersi un po’ in tutto il Paese, con atti anche molto gravi e violenti, contrariamente a quanto aveva sperato Giolitti, che credeva di riordinare gli animi intorno ad un impegno democratico comune. Si parla di morti e feriti, con violenze fasciste (come nel mantovano) e comuniste, molto spesso per l’esasperazione causata dagli atteggiamenti degli esponenti dei Fasci locali. Addirittura alcuni responsabili di zona dei Fasci ritenevano di dover avere mano libera per la loro azione, senza pensare di dover sottostare a regole, con la richiesta (come si legge in Toscana) di autorizzare i fascisti a portare la rivoltella, così come di revocare ogni provvedimento preso nei confronti di militari accusati di connivenza con il movimento e, soprattutto, i suoi atti criminali.
I risultati elettorali furono favorevoli ai socialisti che ottennero 123 seggi in Parlamento, il Partito Popolare ne ottenne 108 e i Blocchi nazionali ne ottennero 105, con 35 deputati fascisti al governo. Un risultato, malgrado l’affermazione di prevalente tendenza repubblicana di Mussolini in campagna elettorale, che affermava le mire del capo del movimento per una politica solida per sé e i suoi, ma che non comportò per molti mesi ancora una linea di condotta politica decisa. Anzi, per molti era iniziato il lento declino del fascismo stesso, travagliato da una crisi che proseguirà almeno fino al 1922, mentre cominciavano gli approcci per un “patto di pacificazione” che consolidasse il governo.
Conclusione
La sintetica disamina presentata, permette di aprire alla riflessione personale di ciascuno, rispetto soprattutto a quando la politica, anziché esprimersi con concetti ed idee propri, pensa a ciò che devono o non devono fare gli altri. I risultati non sono mai da vedersi nell’immediato, ma nel complesso, così come i cent’anni trascorsi ci stanno permettendo oggi.
Alessia Biasiolo