RICORDI DALLA CASERMA “RUAZZI” DI ELVAS BRIXEN
I° GR.A.PE. “ADIGE” 1980 – 1981
Sergio Benedetto Sabetta
La caserma era posta su tre livelli essendo costruita su un altipiano declinante sopra Bressanone, tra i comuni di Elvas e Naz-Sciaves, altipiano già utilizzato dall’esercito Austro-Ungarico durante la Grande Guerra per esercitare i reparti militari prima di inviarli al fronte.
L’accesso principale alla caserma avveniva tramite scalinata, a fianco, verso Naz–Sciaves, vi era una casermetta con una sezione dell’11th USA field destachment del 559° artillery group Italy avente la funzione di collegamento con Vicenza, base NATO-USA, e di guardia al vicino deposito di munizioni non convenzionali, al cui controlla partecipava anche l’Esercito italiano con la 4° Compagnia Fucilieri del “Site Rigel” nel comune di Naz-Sciaves.
La palazzina comando era all’ingresso, sul capo scala, tuta la caserma risultava isolata dai due centri abitati circondata su tre lati da foreste di abeti e campi coltivati, solo il lato d’ingresso costeggiava la strada molte volte attraversata velocemente da caprioli o altri animali selvatici.
La caserma era stata costruita all’ombra del massiccio della Plose da cui la divideva, dietro, un profondo canalone, mentre dalla fronte si poteva osservare all’orizzonte verso Nord la catena sempre bianca di montagne con il valico del Brennero che ci divideva dall’Austria, a fianco vi era un’area su cui potevano atterrare gli elicotteri provenienti dalla vicina base di Vicenza o effettuare esercitazioni all’aperto.
D’inverno le temperature scendevano parecchi gradi sotto lo zero e il ghiaccio spesso bloccava le porte di ferro delle carraie, che dovevano essere rese agibili a colpi di piccone per spezzare le lastre di ghiaccio.
Particolarmente disagevole era la guardia sulle altane non riscaldate, durante l’inverno un vento gelido fischiava da Nord e la mancanza di un equipaggiamento adatto al rigido clima alpino, scarponi e giacche a vento imbottite, passamontagna sotto gli elmetti, guanti, si faceva sentire e induceva gli artiglieri ad equipaggiarsi con propri indumenti che spuntavano da sotto l’equipaggiamento, dando un aspetto variopinto alle sentinelle.
Spesso verso l’altana più lontana, sulla recinzione che costeggiava la zona boschiva, avvenivano di notte, da parte di elementi locali, lanci di pietre se non colpi di fucile rasenti da dietro gli alberi per spaventare le sentinelle che, non potendo usare le armi, telefonavano al comandante della guardia, l’ufficiale di picchetto, il quale solitamente avvertiva i Carabinieri che perlustravano la recinzione esterna.
La guardia non usciva mai dalla recinzione, ma una volta mi trovai al comando della guardia durante un lancio, organizzai immediatamente una pattuglia uscendo alla sua testa, lasciando al sottufficiale il comando del resto della guardia, percorremmo al buio la recinzione non avendo torce di potenza adeguata, i molestatori si allontanarono.
Alla mattina durante l’adunata mi presentai al Colonnello Comandante per il rapporto e comunicai con fierezza sull’attenti di avere respinto con una squadra armata l’incursione, ma invece di una lode ricevetti un rimbrotto, avendo fatto un’azione temeraria nell’affrontare i male intenzionati senza avvertire i Carabinieri, con la possibilità di uno scontro a fuoco o di una aggressione ed il pericolo, inoltre, della perdita di materiale bellico, era anche l’epoca del terrorismo.
Il rapporto con i sud-tirolesi del posto non era dei migliori, da una parte apprezzavano il contributo economico che una guarnigione di oltre cinquecento uomini portava, dall’altra eravamo sopportati quali truppe di occupazione, tanto che molte volte facevano finta di non capire parlando in tedesco mentre in altri casi nascevano delle risse tra artiglieri e giovani del posto nelle birrerie.
Si deve riconoscere che i nostri non si comportavano sempre molto bene, provocando talvolta con dei comportamenti un po’ aggressivi, bastava comunque l’arrivo di una pattuglia di Carabinieri per interrompere qualsiasi scontro, pesava la scura divisa nei confronti degli austriaci.
I rapporti con i locali era tale che avendo una volta bisogno di cure dentistiche urgenti, dovetti ricorrere al commissariato di P.S. di Bressanone per farmi indicare un dentista, avendomi gli altri dentisti da me consultati fissato degli appuntamenti a settimane di distanza, senza avermi neanche visitato.
Non essendovi posti in caserma presi alloggio in una locanda nel paese di Elvas, una stanza la cui luce veniva da un abbaino, posi un tavolino al centro sotto la luce per potere meglio studiare e portai da casa una lampada, avevo ripreso, dopo l’intervallo del Corso Allievi Ufficiali a Foligno nell’autunno-inverno 1979-80, gli studi universitari durante il tempo libero.
Un giorno durante una pausa, prima di rientrare in caserma, entrai a visitare il cimitero del paese, un campo di erba rasata con croci in ferro battuto che si affacciava da un poggio sulla valle di Bressanone, con lo sguardo che si spingeva verso Sud fino a Klauss e Bolzano, al centro una Chiesetta un pietra. Entrai dalla parte laterale, era in corso una funzione religiosa, mi girai e vidi i fedeli del paese seduti sulle panche divisi in quattro gruppi, i maschietti e le bambine davanti mentre gli uomini e le donne erano dietro, tutti separati, mi fissarono essendo in mimetica, mentre il sacerdote sospese il sermone guardandomi come se degli uomini armati avessero fatto irruzione, per superare la sorpresa feci il segno della croce e mi ritirai sul fondo, si girarono, la funzione riprese ed io uscii.
I monumenti ai caduti avevano l’elmetto tedesco e sulle foto, tranne alcuni, molti erano in divisa della Wermacht o delle SS ed erano caduti sulla Vistola, sull’Oder o a Berlino nel 1944/45.
In questa diffidenza vissi per più di tre mesi, finché un giorno mentre andavo a piedi sull’orlo della strada, tra campi di cavoli, viti e alberi da frutta, da Elvas a Bressanone in divisa, da un trattore, un vecchio contadino con i baffi bianchi ed un grembiule blu mi salutò alzando il cappello, da quel momento tutti gli abitanti del paese mi salutarono, ero stato osservato e valutato, esame superato.
Si deve riconoscere che vi era un forte spirito unitario tra gli abitanti, gli Shutzen che sembravano essere residui folcloristici con i loro calzoni corti di cuoio e velluto, i cappelli piumati, le bandiere e le vivandiere, si trasformavano la Domenica in un corpo volontario perfettamente inquadrato di pompieri e guardie forestali.
Si schieravano sulla piazza del paese e a colpi di fischietto tiravano fuori dai capannoni gli strumenti per gli incendi: li stendevano e organizzavano, per poi allinearsi per l’ispezione, una dimostrazione di volontaria efficienza che ogni volta mi stupiva.
Come detto, avevamo nella caserma, in un edificio cintato a Nord, un reparto di una quarantina di americani comandati da due Capitani, Wood e Dane, essi facevano vita a parte, anche se un ampio cancello, che veniva chiuso la notte, metteva in comunicazione le due parti.
Erano formalmente molto rispettosi, ma si capiva che si sentivano i leaders nei nostri confronti, un giorno mentre ero di picchetto accadde un fatto che lo dimostrò chiaramente.
Vi era un continuo commercio di cappelli da fatica da parte dei nostri, che non contenti dell’aspetto e consistenza di quelli in dotazione da noi andavano nella caserma americana ad acquistarli e con il modello americano in testa fieramente giravano, oltre ad altro materiale.
Molte volte finiva che vi erano divise variopinte, intervenne il Vice Comandante del Gruppo, Ten. Col. Pischedda, che ordinò di chiudere il cancello divisore con catena e lucchetto, ma si dimenticò di dare immediatamente una chiave agli americani.
Caso volle che in quella stessa giornata uno dei capitani americani si trovasse dalla nostra parte, non potendo ritornare nel suo settore venne dall’ufficiale di picchetto a chiedere la chiave. Risposi che non mi era stata lasciata una copia e l’unico esemplare era tenuto dal Tenente Colonnello, alla presenza del Capitano di servizio mandai un artigliere della guardia a chiedere la chiave.
Ritornò poco dopo dicendo che il Vice Comandante era in riunione e non voleva essere disturbato, mentre si discuteva di mandare un Ufficiale a chiederla il Capitano americano, pensò un momento e chiese di telefonare, diede disposizioni, salutò e partì.
Ci guardammo e decidemmo di seguirlo, poco dopo l’artigliere che lo seguiva ritornò di corsa avvisando che la catena era stata tagliata e gettata da parte, ci guardammo per decidere chi doveva andare dal Vice Comandante ad avvisarlo.
Il Capitano di servizio, presente al fatto, partì immediatamente e salì al comando, quando tornò disse che vi era stata una furiosa sfuriata ma seppi che non venne mai detto niente agli americani, sorridendo tra noi si osservava che quando c’erano gli americani si taceva.
Un altro fatto che mostrava il sentimento dell’alleato fu quando una sera d’estate, verso mezzanotte, un soldato americano si presentò con la propria auto in carraia dal Sergente di giornata per entrare e raggiungere gli alloggiamenti.
Era completamente ubriaco e fuori orario, aveva con sé in auto una ragazza del luogo, che guardava terrorizzata l’americano prendere a calci la porta di ferro della carraia urlando imprecazioni verso il sergente e la guardia che non lo faceva entrare, nel sedile dietro una bottiglia di wisky vuota.
A differenza degli italiani gli americani erano ben accetti dalla popolazione locale, e farsi vedere con loro non era disdicevole, specialmente le ragazze.
Il sergente venne di corsa a chiamarmi agitato, sia per l’accaduto che per la difficoltà della lingua, dallo spioncino della porta mostrava all’americano la pistola credendo di intimorirlo, questi infuriato aumentava imprecazioni incomprensibili e gesti offensivi, alternandoli a calci e pugni, l’artigliere di guardia con il fucile garand puntato stava in piedi e ammutolito osservava, chiedendo ogni tanto “Tenente cosa devo fare?”.
Decisi di telefonare alla caserma americana, mi rispose uno dei capitani, descrissi la situazione e chiesi che comportamento adottare, dopo un attimo di silenzio mi disse di farlo passare che avrebbero provveduto loro.
La carraia fu aperta e questi, salito in auto, partì sgommando mostrando in segno di sfida il medio, a cui il sergente reagì imprecando.
Si sentirono nel silenzio le gomme stridere lungo il percorso, finché vi fu una furiosa frenata e tutto tacque, il giorno dopo venimmo a sapere che, chiamato un taxi per la donna, lo avevano aspettato un paio di artiglieri americani con il capitano, non lo vedemmo più e ci fu detto che essendo volontario gli fu tra l’altro sospeso lo stipendio.
Nei rapporti con gli americani ci furono anche dei momenti di ironia, come quando durante il rientro degli obice dalle esercitazioni uno di questi, in inverno, scivolò sul ghiaccio e con la bocca da fuoco sfondò la recinzione in alto con gli americani.
La canna rimase puntata sulla casermetta, gli americani, sentito il frastuono, uscirono correndo e rimasero perplessi di fronte alla scena, mentre uno dei nostri Sottotenenti saltato sulla coda del pezzo, rivolto agli americani gridò “Niente paura, non siamo russi!”.
A parte questi inconvenienti i rapporti a livello personale erano abbastanza cordiali, circostanza che constatai di persona quando, dovendo andare da loro, mi vidi offrire un caffè in un enorme bicchiere da Coca – Cola.
Le esercitazioni avvenivano in uno spazio demaniale vicino alla Caserma dove i pezzi venivano schierati e ci si esercitava sia per le modalità relative alla presa di posizione che per la trasmissione dei dati di tiro.
Durante una di queste prove, in inverno, si simulava una imboscata di irregolari ai nostri reparti in movimento, in questi casi mentre gli artiglieri si schieravano intorno alla batteria, con i centri di fuoco, una squadra di fucilieri, che ci accompagnavano sempre, muoveva all’assalto di quelli da noi definiti come “guerriglieri”.
In una di queste esercitazioni, un gruppo di “guerriglieri”, che poi erano alcuni artiglieri travestiti, si appostarono sulla cima di un piccolo promontorio innevato, i fucilieri in ordine sparso avanzarono in salita con uno di loro che portava una mitragliatrice MG.
Ad un tratto sentirono un’imprecazione e il fuciliere con la MG sparì in una nuvola di neve, fucilieri e “guerriglieri” si avvicinarono e trovarono il fante raggomitolato sul fondo di un fosso nascosto dalla neve, è inutile dire che l’assalto fu chiuso dichiarando la vittoria degli assalitori.
Nella caserma erano stoccate grosse quantità di cibarie quali riserve: gallette, scatolette, biscotti e razioni K in generale, materiale a lunga scadenza ma destinato comunque ad essere rimpiazzato.
Per evitare di buttare alla scadenza tutte le riserve, si procedeva a portarle la sera in mensa con molta cipolla, tuttavia il colore della carne senza coloranti era marrone e la cipolla tagliata cruda era pesante, circostanze che spingevano gli uomini a disertare la mensa.
Il Colonnello Comandante decise di ricorrere ai ripari, l’anti vigilia di Natale si organizzò una marcia in assetto di guerra ma senza armi per le foreste di abeti che circondavano la caserma.
Partenza dopo l’alzabandiera e in colonna ci avviammo per le abetaie coperte di neve, a mezzo giorno su una radura prestabilita presso Naz-Sciaves, ci acquartierammo, senza che fossero arrivati i mezzi militari con le razioni da consumare, all’improvviso apparvero i mezzi pesanti preceduti da una sezione di artiglieri, sembrava di essere sulle Ardenne nel dicembre 1944, tra abeti e neve, mancavano i tedeschi ma avevamo in cambio gli austriaci del sud Tirolo.
Sebbene privi di penna e con basco, essendo su un altipiano tra i monti oltre Bolzano e a sostegno della “Tridentina”, il cui Comandante veniva nelle occasioni ufficiali a trovarci, i nostri colleghi artiglieri della pesante alpina di Trento ci nominarono sul campo in una riunione “Alpini spennati”.
Il rapporto tra Ufficiali e artiglieri variava da un rapporto di fiducia ad una profonda eufemistica diffidenza, infatti vi erano molti che vivendo tra di loro, punivano solo dopo avere esortato e richiamato, mentre uno in particolare era detestato dagli uomini.
Un Sottotenente che aveva genitori bilingue, italiano e sud-tirolese, girava sempre indossando dei guanti di pelle e puniva tutti anche per delle piccole infrazioni, avevamo intuito che mediante questa durezza voleva rimarcare la sua appartenenza al gruppo linguistico tedesco, a scapito della sua parte italiana.
Nella quotidianità il capitano, comandante della batteria, aveva le funzioni del buon padre di famiglia che dettava le regole generali e manteneva i rapporti con l’esterno, provvedendo ai bisogni e intervenendo solo nei casi gravi, mentre gli ufficiali subalterni, tenenti e sottotenenti, erano la figura della madre che segue i ragazzi nel vivere quotidiano, incoraggia e sgrida, talvolta punisce, sente le lamentele e mantiene i rapporti con il padre.
Gli ufficiali superiori non venivano nelle camerate se non alcune volte nell’anno per ispezioni, scattava immediatamente prima dell’ispezione, che solitamente era annunciata, il riordino e la pulizia più a fondo delle camerate e dei servizi.
Brande allineate, polvere levata anche dove non si vedeva, anfibi lucidati, vestiario tolto da sgabelli e brande per essere chiuso negli armadietti metallici e per ultimo tolte le foto piuttosto osé delle pin up tra i brontolio generale degli artiglieri, magari dopo discussioni, le più piccanti venivano sequestrate per riapparire in altri alloggiamenti.
Le donne erano viste come qualcosa di raro, se si intende la diffidenza innata verso i militari italiani ed il vivere isolati su un altipiano tra abetaie e campi, con Bressanone a vari Km di distanza.
Quando queste si presentavano all’ingresso vi era subito il correre della voce, un giorno, mentre ero ufficiale di picchetto, si presentarono due donne che con accento americano chiesero d’incontrare i due Capitani americani, furono fatte entrare e accomodare in attesa nel parlatorio.
Immediatamente corse la voce ed arrivarono con mille scuse, in un via vai continuo, decine di artiglieri che le guardavano dalla porta e dal finestrone che dava sull’ingresso, come se fossero state animali rari.
Queste, sedute su una panca in fondo alla stanza, con uno sguardo tra l’intimorito ed il perplesso osservavano tutto questo via vai, il fatto era che mentre queste erano soldatesse in borghese della base americana di Vicenza noi non avevamo ancora delle donne arruolate, così che fui impegnato ad allontanare gli uomini dicendo “ma non avete mai visto delle donne?”, “ragazzi non facciamo brutta figura!”. Finalmente arrivò il Capitano americano che se le portò via e il caos finì.
A fine novembre del 1980 vi fu il terribile terremoto dell’Irpinia, l’esercito fu immediatamente mobilitato per i soccorsi, tuttavia la III^ Brigata Missili “Aquileia” non venne coinvolta avendo funzioni strategiche non sostituibili.
Come già detto sopra, durante l’anno sostenni tre esami universitari, studiavo alla sera e durante il fine settimana, decisi di accelerare la preparazione e mi portai il testo di “Antropologia criminale” durante il periodo di picchetto.
Non considerai tuttavia la difficoltà di memorizzare, essendo continuamente distratto dalle varie incombenze del servizio, finii quindi per avere nausea nell’affermare il “trionfo della volontà” e verso mezzanotte venni ricoverato in infermeria, mentre sparlavo dichiarando al medico militare che dovevo assolutamente studiare ma che non potevo fare tutto da solo.
Mi addormentai dopo una endovenosa, al mattino sentii l’alza bandiera e vestitomi uscii dall’infermeria, raggiungendo il reparto schierato, nessuno mi disse niente, ma da allora capii che sebbene “volessi” vi era un limite, tuttavia divenni inconsapevolmente un mito tanto che i superiori bonariamente scherzavano se mi vedevano perdere tempo dietro ad un fumetto.