Russia – Fronte del Don 1942: dall’autunno il Corpo d’Armata Alpino, imperniato sulle Divisioni alpine Cuneense, Tridentina e Julia, e sulla Divisione di Fanteria Vicenza è schierato a difesa sulle sue posizioni. Il 15 dicembre i Russi, con un rapporto di forze sette volte superiore a quello delle nostre divisioni, rompono il fronte, dilagano nelle retrovie e accerchiano le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca che sono costrette a ritirarsi in un terreno sotto il completo controllo del nemico. Il Corpo d’Armata Alpino riceve l’ordine di mantenere le posizioni sul Don per non essere a sua volta circondato; ma il 13 gennaio i Russi riescono a rompere il fronte tenuto dagli Ungheresi (a nord) e dai Tedeschi (a sud) e racchiudono le divisioni alpine in una sacca. A questo punto non rimane che un’unica alternativa: il ripiegamento immediato. Il 17 gennaio l’intero Corpo d’Armata Alpino (57.000 uomini) inizia la marcia verso la salvezza. Una marcia di 200 chilometri nel terribile inverno russo con una temperatura tra i 30 ed i 40 gradi sotto zero. Una marcia interminabile, a piedi, con pochi muli e slitte, sempre contrastata da reparti nemici e da partigiani sovietici, costellata di episodi di valore e di solidarietà.
Il 25 gennaio, dopo 9 giorni, la situazione era la seguente: della “Cuneense”, circondata da ingenti forze corazzate, non si hanno notizie precise; la “Julia” non esiste più dal giorno 22; la “Vicenza” scompare dalla lotta. Rimane in organico solo la “Tridentina”, anch’essa duramente decimata e provata. A questa si accodano migliaia di sbandati, italiani, ungheresi e tedeschi, non tutti armati, in parte feriti e congelati, che avevano perso il contatto con i loro comando e fuggivano il combattimento. Nel pomeriggio del 25 gennaio la “Tridentina” arriva nel villaggio di Nikitowka, ai margini della piana che porta a Nikolajewka, e si concede una breve sosta. È la prima dall’inizio della ritirata ed il timido sole, l’assenza del vento e la possibilità di trovare nelle isbe del villaggio pane, frutta e pollame, concorrono a ridare fiducia agli uomini.
Nella notte, con la temperatura tornata a -30°, i Russi iniziano l’attacco del 6° Alpini con colpi di mortaio ed armi controcarro, contemporaneamente altri reparti assaltano il lato sud-ovest del villaggio. Per dare il colpo mortale al nemico in ritirata, i Russi si erano trincerati fra le case del paese che sorge su una piccola collinetta, protetti dal terrapieno della ferrovia che correva intorno all’abitato. Le forze sovietiche ammontavano a circa una divisione. Verso le 9.30 del mattino il Corpo d’Armata Alpino riceve l’ordine di attaccare. Il compito è affidato ai superstiti del “Verona”, del “Val Chiese”, del “Vestone”, appoggiati dal fuoco del gruppo di artiglieria “Bergamo”. La ferrovia viene raggiunta dopo sanguinosi scontri. Gli alpini riescono a raggiungere le prime isbe dell’abitato ed a sistemare le loro mitragliatrici nonostante le gravissime perdite subite. Il combattimento continua nell’abitato, di casa in casa, con continui assalti e contrassalti, fino alla conquista della stazione ferroviaria e della chiesa.
La reazione russa è violentissima. Gli alpini sono costretti ad arretrare ed a schierarsi a difesa in attesa di rinforzi. Verso mezzogiorno giungono i resti del battaglione “Edolo”, del “Morbegno” e del “Tirano” con i gruppi di Artiglieria “Vicenza” e “Val Camonica”. I Russi, che dispongono anche di fuoco aereo, oppongono una strenua resistenza: nonostante innumerevoli atti di valore di ufficiati, sottufficiali e soldati, l’esito della battaglia non è ancora deciso. La situazione si fa sempre più tragica perché il sole comincia a scendere ed è evidente che la permanenza all’addiaccio nello ore notturne, con temperature di 30-35° gradi sotto lo zero, avrebbe significato per tutti l’assideramento e la morte. Quando ormai stanno calando le prime ombre della sera e non sembrano esserci più speranze di rompere l’accerchiamento, il generale Reverberi, Comandante della “Tridentina”, sale su un semovente tedesco ed al grido di “Tridentina avanti” trascina i suoi alpini all’attacco. Il grido rimbalza da plotone a plotone, scuote la massa enorme degli sbandati che si lanciano urlando verso la scarpata della ferrovia, superandola e travolgendo la linea di resistenza sovietica. I Russi, sorpresi dalla rapidità dell’azione, ripiegano abbandonando sul terreno i loro caduti, le armi ed i materiali. L’accerchiamento è rotto, la strada per Nikolajewka è aperta. È una grande vittoria, la vittoria della disperazione. Migliaia di caduti rimangono sul terreno ed i superstiti devono percorrere altri 700 chilometri a piedi, sempre incalzati dai russi prima di raggiungere la salvezza. Il valore del Corpo d’Armata Alpino è testimoniato dalle numerose decorazioni al Valor Militare conferite a Ufficiali, Sottufficiali ed Alpini ed ai Nastri Azzurri che da allora ornano le Bandiere di Guerra dei Reggimenti Alpini. Le motivazioni delle medaglie d’Oro ricordano tutte in estrema e cruda sintesi quei tragici momenti.
“ln sette mesi di durissima campagna sul fronte russo si dimostrava granitica e potente unità di guerra…Durante la difficilissima manovra di ripiegamento dal fronte del Don…i suoi battaglioni…malgrado le eccezionali avverse condizioni di clima e di elementi…operando con rara abilità in territorio insidiosissimo, pur spossati dalle più aspre fatiche e privazioni, superando ogni umana possibilità di resistenza fisica e morale…stroncavano sempre nuove e soverchianti forze nemiche appoggiate da potenti mezzi corazzati e, con furore leonino rompevano il cerchio di ferro e di fuoco in cui l’avversario…si illudeva di averli mai chiusi…Col loro intrepido valore…travolgevano le agguerrite e impetuose truppe nemiche, ne contenevano e ne arginavano la irruente avanzata…ed aprivano la via della salvezza a numerose unità italiane ed alleate….”
Il bilancio finale è tragico: dei 16.000 uomini che costituivano ogni divisione alpina ne rimangono 6.400 della “Tridentina”, 3.300 della Julia”, 1.300 della “Cuneense”. Per il trasporto in Russia del Corpo d’Armata Alpino erano stati necessari 200 treni, per il ritorno ne bastarono 17!
Il solco tracciato da quell’immane sacrificio di sangue è stato però colmato dall’intelligenza e dalla volontà dei due popoli e soprattutto dei reduci di quelle tremende battaglie. Da molti anni l’anniversario di Nikolajewka viene celebrato congiuntamente da russi e da italiani. Ogni anno sui pennoni del castello di Brescia vengono issate contemporaneamente le bandiere russa ed italiana, mentre la fanfara intona i rispettivi inni nazionali. Nikolajewka oltre che richiamare alla mente un villaggio russo, oggi significa una scuola per ragazzi disabili, di fronte alla quale i reduci ed i rappresentanti ufficiali delle due nazioni si abbracciano e fraternizzano.
È un esempio che dovrebbe fare riflettere soprattutto altri reduci, appartenenti alla stessa nazione, l’Italia, schierati 60 anni fa su posizioni contrapposte e che oggi non sono ancora in grado di capire che l’avversario di allora rispondeva ad un ideale, giusto o sbagliato, ma che per quell’ideale ha spesso sacrificato la propria vita.
Carlo Maria Magnani
Da “Il Nastro Azzurro” 6-2008