Agli albori dell’unificazione politica, amministrativa e militare nazionale[1]
di Luigi Melfi
Premessa
Il presente lavoro ha come oggetto di studio gli avvenimenti nell’Italia centrale tra l’aprile e il maggio 1815 che dettero avvio al lungo processo che porterà alla proclamazione dell’Unità d’Italia. In particolare si avrà riguardo all’azione di Gioacchino Murat Re di Napoli che, dopo aver occupato Toscana, Marche e Romagna e dopo i primi combattimenti vittoriosi fu costretto, a causa della superiorità numerica delle forze austriache, a ritirarsi lentamente verso sud. La scelta di Tolentino come campo di battaglia fu voluta dal Murat in quanto era il punto per dividere con la maggior distanza possibile ed in modo netto (tramite gli Appennini) le due Armate Austriache, quella del maresciallo Bianchi (12.000 uomini) e quella del generale Neipperg (11.000 uomini). L’esercito napoletano ebbe grossi problemi di approvvigionamento viveri, stanchezza degli uomini e scarsità di mezzi per una campagna militare lunga ed estenuante[2].
Alla fine della Campagna di Russia del 1812, Napoleone ne uscì sconfitto: le Nazioni da lui sottomesse si ribellarono e, con la successiva battaglia di Lipsia e l’invasione della Francia del 1814, l’imperatore fu costretto ad abdicare.
Nel 1815, però, Napoleone ritornò trionfante a Parigi dal suo esilio sull’Elba, dando inizio all’epopea dei Cento giorni.
Parallela alla sua azione fu quella del cognato Gioacchino Murat che, dopo il tradimento iniziale per conservare il suo trono di Napoli, con la ridiscesa in campo di Bonaparte decise di ritornare al suo fianco.
Sconfitto Napoleone a Waterloo, i suoi sostenitori caddero uno ad uno, tra cui il Murat. In un tentativo di sollevamento dei popoli italiani, il Murat pubblicò il 30 marzo 1815 il suo Proclama di Rimini, in cui invitò gli italiani a rivendicare la libertà contro il pericolo della prossima dominazione austriaca. Il tentativo fallì miseramente: catturato, Murat fu fucilato il 13 ottobre dello stesso anno a Pizzo Calabro.
Introduzione
Se il Risorgimento rappresentò una tappa fondamentale per la costituzione dello Stato unitario italiano, fu la Rivoluzione Francese a dare avvio ad una guerra ideologica che venne poi esportata al di fuori dei confini nazionali, facendo sì che in Italia le idee rivoluzionarie si concretizzassero al fine di superare il binomio servo-padrone, sulla base dell’assunto fondamentale che ogni individuo è cittadino.
L’Unità scaturì da una serie di fatti d’arme drammatici, ma anche di vittorie, che consentirono la realizzazione del progetto unitario.
La storia militare si incardina nella struttura sociale, economica e politica di uno Stato, per cui è complementare alla storia politica.
Riprendendo la celebre asserzione del Generale prussiano Carl von Clausewitz “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, per cui “La guerra non è mai un atto isolato”, appare lapalissiano dover ricostruire previamente la situazione della primavera del 1815 in Italia.
Il 1815 in Italia è significativo perché fu punto nevralgico dal quale è possibile tracciare il citato parallelismo tra l’azione di Murat e quella di Napoleone. Mentre quest’ultimo sbarcò in Francia conquistando Parigi in vista della battaglia finale, in Italia l’esercito napoletano risalì la penisola e Murat incitò tutti gli italiani a combattere per la loro terra.
E lo fece con il famoso Proclama di Rimini, considerato uno dei primi atti dell’Unità d’Italia.
La reazione degli austriaci fu immediata (capeggiati dal Generale Bianchi): discesero la penisola e sconfissero Murat nella celebre battaglia di Tolentino dei primi di maggio (mentre nel frattempo Murat aveva insediato il suo quartier generale a Macerata).
Il malcontento generato dal Congresso di Vienna, in seguito al crollo dell’Impero, creò grande rammarico, soprattutto nelle forze liberali e progressiste, tanto da spingere Napoleone a lasciare l’Elba nel marzo 1815 e a sbarcare a Cannes, dove la popolazione lo accolse con grande entusiasmo. Le truppe inviate a contrastarlo passarono al suo fianco e Luigi XVIII si dette alla fuga abbandonando Parigi.
Napoleone cercò l’appoggio dei liberali e dei progressisti delusi dal congresso, un tempo suoi avversari, affidando a Benjamin Constant il compito di redigere una Costituzione liberale.
Alla notizia dello sbarco, Gioacchino Murat si schierò al fianco dell’Imperatore, dichiarando guerra all’Austria il 15 marzo 1815 e avanzando verso l’Italia settentrionale. Al pari del cognato, cercò di guadagnarsi il consenso dei liberali, mediante l’emanazione del Proclama di Rimini ove si affermava la volontà d’indipendenza e libertà dell’Italia, redatto dal giurista carrarino Pellegrino Rossi.
La VII Coalizione europea, inizialmente aggirata dalle forze di Napoleone, ebbe la meglio. Napoleone venne sconfitto a Waterloo dagli inglesi e dal prussiano Blücher e relegato nell’isola di Sant’Elena ove rimase sino alla morte, avvenuta il 5 maggio 1821.
Sorte analoga toccò al Murat, sconfitto dagli austriaci e costretto a firmare l’armistizio di Casalanza (20 maggio), con cui rinunziò al trono di Napoli che tornò ai Borbone. Murat verrà fucilato a Pizzo Calabro nell’ottobre successivo, a seguito di un tentativo di sbarco in Calabria[3].
A ben vedere, la sconfitta di Waterloo avvenuta il 18 giugno 1815, fu di poco precedente alla battaglia di Tolentino del 2-3 maggio 1815. Tuttavia dalla sconfitta germogliarono i primi moti contro la Restaurazione, proprio a Macerata nel 1817.
Negli anni immediatamente precedenti al 1815 si assistette al “Risveglio guerresco italiano”[4].
È a partire dal Trattato di Aquisgrana del 1748 che è possibile rilevare una forte volontà d’indipendenza dopo oltre due secoli di predominio straniero, anno in cui le uniche parti d’Italia assoggettate allo straniero erano l’attuale Lombardia sotto il giogo austriaco e in parte svizzero (eccetto Bergamo, Brescia e Crema), nonché il Trentino, l’Alto Adige, Gorizia e Trieste, questi ultimi sotto il dominio austriaco. Lo Stato sabaudo si era esteso nella Lombardia austriaca fino al Ticino e si estendeva oltre le Alpi nella Savoia, Francia e Spagna non avevano domini diretti sulla penisola, Venezia possedeva Dalmazia e Isole Jonie e lo Stato del Papa inglobava Avignone in terra francese. La Toscana aveva perso la sua autonomia e si trovava sotto dominio straniero, così anche Napoli e la Sicilia avevano il loro sovrano del ramo dei Borboni di Spagna, anche se questa dinastia perderà ben presto la caratterizzazione straniera.
Nel 1815, sintomatici lo scioglimento dell’esercito del Regno italico nell’estate del 1814 e lo sfacelo di quello napoletano nel maggio 1815 (dopo la battaglia di Tolentino), l’Italia passò dal predominio spagnolo a quello austriaco assistendo ad un rinnovato “frazionamento medievale della penisola”[5], allorquando l’orientamento generale induceva alla formazione di grosse unità statali.
Principali avvenimenti
Benché Napoleone fosse contrario alla unificazione, sotto il suo regime la penisola era divisa in tre blocchi, ad eccezione della Sardegna dei Savoia e della Sicilia dei Borboni (presidiata, insieme a Malta, dalla Gran Bretagna), l’Italia era frazionata in:
- province francesi (Piemonte, Liguria, Parma, Toscana, Umbria e Lazio e province illiriche, ossia Gorizia, Trieste, Fiume e la Dalmazia);
- Regno italico governato dal vicerè figliastro (Lombardia con Alessandria, Novara e la Valtellina, Veneto, Trentino, parte dell’Alto Adige, Modena, Legazioni e Marche);
- Regno di Napoli governato prima da Giuseppe Bonaparte, poi da Gioacchino Murat, cognato di Napoleone.
Era una suddivisione permeata dallo stesso sistema amministrativo e che avrebbe gettato le basi per l’unità politica successiva.
Come per il resto dell’Europa, anche per l’Italia il regime napoleonico portò un ammodernamento delle strutture amministrative, militari, giudiziarie e scolastiche sulla base del modello francese.
La creazione del Regno d’Italia aveva dato impulso al sentimento nazionale, ma era una unità e indipendenza di facciata. La coscrizione militare esasperava il ceto contadino, mentre la borghesia e la nobiltà liberale lombarde mostravano segni d’insofferenza all’autoritarismo opprimente del regime (si pensi alla diffusione delle idee liberali di scrittori come il Manzoni). Con il crollo dell’Impero francese prese piede la corrente degli Italici puri, che volevano la trasformazione del Regno Italico in uno stato nazionale e con governo costituzionale[6].
Nel Regno di Napoli il regime napoleonico portò all’abolizione della feudalità e alla affermazione di un nuovo ceto di possidenti borghesi, in sostituzione dei precedenti ceti aristocratico ed ecclesiastico. Ciò però gettò in una ancor più grave miseria i contadini meridionali. Le condizioni delle masse rurali peggiorarono con il passaggio delle proprietà terriere dagli aristocratici e dal clero alla nuova borghesia, dando origine al fenomeno del brigantaggio, specie in Calabria, contro il quale si scagliò il regno napoletano con numerose e cruente campagne militari.
Nel meridione attecchì altresì la Carboneria, probabilmente portata dai francesi e dilagante nel Regno di Napoli, che causò grossi problemi al governo di Gioacchino Murat, mettendone a repentaglio addirittura il regime.
Dai trattati del 1815 l’unico Stato militare della penisola che ne uscì potenziato fu il Piemonte, con l’annessione di Genova e della Liguria, ma con la perdita della Lombardia, divenendo il principale avversario naturale dell’Austria per esigenze, prima che di espansione, di difesa.
Dal 23 settembre 1814 al 9 giugno 1815 (interrotto per 100 giorni, durante i quali Napoleone fuggì dall’isola d’Elba per riconquistare il potere), stante l’esigenza di trovare un compromesso, si tenne il Congresso di Vienna, a cui parteciparono 213 delegazioni degli stati europei.
Le grandi potenze che sconfissero Napoleone a Lipsia nel 1813 (Austria, Inghilterra, Russia e Prussia) manifestarono l’intento di restaurare il vecchio sistema politico (c.d. Restaurazione), tuttavia le innovazioni napoleoniche della rivoluzione sul piano sociale, politico, ideologico e militare, che avevano modificato gli stessi confini degli Stati europei, erano irreversibili.
Venne disegnata una nuova carta dell’Europa basata su due principi fondamentalmente:
- Legittimità: introdotto da Talleyrand per tutelare l’integrità territoriale francese. Secondo questo principio la sovranità dei Borboni re di Francia era legittima in quanto divina, mentre usurpazione era il dominio napoleonico, per cui i sovrani che regnavano prima della rivoluzione erano legittimi;
- Equilibrio: di bilanciare la potenza tra gli Stati perché nessuno di essi affermasse la propria egemonia in Europa.
Il Congresso ebbe conseguenze positive e negative: sicuramente seguirono 30 anni di pace e fu condannata la tratta degli schiavi, tuttavia i confini degli Stati vennero stabiliti arbitrariamente e si assistette al ritorno delle monarchie assolute.
Dopo il Congresso di Vienna, ossia dopo il 1815, l’Italia venne suddivisa nei seguenti stati: Regno Lombardo-Veneto, sotto gli Asburgo d’Austria; Regno delle Due Sicilie, sotto i Borbone; Regno di Sardegna, sotto i Savoia (Piemonte, Savoia, Nizza, Sardegna e territorio della ex Repubblica di Genova); Stato pontificio; Granducato di Toscana, sotto la dinastia dei Lorena; Ducato di Modena e Reggio con successiva annessione del Ducato di Massa-Carrara, sotto la dinastia di Austria-Este; Ducato di Parma e Piacenza, dato in gestione a Maria Luisa d’Austria, moglie di Napoleone; Ducato di Lucca, sotto i Borbone di Parma.
Tutta l’Italia era sotto l’egemonia politico-militare austriaca in conseguenza delle parentele tra gli Asburgo e i troni di Toscana, Modena e Parma[7].
“Anziché ripristinare la situazione esistente prima della Rivoluzione, si procedette ad un largo rimaneggiamento della carta politica dell’Europa, onde arrivare ad un compromesso fra gli appetiti delle potenze…i popoli furono spartiti ancora una volta tra i sovrani, come greggi di pecore”[8].
Intento che, evidentemente, non ebbe lunga vita, poiché le istanze liberali e di indipendenza nazionale si affermeranno subito dopo la chiusura del Congresso.
Dal 1805 al 1814 gli italiani si distinsero nelle guerre napoleoniche (basti pensare ad Austerlitz nel 1805 e a Jena ed Auerstadt nel 1806, alla guerra di Spagna), sia nei reggimenti francesi delle nostre regioni annesse alla Francia, sia tra i ranghi del Regno italico, sia tra quelli dell’esercito napoletano di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. Era una forza complessiva di almeno 12 divisioni, sulla base del sistema francese della coscrizione di cui alla legge Jourdan del 1798[9].
La fedeltà a Napoleone rimase immutata anche nel 1813, anno del declino dell’Imperatore.
Non solo. Le qualità militari del popolo italico apparirono evidenti sia con riferimento alle forze regolari, sia a quelle forze popolari che avevano combattuto contro l’invasore francese e il giacobinismo per ragioni non tanto legate ad ideali nazionalistici, quanto piuttosto per la difesa della proprietà, già dalla fine del XVIII° secolo.
Tra il 1814 e il 1815 i due più importanti eserciti italiani sorti dal regime napoleonico, quello italico e quello napoletano, vennero sciolti.
L’esercito italico, forte di 45.000 uomini, dopo circa un ventennio, fu disciolto nel giugno 1814 lasciando l’Italia settentrionale (in particolare il Lombardo-Veneto) sguarnita di una propria forza armata, e riorganizzato sotto le insegne austriache (incluse uniformi e bandiere) in quattro reggimenti di fanteria, due battaglioni di cacciatori e un reggimento di cavalleria. La maggior parte degli ufficiali francesi e del regno italico vennero licenziati e i colonnelli furono tutti austriaci. Ci fu un tentativo di complotto (le truppe italiche avrebbero avuto il supporto popolare) per scongiurare lo scioglimento, nella speranza di un ausilio da parte del vicino Regno di Sardegna e del Regno di Napoli (Murat), tuttavia fallito, e che spinse il Generale Bellegarde, comandante delle forze austriache in Italia, ad accelerare la partenza dei reggimenti italiani oltralpe (novembre-dicembre dello stesso anno), ossia per sedi transalpine. L’ondata rivoluzionaria, per il momento, pareva sopita[10].
L’esercito napoletano[11] subì analoga sorte l’anno dopo. Forte di 70.000 uomini, si era scontrato col nemico austriaco che aveva appena vinto Napoleone. Gioacchino Murat confidava nell’insurrezione di tutta l’Italia e dei reduci dei ranghi italici e francesi, nonché dell’esercito napoleonico, sulla scorta di una presunta e pattizia neutralità inglese e sulla considerazione che la maggior parte delle forze austriache non era in Italia ma impegnata sul Reno e sul Rodano. La mancata concessione di una costituzione e la scaramucce contro francesi e italiani al fine di garantire il trono, stridevano col progetto di conduzione di una guerra nazionale e di libertà da parte di Murat.
Il 4 marzo 1815, poco dopo la partenza di Napoleone dall’Elba diretto a Parigi, e previo accordo col cognato di non dichiarare guerra nella speranza di un’alleanza che scongiurasse la guerra, Murat assicurò ad Austria e Inghilterra intenti d’amicizia, tuttavia subito appresso mosse col suo esercito verso il Po con l’obiettivo di dichiarare guerra all’Austria[12].
Il 15 marzo Murat partì da Napoli mentre le sue truppe invadevano lo Stato Pontificio e la Toscana raggiungendo Ancona il 19 e il 30 marzo, qualche mese prima della disfatta di Tolentino che segnerà la fine del Regno di Murat su Napoli, da Rimini lanciò il noto proclama (in realtà emesso il 12 maggio), invitando gli italiani a combattere “alfine di di preparare e disporre la costituzione e le leggi che reggano oggimai la felice Italia, l’indipendente Italia”.
Intento iniziale dei murattiani fu il raggiungimento del Po oltre il quale v’era il nemico austriaco che ad Occhiobello passò alla controffensiva costringendo Murat a ripiegare ordinamente verso Ancona il 29 aprile.
Dopo aver verificato la consistenza delle forze nemiche (circa 20 mila umoni) Murat ordinò il concentramento delle forze (circa 35 mila uomini) a Macerata con avanguardie a Tolentino, ipotizzando lo scontro finale nella Piana della Rancia.
Il 30 aprile i due eserciti si trovarono a Macerata e a Tolentino. Murat era a Macerata, mentre il 1 maggio il Maresciallo austriaco Bianchi si insediò sull’altura riportata come Madia nei pressi di Colmaggiore per sviluppare una manovra per linee interne, oltrepassare la piana e portarsi a Macerata.
La mattina del 2 maggio gli austriaci si diressero verso Macerata, ma i napoletani avanzarono liberando il Castello della Rancia e muovendo verso il Trebbio e Monte Milone sino quasi alle mure di cinta di Tolentino.
Nelle prime fasi degli scontri i murattiani riuscirono quindi a conquistare le alture di Cantagallo ed a far indietreggiare l’esercito Austriaco nella vallata del Chienti.
Il Castello della Rancia sarà di nuovo centro di altri cruenti scontri e dopo essere stato perduto e riconquistato dai murattiani diventò punto di partenza per un’ulteriore offensiva che portò i Napoletani ad occupare il Casone con aspri combattimenti alla baionetta e “puntare così i cannoni su Porta Marina”[13].
Gli austriaci si trovavano in una posizione privilegiata rispetto ai napoletani poiché a quote maggiori e in assetto difensivo.
I napoletani presero la decisione di avanzare lentamente in quadrati (carrè) e privi del supporto della cavalleria, circostanza che ebbe un effetto nefasto sull’esito della battaglia poiché i quadrati furono facile bersaglio per l’artiglieria nemica, obbligandoli a ripiegare verso Monte Milone. Fu l’unico episodio conclusosi a favore degli austriaci.
Nel momento cruciale della battaglia giunsero al Murat due dispacci che comunicavano uno l’ avvicinamento dell’Armata Austriaca nelle province meridionali.
I dispacci pervenuti al Murat lo costringettero a ritirarsi dalla battaglia onde scongiurare l’impossibilità di raggiungere Napoli rimanendo incastrato.
Tale circostanza determinò la vittoria degli austriaci che inseguirono le truppe murattiane in ritirata.
[1] La redazione del presente articolo trae origine dalle preziose indicazioni tratte da Massimo Coltrinari – Laura Coltrinari, La ricostruzione e lo studio di un avvenimento militare, Nuova Cultura, 2019.
[2] http://www.tolentino815.it/battaglia-di-tolentino/
[3] Giorgio Spini, Documenti e profilo storico, Vol. 2 – Età moderna, Edizioni Cremonese, 1974, pp. 293-295.
[4] Così Piero Pieri, Storia militare del Risorgimento, Guerre e insurrezioni, Roma CISM, Commissione Italiana di Storia Militare, 2010, p. 3.
[5] Piero Pieri, op. cit., p. 4.
[6] Per approfondimenti v. Giorgio Spini, op. cit., p. 291.
[7] Giorgio Spini, op. cit., p. 294-295.
[8] Giorgio Spini, op. cit., p. 293.
[9] Per approfondimenti v. Piero Pieri, op. cit., p. 7.
[10] Per approfondimenti Piero Pieri, op. cit., pp.19-21.
[11] Sulla consistenza organica v. Giancarlo Boeri, Pietro Crociani e Massimo Brandani, L’Esercito Borbonico dal 1789 al 1815, Edizione Ufficio Storico dello SME, 1997, pp. 37 ss.
[12] Per approfondimenti Piero Pieri, op. cit., pp.22-23.
[13] Sul punto v. anche http://www.tolentino815.it/battaglia-di-tolentino/