(In copertina foto dell’Altare della Patria Scattata dall’Autrice in data 22 giugno 2020)
Anima e cuore di soldato italiano spirito colto geniale lungimirante fin dai primi tentativi dell’aviazione intravide l’ineluttabile avvento delle armate del cielo e per la patria una ne invocòstrenuamente con gli scritti e con la parola sprezzando ogni personale interesse. Di ogni ideale umano e patriottico fervidamente pervaso primo in Italia e fuori il culto del milite ignoto propose. Doveva triste destino del genio chiudere la vita perché le sue idee fossero attuate e fosse proclamato maestro.
MCMXXX La vedova orgogliosa[1]
Ricorre il centenario del Milite Ignoto in un anno particolarmente critico per la Nazione, ancora prostrata dagli effetti della pandemia. Per evitare che, in tale contesto, la ricorrenza possa venire annoverata fra le celebrazioni storico – militari distanti dalle istanze contemporanee, risulterà opportuno risalire alle idee che condussero al culto del Milite Ignoto per indagarne l’attualità.
I contributi divulgativi intorno al centenario comparsi già dai primi mesi del 2021 si sono concentrati principalmente sugli elementi toccanti che seppero a suo tempo calamitare l’attenzione dell’intero Paese: la figura della madre di un soldato disperso, signora Maria Maddalena Bergamas, a cui fu affidato l’immane compito morale di indicare quale spoglia avesse dovuto rappresentare il valore ed il sacrificio di cui si rese capace il Soldato italiano, il viaggio che compì la Salma, onorata al suo passaggio dal saluto commosso dei cittadini presenti persino lungo l’intero percorso del treno e, non ultima, l’imponente e sentita cerimonia che decretò formalmente l’accoglienza del Soldato nel cuore della Patria. Sono ricordi che permangono vibranti nelle coscienze e le immagini del tempo raccontano efficacemente il clima di quei momenti dolorosi, rendendo possibile, anche a distanza di tanti anni, una partecipazione sul piano emotivo. Le dinamiche proprie del contesto attuale, assuefatto alla vista del dolore scomposto e assai poco incline alla riflessione, rischiano però di impoverire la valenza dell’avvenimento, archiviandolo il giorno seguente la celebrazione.
Per giungere al significato essenziale e perenne di questa ricorrenza, non si può prescindere dallo studio della personalità e delle idee di colui al quale si deve il ricordo del Sodato Italiano dall’identità illimitata.
L’ideatore dell’iniziativa fu il Maggior Generale Giulio Douhet (Caserta, 30 maggio 1869 – Roma, 15 febbraio 1930) che detenne il comando del Battaglione Aviatori. La sua fu una figura decisamente eccentrica per i canoni dell’epoca: l’esaltazione sincera ed intransigente del culto del dovere, unita ad una vis polemica di rara efficacia, ne fece una figura invisa a molti per la convinzione unilaterale con cui sostenne le proprie vedute. Il Generale Eugenio De Rossi, primo ad essere decorato della Medaglia al Valore (personalmente dal Re) della Grande Guerra italiana[2], nelle sue memorie sintetizzava in una massima il segreto alla base di ogni riuscita: «Sapere, saper fare, saper vivere»[3]. Si può affermare, senza possibilità di essere smentiti, che Douhet ignorasse (volutamente) l’arte del saper vivere.
Spinto da una naturale tendenza – che impropriamente venne classificata ipercritica – ho sempre interrogato ansiosamente i fatti che si andavano svolgendo intorno a me per trarne le necessarie conseguenze e, trattele, non ho mai avuto timore di enunciarle, fossi pur solo contro tutti.[4]
Alle sue vedute prospettiche (e profetiche), pressoché incommensurabili con la realtà circostante, si deve l’impulso fondante che portò allo sviluppo dell’aviazione militare dei primordi. Pur cosciente delle ripercussioni che l’assetto adottato avrebbe inevitabilmente avuto sugli sviluppi della sua carriera, si votò irreversibilmente a perorare una causa che agli occhi dei suoi contemporanei risultava incomprensibile: ciò che più connotò il suo agire fu infatti la lungimiranza con cui seppe intuire la reale portata dell’aviazione di guerra in un momento in cui i velivoli erano ancora considerati da gran parte della società civile (e del mondo militare) una bizzarra attività sportiva, prediletta da qualche originale[5].
Se lei andasse a dire ad uno qualunque dei capi di stato o degli eserciti in lotta: «Io ho un cannone capace di mandare un proiettile di 500 chilogrammi a 50 chilometri di distanza, occorre però una ferrovia per trasportarlo, piazzuole di cemento armato per piazzarlo, 400 uomini per servirlo, 6 ingegneri per curarlo, 6 geodeti per puntarlo, ed ogni colpo costa 500.000 lire», lei troverebbe tutti i capi di esercito o di stato folli del suo cannone, perché a tutti sorgerebbe il pensiero che con esso potrebbero raggiungere obbiettivi posti a 50 chilometri dalla fronte nemica. Ma se invece di dire: «Io ho un cannone», lei dicesse «Io ho un aeroplano che porta un proiettile di 500 chilogrammi non a 50, ma a 100, 200, 300 chilometri di distanza, che si trasporta da sé velocissimamente dove si vuole, che necessita di 4 uomini di equipaggio, che costa 100 mila lire in tutto» le brave persone dianzi nominate le sorriderebbero in faccia con aria compassionevole.[6]
La validità del suo pensiero, capace di precorrere i tempi, solo in seguito gli venne riconosciuta in patria (anche per i rapporti relativamente tranquilli instaurati con il Fascismo). A livello internazionale, il riconoscimento su larga scala della portata delle sue intuizioni fu postumo.
Il suo assetto ragionevolmente impaziente (in costante attrito con i tempi propri dell’iter gerarchico) si convertì nell’impulso che portò ad innovazioni particolarmente efficaci sul piano bellico[7]. Ancora oggi, però, la memoria di Douhet è rievocata in merito alle aspre critiche rivolte all’operato del Comando Supremo circa il governo degli uomini[8] soprattutto in relazione al terremoto politico che a tale denuncia seguì. Douhet pagò le conseguenze della condivisione politica del suo dissenso con la detenzione che gli venne fatta scontare con particolare puntiglio.
Proprio dalle sue osservazioni sulla lontananza siderale fra le condizioni di vita delle truppe e la forma mentis degli Ufficiali (non propensa a conferire la priorità al rapporto fra costi umani e risultati) trae origine il nucleo morale che condurrà al riconoscimento del valore del Milite Ignoto.
Il sacrificio della vita di tanti, offerto o subìto, colmò lo scarto profondo che separava una visione obsoleta della guerra dalle reali esigenze della stessa, imperniate sull’impiego di tecnologie ancora non compiutamente assimilate. Non fu il solo Douhet a dimostrare il coraggio necessario ad affrontare questo tema, irto di insidie sul piano delle ripercussioni sulla carriera. Persino il Generale Capello, concettualmente incline all’offensiva (che riteneva capace di vincere interiormente il concetto di ingenita inferiorità provata nei riguardi del nemico), ancora comandante il VI Corpo d’Armata, denunziò lo stato inumano in cui si trovavano i Soldati, chiedendo la sospensione dell’offensiva in programma, anche a costo del proprio siluramento[9].
La vista di tale tristo spettacolo, capace di toccare le coscienze di figure militari avvezze alle asperità della guerra, pone in luce l’incomprensione da parte di alcuni Alti Comandi delle peculiarità del Soldato italiano, presente in linea senza il supporto (ed il conforto) della preparazione psicologica e professionale del militare di carriera ma disponibile, se sostenuto adeguatamente, ad offrire la propria vita senza ripensamenti.
Non solo mancano di ogni preparazione remota, di carattere morale ai sacrifici che la guerra impone, ma anzi hanno ricevuto, attraverso una falsa propaganda facilona di pacifismo internazionale, una educazione antimilitarista. Eppure, ad onta di tutto questo, al primo appello della patria hanno lasciata la loro professione e sono venuti alla guerra. E alla guerra combattono il ‘nemico’ e muoiono per vincerlo, senza forse avere in molti casi una idea o almeno senza avere mai saputo prima che cosa è un nemico della patria.[10]
Il giovane Regno d’Italia era ancora lontano dal concetto di nazione armata che poggiava le proprie basi su un idem sentire: il linguaggio stesso dei soldati non costituiva elemento di coesione (il tasso di alfabetizzazione era bassissimo e la stessa comprensione dei comandi non era affatto scontata). Inoltre, il vorticoso mutamento dei Comandi non permetteva quella continuità capace di nutrirsi della conoscenza reciproca fra Superiori e Sottoposti. Il Soldato, nella mentalità del tempo, era considerato alla stregua di un elemento impersonale dello strumento, retaggio del concetto di ‘macchina’ cartesiana[11], e la disillusione che egli provava di fronte al sacrificio vano dei commilitoni veniva interpretata in maniera negativa, senza dar luogo alle opportune riflessioni finalizzate, se non altro, ad ottenere una partecipazione più attiva e convinta da parte delle truppe.
Alla vista di tale realtà, il conflitto interiore maturato in Douhet si condensò in intenzione di abbandonare il mondo militare. Le sue riflessioni appaiono impersonali e l’uso della prima persona singolare viene bandito:
L’una personalità non turba l’altra, che anzi il capo di Stato maggiore [della 5ª divisione], non avendo alcuna pretesa di fare come si dice carriera, né alcuna ambizione personale, agisce unicamente nell’interesse del servizio, indifferente nel modo più assoluto ai propri personali interessi, che non possono venire turbati, ed il mio io interno, soddisfatto dal dovere compiuto, può facilmente astrarsi e considerare dall’alto e lucidamente le cose che vanno svolgendosi intorno a lui. E le può considerare con indifferenza, non perché esse non lo turbino profondamente, perché talvolta il suo cuore piange lagrime di sangue nel constatare come questa povera patria, di cui oggi ognuno sventola il bandierone, sia così bistrattata, ma perché si trova nella assoluta impossibilità di influire in un modo qualsiasi; e deve quindi fare di necessità virtù.[12]
Ed ai poveri contadini e montanari tratti dai loro casolari io dovrei chiedere il sacrificio della vita in nome di una più grande Italia, sapendo quello che so, e se occorre, farne fucilare qualcuno, se non addirittura far decimare qualche reparto, qualora un attimo di titubanza invada le loro anime ignare, le loro coscienze infantili, le loro menti oscure. Sembrerebbe una situazione da pochade, se non si trattasse di una tragedia.[13]
Da tale inconspevolezza nasce l’essenza del Milite Ignoto: privo delle conoscenze necessarie, magari ancora attaccato al ricordo delle sue terre lontane, il Soldato percepisce di costituire parte di un disegno cosmico ineluttabile dalle dimensioni a lui sconosciute e sacrifica ad esso la propria vita, inconsapevolmente partecipe della grave dinamica storica.
Ed è proprio per questo che ancora tale Sacrificio conserva intatto tutto il suo valore, capace di rappresentare ogni Italiano che, a fronte delle difficoltà, anche obtorto collo, fa ‘del proprio meglio’, sospinto dall’inestirpabile idea di un futuro migliore. La valenza del Milite Ignoto raggiunge così ogni anfratto della società civile.
I Comandanti avvezzi a vivere a stretto contatto con le truppe non risparmiarono le parole di lode nei riguardi dei propri soldati (è il caso del Generale Caviglia, di cui è nota la sobrietà) intuendone le potenzialità e saggiandone il coraggio. La visione della centralità della figura del fante, dopo la prova di valore che si palesò nella battaglia d’arresto sul Piave, iniziò poi a maturare nella coscienza collettiva. Coloro che riducevano il comando militare a pratiche burocratiche con risvolti di insensata spietatezza, dopo il culmine di criticità costituito dalla XII Battaglia, dovettero ricredersi e constatare che lo strumento risponde in ragione delle motivazioni che il comando è in grado di instillare.
Al termine del conflitto, dopo i giorni della vittoria che inebriarono il Paese, gli equilibri interni (anche all’Esercito) erano ben lontani dall’essere raggiunti. Douhet, formalmente pacificato[14] dalla crescente importanza conquistata dall’Arma Aerea, si era ritirato in disparte rassegnando alla vigilia della Battaglia del Solstizio le proprie dimissioni (accettate immediatamente dal Commissario generale Chiesa)[15], senza per questo minimamente rinunciare a sostenere le propie cause. In un contesto dove si poteva riscontrare la tendenza ad attribuire la vittoria ai propri meriti, il diaframma fra lui e le alte gerarchie non si era affatto assottigliato. Il suo distacco da quel tipo di ambiente aveva origini in tempi precedenti:
Caro amico, di una cosa sola mi pento nella mia vita, e me ne pento amaramente, e cioè di essere un galantuomo e di avere avuto fede che gli altri mi rassomigliassero. Se, quando fui in aviazione, invece di pensare all’aviazione e di sognare di forgiare un’arma forte per il mio paese, io avessi lasciato correre le cose per la loro china, avessi accarezzato industriali e fornitori, avessi fatto un poco di politica sporca, non avrei certamente avuto la seccatura delle inchieste, sarei rimasto amico di tutti, sarei a capo della nostra aviazione, ed avrei arrotondato il mio peculio e la cerchia dei miei amici. Ed avrei fatto anche l’interesse del paese perché almeno sarei stato meno cretino degli altri ed avrei agito più razionalmente. Ma, che vuole, mio padre mi ha dato un’educazione piena di pregiudizi; per conto mio le giuro che, se avessi un figlio, ne farei un farabutto tale che non mancherebbe certo di fare una splendida carriera.[16]
La possibilità di una cesura fra un prima e un dopo la conclusione della guerra non sfiorò neppure lontanamente il suo pensiero, inteso ad allontanare con forza il concetto velato di ‘amnistia’, capace di livellare le responsabilità e di impedire una riflessione adeguata alla portata dei fatti.
L’Italia ha il diritto di conoscere esattamente lo svolgimento dell’immane tragedia. Non vi è più alcuna scusa. Il nemico è vinto. La pace è conclusa o sta per concludersi. L’Italia ha il diritto di sapere in che modo fu speso il suo sangue e il suo denaro […]. La vittoria non sana tutto. Noi vogliamo sapere se per avventura non è stato pagato cento ciò che poteva costare dieci o uno. Noi vogliamo ridare il giusto valore agli uomini e alle cose. Perciò vogliamo la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità sulla nostra guerra. Se tale verità porterà a galla colpe ed errori, se abbatterà falsi idoli o spezzerà piedistalli di pietra mal connessi, poco importa. Non per questo la guerra nostra rifulgerà di minor splendore. Anzi. Anzi di maggior splendore rifulgerà la gloria del nostro grande popolo perché verrà dimostrato che seppe riportare una doppia vittoria: contro il nemico e contro l’incapacità e le colpe di chi lo conduceva.[17]
Ad alta voce, sulle colonne de «Il Dovere» da lui fondato agli inizi del 1919, Douhet proseguiva il discorso già intrapreso, rivolgendosi ad una platea ampia, attraversata dalle tensioni che interessarono gli ex combattenti nel dopo guerra. Non esitò da queste pagine a ridimensionare la figura del Generale Giardino, spostando il focus sugli Eroi i cui nomi sarebbero stati destinati a rimanere sconosciuti:
Al Grappa non ci furono concezioni strategiche né alti voli di superba tattica. Ci furono dei saldi petti di Italiani che costituirono l’incrollabile barriera. Furono gli umili e gli ignoti che fermarono e respinsero il nemico. E l’Italia questi umili ricorda e venera, e non ama che vengano sfruttati che già lo furono abbastanza.
Il paese è stanco di tutte le glorie fittizie che vede sorgere attorno come funghi. Esso ha vinto, non ostante.[18]
Il pensiero di trasportare solennemente a Roma la salma di un anonimo soldato per darne sepoltura al Pantheon venne espresso da Douhet nell’articolo Al suo soldato, l’Italia, sempre su «Il Dovere»[19]. Le argomentazioni sottese alla proposta non furono nascoste da alcuna forma di eufemismo:
Il vero vincitore della guerra fu il soldato, figlio del popolo italiano. Egli seppe vincere non solo il nemico, ma sopperire a tutte le manchevolezze dei suoi condottieri politici e militari. Egli fu il solo che si dimostrò veramente grande e la cui grandezza rimase indiscutibile, sempre.[20]
Nonostante si possa interpretare l’iniziativa di celebrare il Milite Ignoto come una rivincita efficacissima da parte di Douhet su quella gerarchia indifferente alle sorti degli uomini e sorda di fronte alle sue intuizioni, la lettura dei suoi Diari e l’integrità con cui mantenne fede ai propri principi permettono di propendere verso una sincerità d’intenti, seppur non del tutto pacifica.
Il contesto, per una volta, gli si dimostrò favorevole e la proposta, capace di aggregare intorno a sé un numero notevole di sostenitori, confluì in un iter formale. Al Soldato, Figlio d’Italia, non fu data però sepoltura al Pantheon accanto al Padre della Patria Vittorio Emanuele II: il sacello venne adagiato sull’Altare monumentale la cui imponenza lo avrebbe sovrastato, reificandone il profilo morale in elemento architettonico. Questa variazione, sostanziale e simbolica al contempo, amareggiò il Proponente che esplicitò il suo dissenso attraverso una lettera idealmente scritta dallo stesso Soldato in cui denunziava in tale cambiamento l’ultimo tentativo di appropriarsi del suo sacrificio: «le pietre che ricoprono le tombe più che a riparare i morti servono da gradini ai vivi, e quella che ricopirà la mia è troppo un bel gradino»[21].
Nemmeno ad un anno di distanza dalla solenne celebrazione del 4 novembre 1921, ebbe luogo la Marcia su Roma e i ricordi della Grande Guerra, alterati nella loro essenza (il caso degli Arditi risulta esemplare), vennero assimilati dal Fascismo il quale non esitò a trasformarli in alimento per un mito artificiale dalle cui spire l’Italia si sarebbe liberata solo con grandi sofferenze.
Il tempo presente non è tempo di miti, bensì di verità storica, capace di preservare intatto il valore dell’esperienza umana.
Maria Luisa Suprani Querzoli
[1] L’epitaffio compare sulla tomba di Giulio Douhet (Roma, Cimitero del Verano).
[2] Cfr. DE ROSSI E., La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 285.
[3] Ivi, p. 52.
[4] DOUHET G., La difesa nazionale, Torino: Anonima libraria italiana, 1923, p. 10.
[5] «Qui a Reims volare è la cosa più normale di questo mondo ed ho avuto per questo un senso di sollievo poiché in Italia si considerano gli aviatori ancora come dei pazzi o almeno dei temerari» (lettera di Francesco Baracca al padre, Reims, 5 maggio 1912, Museo del Risorgimento di Milano, raccolte storiche: cartella n. 36, n. reg. gen. 31941, n. reg. AG 1994).
[6] Brano tratto dalla lettera di Douhet all’on. De Felice datata 5 agosto 1916 (DOUHET G., Diario critico di guerra 1915 – 1916, II vol. Torino: Paravia, 1921, pp. 348 – 349).
[7] Il riferimento è all’impulso dato (prima che giungesse l’autorizzazione) alla costruzione del Trimotore Caproni Ca. 31.
[8] Cfr. LEHMANN E., La guerra dell’aria – Giulio Douhet stratega impolitico, Bologna: Il Mulino, 2013, p. 74.
[9] Cfr. CAPELLO L., Note di Guerra, vol. I, Milano: Fratelli Treves, 1920, pp. 188 – 191.
[10] GEMELLI A., Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare, Milano: Treves, 1917, p. 27.
[11] Le indagini di Agostino Gemelli risultano esplicative a riguardo, indagando scientificamente le ripercussioni dell’ambiente bellico sulla coscienza individuale.
[12] DOUHET G., Diario critico di guerra (1915 – 1916), I vol. Torino: Paravia, 1921, p. 149.
[13] Brano tratto dalla lettera di Douhet all’on. De Felice del 5 agosto 1916 in DOUHET G., Diario critico di guerra (1915 – 1916), vol. II, cit., p. 349.
[14]Una volta istituito il Comando superiore di aeronautica, l’allora direttore centrale di aviazione Douhet «fu chiamato a definire un programma dai contenuti molto più tradizionali di concerto con il Maggior Generale Luigi Bongiovanni […]» (DI MARTINO B., L’aviazione italiana nella grande guerra, Milano: Mursia, 2011, p. 291).
[15] Cfr. LEHMANN E., La guerra dell’aria, cit., p. 102.
[16] DOUHET. G., Diario critico di guerra (1915 – 1916), vol. II, cit., p. 346.
[17] DOUHET. G., La commissione d’inchiesta su Caporetto, «Il Dovere», 27 aprile 1919, p. 2.
[18] DOUHET G., Il Generale Giardino, «Il Dovere», 12 – 13 maggio 1920, p. 1.
[19] DOUHET G., Al suo soldato, l’Italia, «Il Dovere», 15 – 16 luglio 1920, p. 1.
[20] Ibidem.
[21] DOUHET G ., Per le onoranze al soldato ignoto. Una lettera del Soldato Ignoto, «Il Dovere», 4 agosto 1921, p. 2.