Da “Il Nastro Azzurro” n° 6-2013
Il 25 giugno del 1941 era un mercoledì: e dal sabato prima gli uomini della 19^ Squadriglia di base sul campo di Derna non avevano avuto un momento di tregua. In quei giorni gli Hurricane avevano abbattuto tre dei dieci bombardieri detta squadriglia. Atri tre, crivellati da centinaia di colpi erano rientrati a stento e non erano più efficienti. Ne restavano quattro, e per le richieste del Quartier Generate avrebbero dovuto essere quaranta. Nella tenda Comando il telefono squillava continuamente. I piloti e gli equipaggi ricevevano gli ordini, le eliche ricominciavano a girare in un turbine di sabbia. Poi la breve corsa sulla pista, il rombo dei motori al massimo, il decollo: quando tornavano gli uomini scendevano lentamente dagli apparecchi sfiniti dal sonno e dalla tensione. Andavano verso le loro tende con la speranza di dormire qualche ora, se qualche amico aveva avuto tempo di tirar fuori anche la loro branda e di bruciare le cimici con la benzina, ma non ci riuscivano: un nuovo ordine di partenza li rimandava troppo presto in voto. E se non arrivava l’ordine, arrivavano i bombardieri inglesi come furie, attaccando ogni cosa.
Quel mercoledì, sembrava cominciare una giornata tranquilla. I quattro bombardieri erano rientrati verso le sette dopo un attacco a dei mercantili alla fonda davanti a Tobruk. Dalle sette a mezzogiorno, tutto silenzio: cinque ore di un sonno atteso e profondo. A mezzogiorno, allarme: tre Hurricane in picchiata sul campo, un passaggio e via. Nessun danno, a parte quell’anticipo di Sveglia. “È andata anche troppo bene” disse il tenente pilota Luigi Gentile guardando l’orologio. ” A te va sempre bene” commentò il collega, sdraiato accanto a lui. ” Tu hai la mamma che funziona, io sono orfano …”. Risero. La storia della mamma del tenente Gentile era proverbiale, alla diciannovesima squadriglia. Gentile veniva da San Michele, provincia di Bari. Aveva la passione del volo fin da bambino ma il padre non ne voleva sapere. Appena finito il liceo, lo iscrisse all’università di Napoli, facoltà di medicina. Ma, il ragazzo non resisteva e, due mesi dopo si arruolò in Aeronautica. A casa lo rividero dopo un anno, in divisa da allievo ufficiate. Era il maggio del 1940, si sentiva aria di guerra: ma la madre era tranquilla. Diceva che suo figlio sarebbe ritornato. “La tua mamma sa che non ti accadrà nulla di male” gli aveva sussurrato abbracciandolo alla stazione. E da allora gli ripeteva quelle parole in ogni lettera, con quella certezza che misteriosamente sentiva dentro di sé nelle lunghe ore che passava in chiesa a pregare la Madonna: il giovane pilota ci credeva con una fiducia senza dubbi e senza limiti.
Fu al fronte dal primo giorno, con una squadriglia da caccia: e poche volte si era visto, tra quella gente senza paura, un pilota più temerario di lui. “Lui attacca sempre, lui se li va a cercare, i guai” dicevano i suoi compagni con ammirazione ed anche con un po’ di invidia. “Un giorno o l’altro, se non sta attento…”. “A me non può succedere niente, lo ha detto la mamma”, ripeteva lui. Dalla caccia era passato ai bombardieri in una base della Sardegna prima ed in Africa settentrionale poi: ogni giorno più matto, più generoso, più imprevedibile. Una volta venne a sapere che tre caccia inglesi, dopo aver abbattuto un caccia italiano, avevano sparato sul pilota, uccidendolo mentre stava scendendo col paracadute. Trovarono Gentile che piangeva netta sua tenda e andarono a dire al comandante che era esaurito. “Ce l’avete voi, l’esaurimento. Io sto benissimo e adesso voglio volare”. Il comandante lo accontentò subito: partì a pieno carico, senza scorta. Fu un bombardamento a bassa quota su Alessandria, un lavoro perfetto. Tornando, sul mare, fu attaccato da due caccia-bombardieri inglesi. Una lotta furibonda: uno dei due inglesi abbattuto, l’altro, duramente colpito, si allontana. Gentile ha un motore in avaria, servocomandi bloccati, un serbatoio che perde benzina. Eppure scende di quota, fa un largo giro sui naufraghi che in acqua si aspettano il colpo di grazia, e invece, a voto radente, lascia cadere il battellino di salvataggio e poi punta verso la costa. Due minuti più tardi tre Hurricane attaccano il bombardiere italiano e Gentile riesce ancora a disimpegnarsi: atterrerà senza carrello, con un motore in fiamme e quelli addosso fin sopra la pista: è illeso. Da allora, fra i membri degli equipaggi del Reparto c’è una guerra silenziosa per essere assegnati al 19/7, il bombardiere del tenente Gentile, dove si lavora e si rischia di più, perché il capo-equipaggio appena finisce una missione va dal comandante a chiedere di partire di nuovo: “con tante bombe che ci sono qui…” dice …
Ma da quel sabato a quel mercoledì, nemmeno il tenente Gentile ha potuto chiedere di più. Uomini e macchine sono stati in volo di giorno e di notte sempre. Poi quelle cinque ore di pace, inverosimile, meravigliosa. E … la notizia: un Cant-Z.1007 è stato abbattuto a circa 50 km dalla costa. Il pilota è riuscito a fare un ammaraggio di fortuna e un caccia detta scorta ha visto dei naufraghi fra i rottami. “È facile che ci siano dei feriti, sai che significa”, gli ha detto il comandante. Quando c’è sangue in mare arrivano i pescecani; lo sentono anche da lontano, infallibilmente, ed è la fine per tutti, feriti e no. Ogni volta che è stato possibile, gli apparecchi di soccorso sono partiti con dei quarti di cammello appena abbattuto per gettati in mare e attirare gli squali lontano dai naufraghi: ma oggi non ci sono cammelli. Sono le 13.20. Il bombardiere è già in linea di partenza. Il motorista Giacomo Cordò alza il pollice. Angelo Viola, l’aviere radiotelegrafista, sta trafficando con l’antenna delle onde medie. Le onde medie sono le più importanti, è su questa frequenza che passano i segnati di S0S. ” Non va?”, chiede il secondo pilota, sergente Anzeloni, volgendosi verso di lui. “Può darsi che vada, può darsi che no” risponde Viota. ” Ma tanto, abbiamo la mamma del tenente, se c’è per lui, c’è per tutti, no?’ ” Sarà”, dice il primo aviere Eugenio Fornera andando a sistemarsi alla mitragliatrice di poppa. Fornera è nuovo, questa è la sua prima missione ed ha i nervi a pezzi: “E il tenente?” riprende irrequieto: “non viene?”. Gentile sta salendo a bordo in quel momento con un ufficiate osservatore dell’esercito, il tenente Sante Patussi. Gentile è un pugliese tutto fuoco, Patussi è un veneto, placido, sereno: sembrano l’opposto l’uno dell’altro, ma quando si tratta di salvare tua vita di un uomo, chiunque egli sia, sono identici nell’ardimento e nella pazienza.
Le 13.35. Un aviere toglie i tacchi dalle ruote, il bombardiere comincia il rullaggio, ma subito si sente un colpo secco, e il grosso apparecchio sbanda di colpo: una pietra è incastrata in una delle ruote del carrello. Il sibilo delle eliche si smorza. Gli avieri accorrono, cercano di liberare la ruota, non ci riescono. Si apre il portello, scende il pilota imprecando: dietro di lui quelli dell’equipaggio, preoccupati. Uno strano incidente, sembra un cattivo augurio. Gli aviatori sono gente superstiziosa, ci credono a queste cose. Si perde un quarto d’ora a far saltare la pietra con un palanchino. Poi il pilota risate, il bombardiere rutta, entra in pista, i motori al massimo, corre, “No!” urla un pilota sul campo stringendo i pugni. Il bombardiere ha già mangiato quasi tutta la pista ed ha ancora la coda bassa, non si alza ed ormai non può più fermarsi. II rombo aumenta improvvisamente di tono; Gentile che ha dato il “più cento”, il massimo di emergenza: il carrello si stacca sull’ultimo metro di pista. È fatta. “Chissà che ha avuto” dicono quelli del campo. Guardano in atto, vedono il19/7 che fa quota, dirige a Nord per 60 gradi da Ras Azzaz. Rientrano nelle tende: nessuno vuole dirlo ma tutti hanno lo stesso oscuro presentimento. Anche a bordo del 19/7 non c’è voglia di parlare. Viola, il marconista scopre che l’antenna dette onde medie è proprio rotta: decisamente è una giornata nera. Eppure tutto sembra così normate: il cielo è sereno, senza una nuvola, e il mare, immenso sotto te ali, è tranquillo. Il tenente Patussi, in coda, scruta attentamente la distesa. Gentile scendi di quota riducendo la velocità, pendola con metodo, come piace al suo amico. Dieci chilometri quadrati da battere subito, poi si allargherà il raggio. Docilmente, il grosso S79 fa il suo lavoro di spola, avanti ed indietro, disegnando una croce d’ombra sull’azzurro. La visibilità è perfetta. Fornera, che non ha ancora lasciato la mitraglia, prova a puntare su un banco di delfini che giocano saltando sull’acqua. “Ancora niente?’, domanda Gentile che ha passato i comandi al secondo. “Niente”, risponde Patussi continuando a guardare giù. Il CANT Z è caduto certamente qui, ma non si vede neppure un rottame. Dei naufraghi, nessuna traccia. “Secondo te sono andati?” Patussi resta un poco in silenzio. “Scendi ancora un po’, non è detto”. ” Ho tutta la benzina che vuoi e nessuno ci disturba”, dice Gentile, ritornando al suo posto.
“La caccia! La caccia”, grida il motorista in quel momento. Sono cinque Hurricane, vengono di coda. Gentile dà il massimo ai motori e picchia al pelo dell’acqua, virando verso Nord. Cinque caccia sono troppi per un bombardiere senza scorta. Bisogna andare al largo più che si può, fino a che questi faranno i conti con la benzina e dovranno mollare. Filando bassi, intanto, gli si leva la possibilità di attaccare dal di sotto ed è già qualcosa. Ma i cinque Hurricane si dispongono velocissimi, due sui fianchi tre in coda, in formazione al bombardiere: è possibile persino che tentino di catturare l’apparecchio italiano, costringendo il pilota a discendere su uno dei loro campi. Attanagliato alla sua mitraglia, Fornera non ne può più. I due caccia laterali votano nell’unico punto morto dell’arma: gli inglesi conoscono gli apparecchi italiani. Il capopattuglia si avvicina, probabilmente vorrebbe proprio catturare un bombardiere italiano: Fornera apre il fuoco, mentre lo fa anche il tenente Patussi con la seconda mitraglia. Gli inglesi si portano fuori tiro e poi in coda al 19/7. Sono quaranta mitraglie che battono un solo bersaglio, quaranta mitraglie contro due, e subito una dette due tace: Fornera rotola giù urlando, una raffica gli ha sfracellato una gamba ed il sangue si mescola alla benzina che sgorga da uno dei serbatoi. Il marconista corre al posto di Fornera, la mitraglia ricomincia a sparare nella giostra infernale degli Hurricane: si rialzano, ritornano all’attacco, adesso è Patussi che cade, ferito a morte mentre centinala di colpi fracassano la cabina dei piloti, abbattono insieme Anzeloni e Cordò. Rabbiosamente, il marconista sta cercando di ricaricare la sua mitraglia, sembra che le mani non vogliano ubbidirlo: solo adesso si accorge che ha cinque pallottole in corpo. E’ fradicio di sangue, a tratti non vede più nulla. Eppure con uno sforzo supremo riesce a ricaricare, e spara ancora puntando come può, mentre il bombardiere sussulta, scartando come un cavallo impazzito. Una raffica, un’altra, poi una vampata gialla, il capopattuglia va giù in candela ma gli atri ritornano, più aggressivi di prima. Tutto si schianta. Il marconista è colpito ancora, cerca di trascinarsi alla stazione radio ma non ne ha il tempo: una sbandata più forte delle altre lo fa cadere, uomini e cose sono scaraventati da una terribile spinta in avanti, si ammucchiano in un solo sfacelo. Quando riesce a riaversi, il marconista si accorge che il bombardiere sta galleggiando. Nel silenzio si sente lo sciabordare quieto delle piccole onde sulla fusoliera e l’acqua che entra da mille fessure, gorgogliando adagio.
Come abbia fatto il pilota Gentile a fermare quella carcassa senza mandarla in mille pezzi è incomprensibile. “Signor tenente…”. Il mucchio di corpi si scuote appena, nella penombra. “Signor tenente, aiuto…”. La voce, piena di terrore, è di Cordò. Nessuno risponde. Fornera ripete: “la mia gamba, la mia gamba…”; Anzeloni sta tentando di districarsi fra Viola e Patussi. In quel momento, con un colpo secco si apre il portello e nella luce improvvisa si vede il tenente Gentile. “Presto, presto”, dice affannato, “fra poco si affonda” . ” Il… Il battellino, signor tenente …”, implora Anzeloni. “E’ già in acqua, svelti, venite fuori”. Gentile è uscito da quell’inferno completamente illeso ed ha cercato di raggiungere il battellino, ma la frana dei rottami e dei corpi gli ha sbarrato la strada. Allora ha sbloccato il tetto della cabina, si è gettato in mare, raggiungendo il portello di poppa: ha messo in mare il battellino, l’ha attraccato al timone, è rientrato a bordo per portare in salvo la sua gente.
Un’impresa che sembrava impossibile. Il tenente Patussi è in fin di vita. Ha la forza di sorridergli, gli dice: ” Bravo Gigi, lo sapevo che ce l’avresti fatta …”, ed intanto si preme i pugni sul ventre, vuol far credere di essere soltanto ferito ad una gamba mentre la raffica lo ha letteratamente squartato. Viola resiste con ammirevole coraggio ma è ferito in tutto il corpo, ed è gravissimo. Fornera si tiene la gamba stroncata, perde tanto sangue che non puo’ avere più di un’ora di vita. Anzeloni, il sergente di ferro, dice che non ha niente ma sta rantolando. E Cordò, Il più giovane di tutti, si guarda le mani imbrattate di sangue e piange, dice: “Muoio, muoio, signor tenente, muoio…”. Per questi cinque uomini, ancora vivi soltanto perché possano soffrire ancora di più, c’è una sola speranza: quel pilota di ventun anni che febbrilmente sta cercando di trascinarti verso l’uscita, mentre la carcassa del bombardiere affonda. Viola, puntandosi sui gomiti, lo aiuta come può. Guadagna il portello, si lascia scivolare lungo la fusoliera, raggiunge il battellino. Poi è la volta di Cordò, il ragazzo. Con uno sforzo sovrumano, Anzeloni punta la testa contro Fornera, lo spinge verso Gentile che aspetta. Crollano tutti e due in acqua, tutto sembra perduto, ed intanto Viola si accorge che il battellino perde aria, e la bombola di carica non funziona più. “Signor tenente!”, grida. Gentile è a pochi metri, ma non può lasciare Fornera, ormai svenuto per il sangue che ha perso e per l’atroce dolore. Ansimando, a strappi, trascina quel povero corpo, lo affida alle mani che si protendono dal battellino, si arrampica sull’apparecchio. Dovrebbe esserci un soffietto a mano. Chissà dov’è in questo disastro. Lo trova, si tuffa in acqua, ritorna al battellino e comincia a pompare. Gli occhi sbarrati dei naufraghi sono fissi sul bordo che, poco a poco si rigonfia, è la salvezza. Gentile nuota ancora verso il portello, tira giù il sergente, lo sorregge. “Faccio da solo, mi lasci” “Ci stai a galla?’” Il sergente dice di sì, il pilota ritorna al portello. C’è Patussi ancora, l’ultimo del mucchio. “Proprio tu per ultimo”, impreca Gentile. “Lo so che tu mi avresti salvato per primo”, bisbiglia l’ufficiale. Cerca di sollevarsi, gli crolla tra te braccia. Dalla giacca aperta il pilota vede quella ferita orrenda. Adesso gli sembra di non avere più forze, è soltanto un ragazzo spaventato che vomita accanto ad un moribondo, mentre la coda del bombardiere comincia a sollevarsi, ancora pochi istanti e finiranno nel gorgo, tutti e due. Stringendo i denti, il pilota trascina il corpo dell’amico verso l’uscita, lo fa cadere nell’acqua, si tuffa a riprenderlo: ora pesa un poco di meno, Viola, con la sola mano valida che ha, cerca di remare verso di loro, c’è ancora un metro che sembra non finire mai più… “Ecco, sono arrivati”. Gentile si lega la corda del battellino ad un piede, nuota con tutte le sue forze tirandosi dietro a strattoni la sua gente: in quell’istante il bombardiere si impenna, scompare ingoiato da un’ondata gigantesca. Adesso i naufraghi sono soli, nell’immensità del mare. Non hanno né bussola, né viveri, né acqua. La loro vita è nelle mani di un uomo, quel pilota che ormai allo stremo delle energie sta lottando per spingere a bordo i due feriti più gravi. Occorrono due ore di sforzi, per riuscirci, e solo allora, anche lui si decide a satire, rannicchiandosi per lasciare più posto ai suoi compagni. Non è possibile remare, non c’è spazio. E anche se ci fosse, non si saprebbe dove dirigere. Passano lunghe ore, in silenzio. Non si vede che mare. Ora le ferite bruciano come il fuoco e gli uomini cominciano a sentire i morsi atroci della sete. Fornera sta delirando, all’improvviso cerca di buttarsi fuori per bere, Gentile lo trattiene a stento.
Scende la sera: la gelida notte africana. I naufraghi battono i denti per il freddo e per la febbre. Il pilota sta fissando le stelle. Ha lasciato andare la corda del battellino e cerca di capire con questo sistema la direzione della corrente. “Coraggio, ragazzi”, dice “la corrente ci porta verso terra. Non possiamo essere tanto lontani…” nessuno gli risponde. Nel buio si sente uno che piange… All’alba il tenente Patussi è in agonia, sul fondo del battellino pieno di sangue. Viola e Fornera hanno perduto i sensi. Il sergente e il motorista si guardano intorno con gli occhi sbarrati, hanno visto muovere qualche cosa a pelo dell’acqua: “I pescecani!” “Eccolo!”‘, grida il sergente. Una grossa forma scura passa veloce accanto al battello facendolo traballare. Ma è soltanto una tartaruga. “La corda! La corda!”, dice Gentile, “gli passiamo la corda al collo e ci facciamo portare a riva” Ride, ma nessuno ride con lui. In quel momento, Patussi gli stringe la mano. “Per me è finita, Gigi”, sussurra a fatica, “… ma tu li salverai, non mollare, Gigi …”. Gli fa segno di cercare nella tasca, Gentile fruga, trova un fazzoletto di seta ricamato. “Tienilo in mio ricordo”, gli dice Patussi. “Non è vero, tu te la caverai, tieni qui …” Gentile non sa che altro fare, si toglie di tasca la sua meta, gliela porta alla bocca ed il moribondo ne mangia un boccone, lo guarda con infinita gratitudine, poi reclina il capo. Dieci minuti più tardi, il polso di Patussi non batte più.
Il sole si sta alzando, ritorna la tortura della sete e delle piaghe tumefatte. Muto, il pilota compone in croce le mani del suo amico e gli chiede la forza di fare l’orribile cosa che adesso ha il dovere di fare: liberarsi di lui. Un’ultima preghiera, un tonfo nell’acqua. Con gli occhi pieni di lacrime, il pilota prende i remi, ora c’è spazio. Rema, non sa verso dove, ma è sicuro che arriverà. Rema fino a spaccarsi la schiena, senza sentire più né fame né sete, mentre attorno a lui non c’è che orrore e abbandono, sangue e delirio. Il battello del 19/7 arrivò in vista detta costa dopo ventidue ore di quell’indescrivibile martirio. Un uomo, quell’uomo solo, trascinò sulla sabbia i corpi ormai inanimati dei suoi compagni e barcollando continuò ad andare senza fermarsi, per chilometri e chilometri, senza sapere dove, sapendo solo perché. Qualcuno gli aveva detto: “non mollare, li salverai’”.
Un passo dopo l’altro, ancora, ancora. Fino a che vide la sentinella di un avamposto tedesco, riuscì a dire che andassero là dove c’erano i suoi compagni, che andassero subito. Li vide correre verso una camionetta, partire. Poi non vide più niente, riprese conoscenza dopo due giorni nell’ospedale tedesco. Gli dissero che erano tutti fuori pericolo, anche Viola, anche Fornera. Finalmente poteva dormire: sognò sua madre.
Giuseppe Grazzini (Epoca – 1961)
Medaglia d’Oro al Valor Militare
“Giovanissimo ufficiale pilota entusiasta e capace, dava più volte prova di coraggio e sprezzo del pericolo in numerose e rischiose azioni di guerra. Durante una missione di ricerca di camerati dispersi in mare, attaccato da soverchiante caccia avversaria, svolgeva le manovre per la difesa e reazione con sangue freddo e calma esemplari. Con tutti i membri dell’equipaggio gravemente feriti, e con il velivolo colpito e reso inservibile, era costretto all’ammaraggio in mare aperto, eseguendo la difficile manovra con precisione e prontezza e provvedendo con le sole sue forze a trasbordare sul battellino tutti i camerati che altrimenti, essendo essi immobilizzati per le gravi ferite, avrebbero seguito le sorti del velivolo repentinamente inabissatosi. Rimanendo per tre ore in acqua per permettere ai feriti di sistemarsi sul canotto nel modo migliore, iniziava la faticosa navigazione, per guadagnare la costa lontana, mai mancando di confortare i camerati doloranti con la parola e dando loro, con la serenità dello spirito, la certezza del salvamento. Con fraterna devozione assisteva il collega osservatore morente che trovava la forza estrema di additare ai compagni il sublime comportamento del giovane pilota. Per tutto il pomeriggio e la notte provvedeva da solo a dirigere il battello verso terra fino a che, dopo diciannove ore di navigazione, riusciva a sbarcare sulla riva i compagni feriti. Raccogliendo, in un supremo sforzo le proprie energie, compiva una lunga e faticosa marcia per raggiungere un comando alleato cui chiedeva i soccorsi. Infaticabile, rimaneva a fianco dei compagni fino al loro ricovero in ospedale, incurante di sé, preoccupato soltanto dei propri uomini attoniti per tanta forza d’animo.” Cielo del Mediterraneo Orientale, 25 giugno 1941.