Francesco Maria Atanasio. La Corona Forze Armate e Diplomazia nella crisi del 1943

  

La Corona, Forze Armate e Diplomazia nella Crisi del 1943

 Francesco Maria Atanasio

 

La vulgata che vuole la Corona italiana poco più di una mera spettatrice della caduta del Fascismo, cui sarebbero seguiti quasi per inerzia l’armistizio, la “resistenza” e l’alba “radiosa” della Repubblica doveva rivelarsi subito infondata: era sufficiente leggere il volume-indagine “Roma 1943” di Paolo Monelli 1 (la prima edizione è del 1945) per vedere quanto rilevante e decisivo fosse stato invece il ruolo svolto dall’istituzione monarchica per cercare di evitare all’Italia la sorte toccata alla Germania alla fine del conflitto: il territorio nazionale devastato nella sua totalità dai bombardamenti, diviso in quattro zone di occupazione militare e rimasto fino al 1989 frazionato.

Ne era consapevole anche la gran parte degli uomini politici italiani saliti, dopo la liberazione di Roma nel 1944, agli onori delle cronache e che, pur avendo invocato – per come vedremo – l’intervento quasi “taumaturgico” di Vittorio Emanuele III,  gli addosseranno tutte le responsabilità del Fascismo al precipuo scopo di spianare la strada al cambiamento istituzionale 2.

Durante il “ventennio” la Corona era stata gradualmente svuotata dei suoi compiti in un crescendo “repubblicaneggiante” di Mussolini 3. Renzo De Felice ha però rilevato come “…l’istituto monarchico e il Re personalmente godevano…di un prestigio notevole…a livello di classe dirigente … ma anche di non trascurabili settori popolari, e…potevano contare sulla fedeltà…delle forze armate…Con la seconda metà del 1936“  i rapporti fra Quirinale e Palazzo Venezia cominciarono “tendenzialmente – anche se per quasi due anni in apparenza nulla mutò – a cambiare profondamente…Col 1938 era ormai evidente che Vittorio Emanuele tendeva sempre più…a prendere le distanze e a criticare…una serie di aspetti della politica estera italiana di Mussolini, in primo luogo il suo progressivo avvicinamento alla Germania”. Tale atteggiamento e la constatazione che “il sovrano e la monarchia stavano tornando a rafforzare la loro posizione…diventando il più importante punto di riferimento alternativo” convinsero Palazzo Venezia “ad affrettare i tempi della liquidazione della monarchia iniziando a fare il vuoto attorno a Vittorio Emanuele e alla dinastia, relegandoli agli occhi del paese in un ruolo il più possibile meramente rappresentativo …(e a  n.d.a.) ridurne i poteri effettivi” 4.

La storiografia più accreditata, sulla scorta della memorialista più autorevole (da Ciano a Federzoni, da Bottai a Grandi, ma anche di stranieri come Gafencu, ministro degli esteri del Regno di Romania 5…) ha fatto propria questa acuta lettura del De Felice, suffragata anche fonti diplomatiche più che disinteressate come il rapporto dell’incaricato d’affari di Francia a Roma, Blondèl, del 10 gennaio 1938 al ministro Delbos : “La tattica assai prudente di Vittorio Emanuele è sempre stata quella di guadagnare tempo…opponendo al carattere senza dubbio passeggero secondo il suo punto di vista del fascismo la perennità della sua Casa profondamente legata all’unità italiana e che resta in questo paese il solo elemento centralizzatore possibile come simbolo vivente delle Forze Armate” 6

 

Durante i mesi della “non belligeranza” la Corona cercò in molteplici modi di far sganciare l’Italia dall’alleanza con Berlino arrivando persino a ipotizzare la sostituzione di Mussolini con Ciano, fatto oggetto di diverse pressioni da parte del ministro della Real Casa, Acquarone, ma anche da parte della Sede Apostolica.“Il peso importantissimo avuto dal Re nell’evitare l’entrata in guerra dell’Italia ed in generale la sua opposizione all’alleanza con la Germania erano ampiamente noti anche all’estero” 7. I resoconti dei diplomatici presenti a Roma dall’ambasciatore francese Poncèt a quello statunitense William Philips all’inviato straordinario del presidente Roosevelt, Sumner Welles, lo confermano. In questo contesto si inserisce anche la visita eccezionale e senza precedenti – per ovvie ragioni storiche –che Pio XII, eletto al soglio pontificio da pochi mesi, compì il 28 dicembre 1939 al Quirinale: Pio XI, che pure aveva ricevuto nel 1929 il Re, la Regina e tutti i Principi Reali in diverse pubbliche udienze e  aveva concesso nel 1937 la “Rosa d’oro della Cristianità”  ad Elena di Savoia, non aveva mai pensato di “uscire” dai Palazzi Apostolici per salire al Quirinale. Senza che il protocollo diplomatico prevedesse una visita in ricambio a quella effettuata al Pontefice dai Sovrani il 21 dicembre 1939  8 il nuovo Papa decise di sua iniziativa il 28 dicembre di recarsi in visita alla Reggia: in vettura scoperta – nonostante la pioggia –  con a fianco il suo maestro di camera, mons. Arborio Mella di Sant’Elia, fratello di un ciambellano del Re, giungeva al Quirinale accolto con un solenne cerimoniale. Incontrati il Re e la Regina in un colloquio riservato, Pio XII impartì la sua benedizione ai Sovrani, ai Principi Ereditari, ai Principi Sabaudi e a tutta la Corte “affinché la pace che, salvaguardata dalla saggezza dei suoi Reggitori, fa grande, forte e rispettata l’Italia in faccia al mondo, diventi ai popoli che oggi si combattono sprone e incitamento a future intese…”. Vittorio Emanuele III  accompagnò il Papa lungo lo scalone d’onore fino alla vettura nel cortile della Reggia, attendendo che il corteo fosse ripartito per risalire nei suoi appartamenti. La visita fu subito intesa come un momento di forte sintonia fra la Santa Sede e la Monarchia nel tentativo di scongiurare l’entrata in guerra della nostra Nazione, tanto che Mussolini non vi intervenne. Decisa l’entrata in guerra, sotto l’esempio del  regime nazista il dittatore aveva preteso nel maggio 1940 anche la delega del comando supremo delle Forze Armate, riservato dall’art. 5 dello Statuto Albertino al Sovrano, ennesimo tentativo di sminuire la figura del Sovrano.

 

La Famiglia Reale, entrata l’Italia nel conflitto mondiale, era stata progressivamente emarginata dalla scena pubblica e più che episodiche divennero le sue citazioni nei cinegiornali LUCE: nell’autunno del 1942, la popolazione, resasi conto del profilarsi della sconfitta militare e del rischio dell’invasione del territorio metropolitano, dopo la perdita dell’Etiopia e della Libia, iniziò a intensificare il tono delle accoglienze riservate ai Sovrani e i Principi Ereditari ovunque apparissero per testimoniare il sempre più diffuso distacco dal regime, che ancora si riteneva solido almeno sul “fronte interno” 9.  Si levarono così verso la Corona e la Famiglia Reale le speranze di quanti auspicavano un cambio di rotta e le aspettative non furono deluse. Il peculiare carattere riservato di Umberto II e il “silenzio” imposto dallo stesso agli archivi di famiglia, custoditi e riordinati nei suoi 37 anni di esilio 10, non hanno infatti potuto del tutto occultare le iniziative che, pur con i limiti derivatigli dalla posizione ricoperta e dalle  necessarie cautele adottate, egli volle assumere direttamente. Autore di  una delle più documentate biografie del quarto Re d’Italia, Luciano Regolo (che ha avuto accesso ad alcuni fondi archivistici in possesso di Maria Josè) ha commentato al riguardo: “Ogni tentativo condotto dal figlio del Re “per il bene dell’Italia”, come amava puntualizzare, fu destinato a restare coperto dal silenzio, riservato, com’era nel suo stile. Questo…anche per la sua ossessiva volontà di salvare…le ragioni della dinastia. Anche a posteriori, parlando di quei giorni non raccontò mai nulla che potesse far pensare a una divergenza di opinioni tra lui e il padre. Al massimo lasciò intuire tra le righe” 11.

 

Ma qualcosa è trapelata. L’ambasciatore di Polonia presso la Santa Sede, Casimir Papèe, in una nota del maggio 1942 aveva rappresentato al Ministero degli affari esteri inglese come “il Principe di Piemonte intende svolgere in futuro un  ruolo politico, specialmente per il fatto che è stato designato generalissimo di tutte le forze italiane tra la Sicilia e Firenze” 12 : Umberto il 14 aprile 1942 era stato nominato comandante Gruppo Armate sud.

Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, fra i massimi esponenti del Regime, nel suo diario alla data del 21 ottobre 1942 annotava: “Il marasma cresce….Gente, per solito sennata, viene a confidarti di complotti capitanati dal principe ereditario e dalla sua consorte. Si danno per veri ordini impartiti dalla polizia di sorvegliare gli edifici tipici di colpi di Stato: le poste, i telegrafici, le caserme etc.” 13. Alla data del 13 novembre scriverà: “…intorno a vecchi uomini del liberalismo e della democrazia nostrana si è formata un’opposizione che fa capo, via Svizzera, a uomini eminenti della Gran Bretagna.  Sono della partita alcuni cattolici che possono assai sul Pontefice…Senise ( il Capo della Polizia, n.d.a.) non sarebbe estraneo a quell’opposizione, che la Principessa di Piemonte vedrebbe con  favore” 14. Bottai il 1 dicembre 1942 incontrava al Quirinale Umberto di Savoia: “Mi cerca il Principe ereditario. Alle nove e quaranta sono da lui. E’ dietro la sua scrivania, un angolo tra due finestre spalancate su Roma, questa mane grigia. Tutto ha il tono molto “piemontese” in questa stanza; e lui stesso…si sbalcanizza per piemontesizzarsi. Più uomo, non solo pel passare degli anni, ma per una maturazione interiore, di cui è specchio la sguardo….A lungo parliamo della situazione interna. Nulla da notare…ma questa impressione di nettezza, di chiarezza, di lealtà è importante” 15.  Il 22 luglio 1943, reduce da convulsi incontri con Grandi e Ciano per preparare il testo dell’ordine del giorno, poi approvato alle prime ore del 25 luglio, il gerarca scriverà:“….verso le ore 18.30 viene da me, accompagnato da Sammartano (docente universitario e collaboratore di Critica Fascista, la rivista diretta da  Bottai n.d.a.), Eugenio Coselschi ( giornalista, sodale di D’Annunzio a Fiume, fondatore dell’Ass. naz. volontari di guerra e deputato)…Egli viene da parte del Quartier Generale del Principe di Piemonte, ed è per incarico di questo, ripartito per Sessa Aurunca, dove risiede, che viene. L’augusta persona mi fa sapere che considera la situazione militare….tecnicamente esaurita. Vuol ch’io lo sappia alla vigilia del Gran Consiglio, che unico può additare una via di soluzione. Forse, è il suo commento, si può ancora salvare la cattolicità, la monarchia e quel tanto di fascismo che costituiscono i valori italiani in quest’immane crisi.” 16. Galeazzo Ciano da par suo, oramai guarito dalla sudditanza verso Mussolini, ripetutamente segnerà nei suoi pluricitati Diari gli incontri “ufficiosi” con Umberto…anche se la veridicità delle affermazioni ivi riportate sono sempre da filtrare per le ben note ragioni evidenziate dalla storiografia 17. All’influenza di Umberto negli ambienti militari si può in ogni caso attribuire la scelta quale Capo di Stato maggiore generale delle Forze Armate il 31 gennaio 1943 del gen. Vittorio Ambrosio, Capo di Stato maggiore dell’Esercito: subentrava  al maresciallo Cavallero, ritenuto persino da Palazzo Venezia troppo “filo tedesco” e la nomina si rivelerà fondamentale per le successive mosse della Corona.

 

Anche Maria Josè di Savoia, ebbe a svolgere un suo peculiare ruolo: le cautele richieste al Principe erano meno necessarie per la consorte di Umberto, che, facilitata dall’incarico di Ispettrice nazionale della Croce Rossa Italiana 18, si attiverà per coagulare consensi attorno alla Monarchia e cercare di tracciare per la dinastia un nuovo percorso politico al di là del Fascismo. Con il consiglio del filantropo e uomo di cultura Umberto Zanotti Bianco, Maria Josè incontra Einaudi, Croce, Gonella, Antoni e mons. Montini (sostituto alla Segreteria di Stato di Pio XII), che suggerisce l’avvio di contatti diplomatici con Londra tramite il Portogallo (laddove effettivamente si svolgeranno i negoziati per l’armistizio nell’agosto 1943). La Principessa avvicinava anche intellettuali non “allineati” come Vittorini, Flora, Giame Pintor, Trilussa, Bontempelli, visitava pubblicamente il ghetto ebraico di Roma, apriva agli sfollati il Palazzo Reale di Napoli…Con  il marito vedrà poi ripetutamente il maresciallo Badoglio (caduto in disgrazia a Palazzo Venezia dopo l’infausto esito della guerra alla Grecia), il gen. Raffaele Cadorna ( figura di spicco poi nella guerra di Liberazione), rappresentanti del corpo diplomatico, della borghesia industriale e dell’alto clero: il clima per improrogabili cambiamenti è preparato così da questa loro intelligente azione anche se solo al Sovrano spettava adottare le gravi decisioni imposte dagli eventi.

Vittorio Emanuele III, che un iracondo Mussolini  nel 1939 aveva detto a Ciano di poter deporre affiggendo un semplice manifesto, era ritornato da par suo al centro della vita della Nazione. Salivano al Quirinale, anche al di là degli impegni istituzionali, i ministri Grandi e Bottai, il Presidente dell’Accademia d’Italia Federzoni, il grande invalido Delcroix, Presidente della quanto mai diffusa Associazione Mutilati ed Invalidi di guerra, gli eroi della Grande Guerra l’ammiraglio Thaon de Revel, il maresciallo Caviglia e il gen Zuppelli, gli uomini politici dell’età liberale Bonomi, V.E.Orlando e Soleri, con una richiesta univoca: destituire Mussolini, instaurare un governo militare, denunciare l’alleanza con la Germania e uscire dalla guerra.

Si muovevano anche i vertici del Ministero degli Affari Esteri,  che, consapevoli del gravissimo isolamento internazionale nel quale era piombata l’Italia, si dovettero confrontare con i progetti di un “uscita” politica dalla guerra. Lo testimoniano i diari di  Luca Pietromarchi: appartenente ad una famiglia aristocratica romana, entrato nella carriera diplomatica nel 1923 ed in servizio a Palazzo Chigi, sede del ministero degli esteri, fin dal 1936, agli inizi del conflitto assumeva  l’ incarico di responsabile dell’Ufficio Armistizio e Pace per l’amministrazione dei territori assegnati nei Balcani e nella Francia meridionale all’Italia: in tale ruolo aveva potuto constatare la totale malafede dell’alleato germanico nei rapporti bilaterali alla pari della netta opposizione della cerchia più fanatica del dittatore nazista a cercare di risolvere “politicamente” il conflitto oramai deflagrato verso dimensioni inimmaginabili e che poneva a rischio la stessa sopravvivenza dell’Italia. Le annotazioni diaristiche di Pietromarchi relative al periodo gennaio – aprile 1943 – una miniera di impressioni e valutazioni in “tempo reale” sulla drammatica situazione venutasi a creare dopo lo sbarco anglo-americano in Africa settentrionale – hanno infatti “un indubbio interesse storiografico sia sull’evoluzione generale del contesto bellico, sia della pesante situazione interna dell’Italia”  19.

 

Il Ministero degli Esteri premeva per l’avvio di negoziati con gli Alleati anche perché si era rimasti sconvolti dalla “soluzione finale” adottata dai vertici nazisti contro gli Ebrei europei: Pietromarchi  era stato l’animatore di una “congiura umanitaria” per sabotare la loro deportazione almeno nei territori occupati dal Regio Esercito o laddove erano ancora operative le sedi diplomatiche e consolari italiane con il decisivo appoggio dei Comandi militari italiani. Goebbels non a caso si lamenterà nel suo diario il 13 dicembre 1942: “Gli Italiani sono estremamente elastici nel trattamento degli Ebrei. Proteggono gli Ebrei di origine italiana sia in Tunisia che nella Francia occupata e non permettono che siano arruolati per il lavoro o costretti a portare la stella di David…20. Con l’arrivo del 1943 Pietromarchi, che il 1 gennaio era stato ricevuto in udienza privata da Pio XII, trascrive appunti sempre più espliciti: il 26 gennaio 1943, dopo aver incontrato a Palazzo Chigi il senatore Alberto Theodoli, figura di spicco degli ambienti più qualificati della Capitale, scriverà: “Mi dice che si parla molto di due lunghi colloqui che il Maresciallo Caviglia avrebbe avuto col Re. Non si sa se sia stato chiamato o se abbia chiesto di essere ricevuto. Caviglia dovrebbe essere l’uomo della situazione in caso di caduta del regime”.

Ma che la situazione stesse evolvendosi negativamente per il Regime era stato avvertito anche a Palazzo Venezia. Il 5 febbraio, dopo aver dato solo dei brevi cenni a Vittorio Emanuele III, Mussolini cambiava radicalmente l’assetto del governo: il dittatore rimosse Ciano dal Ministero degli Esteri, Grandi da quello della Giustizia (pur conservando la carica di Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che nel 1939 aveva sostituito la Camera dei Deputati) e Bottai dall’Educazione Nazionale, tutte le “personalità” più rilevanti del regime che avrebbero potuto influenzare in chiave anti-germanica le scelte da adottare dinanzi al profilarsi del pericolo di un’invasione del territorio nazionale da parte degli Anglo-americani. Fra le ragioni della decisioni di Mussolini vi fu e non da ultimo quella di far capire sia alla Corona che all’alleato germanico come le leve del potere fossero ancora nelle sue mani.  Non è casuale però che in un rapporto inoltrato nel febbraio 1943 da Halifax, ambasciatore inglese a Washington, al suo governo si leggeva: “I recenti cambiamenti nel gabinetto italiano sono riferiti come risultato della scoperta da parte della Gestapo che c’era un complotto per dare il potere al Principe di Piemonte e rovesciare il governo…questo è quanto si crede correntemente a Roma. Grandi…e il conte Ciano organizzarono il movimento sicuramente con la conoscenza del principe Umberto ” 21.  Da Berlino giungerà lo stesso ministro degli esteri tedesco, Ribbentrop, per capire il vero significato delle decisioni di Palazzo Venezia…!

 

Pietromarchi, che aveva salutato positivamente la sostituzione di Cavallero con Ambrosio, con l’allontanamento di Ciano (destinato all’ambasciata italiana presso la Santa Sede) e la sostanziale delega delle responsabilità degli esteri, di cui Mussolini aveva assunto la titolarità,  al nuovo sottosegretario Bastianini (ultimo ambasciatore a Londra prima della guerra), vedeva accresciuta l’importanza del suo ufficio. Nei circoli diplomatici e negli ambienti vicini alla Corona si ipotizzava così la possibilità di poter rilanciare  una politica estera più autonoma rispetto a Berlino lasciando a Pietromarchi la facoltà di procedere con ampia autonomia : Bastianini lo incaricò di interloquire con il Comando Supremo delle Forze Armate, ritenute a ragion veduta l’unica struttura dello Stato in grado di “influire” sugli avvenimenti. Il diplomatico inizierà così a incontrare con frequenza il gen. Giuseppe Castellano, chiamato da Ambrosio con funzioni di suo addetto al Comando Supremo e al quale era stata affidata la direzione della Sezione ”Piani ed operazioni” dello Stato Maggiore generale. Castellano, per come è noto, coadiuverà Ambrosio nell’iniziativa politica di destituire Mussolini maturata nei primi mesi del 1943 in ambito militare indipendentemente da quella molto successiva di Grandi. I tempi di questa iniziativa si profilavano “lunghi” e il Comando Supremo cercherà di coordinarli con la prospettiva dell’attesa ed invocata azione diplomatica insistentemente sollecitata a Pietromarchi. Questi annotava il 16 marzo 1943: “Ambrosio mi chiede se non sia il caso di fare qualcosa in via diplomatica. Gli rispondo che il Duce è nettamente contrario ad aprire un canale con il nemico. Non c’è neppure il più lontano filo conduttore. I Tedeschi ci sospettano e ci spiano… Ambrosio mi dice che ha esposto al Re l’intera situazione. L’ha trovato pienamente al corrente di essa; ma quanto ai rimedi è stato ermetico”. Il 20 marzo il diplomatico incontrava il ministro della Real Casa Pietro d’Acquarone, che godeva della massima fiducia di Vittorio Emanuele III e  attore principale del piano d’azione della Corona nel destituire Mussolini: “Tutti quelli che vanno a parlare con il Re – mi dice Acquarone – gli consigliano il colpo di Stato. Il Re si mantiene sereno…Evidentemente deve avere una sua idea”.  Pochi giorni dopo, circostanza più che eccezionale, Pietromarchi è ricevuto al Quirinale: “Quest’udienza del Re ha confermato l’impressione che ho sempre avuto del Sovrano, di un intelligenza precisa e netta nei suoi giudizi, di un senso pratico immediato, donde la sua fama di saggio”.

 

Sulla scorta dei diari del diplomatico romano è legittimo ipotizzare come il Re aspettasse che Mussolini, ancora circondato in Italia da un certo prestigio e ritenuto da Berlino non irrilevante interlocutore nel pur ristretto ambito degli  alleati dell’Asse, si facesse al più presto portavoce, anche a nome di quest’ultimi (Ungheria, Romania, Bulgaria, Finlandia e Giappone) con Hitler della duplice necessità di cercare una pace separata con la Russia e di rafforzare il fronte del Mediterraneo in previsione della sconfitta militare delle forze italo-tedesche in Tunisia. Il 19 gennaio il ministro d’Italia a Bucarest, Renato Bova Scoppa, aveva redatto al riguardo un esplicito  rapporto:  avendo conferito con Antonescu, capo del governo di Michele I, Re di Romania, questi, dopo aver “presentato la situazione del proprio paese come insostenibile per cui si rende necessario un tentativo di pace separata da parte della Romania” 22, così avrebbe concluso: “Credo…sia giunto il momento di fare qualcosa in perfetta intesa fra noi. Dite al conte Ciano che è l’interesse comune che difendo informandolo che è essenziale ….prendere contatti diretti. La Germania è ossessionata dai propri problemi e non vuol vedere quelli dell’Europa…Se le cose si complicano l’Italia è il nostro unico punto di appoggio e dobbiamo aiutarci a vicenda” 23 . Dieci giorni dopo anche l’ambasciatore a Budapest, Filippo Anfuso, già capo di gabinetto di Ciano e suo personale amico, gli scriveva per rappresentargli come il governo ungherese era intenzionato a cercare dei contatti con gli Anglo-americani e che era il caso di “dirigere l’azione magiara e guardarsi quindi posatamente attorno” 24. Il primo ministro ungherese Kallay verrà a Roma il 1 aprile per rappresentare personalmente a Mussolini la richiesta di una pace separata, così come farà Antonescu, ricevuto nella residenza privata del Duce a Rocca delle Caminate il successivo 1 luglio. Le aspettative di Romania e Ungheria si ponevano sulla scia di simili iniziative “ufficiose” degli ambienti diplomatici tedeschi  legati all’Abwher dell’amm. Canaris:  ci si rivolse al governo giapponese, che aveva mantenuto le proprie relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica, alla quale era legato fin dall’aprile 1941 da un mai infranto “patto di non aggressione” 25. Nella prospettiva di avviare dei negoziati di pace Bastianini aveva infine ottenuto da Palazzo Venezia di far inviare alle sedi di Lisbona, Madrid e Ankara, tutte capitali di Stati neutrali, i diplomatici Prunas, Paulucci di Calboli e Guariglia, di cui erano noti i sentimenti poco filo-tedeschi, perché si spendessero in tal senso…! Per la diplomazia italiana era opportuno che  la Germania desistesse da nuove azioni militari sul fronte orientale e consolidasse quello del Mediterraneo contro i rischi di un’invasione anglo-americana del territorio nazionale: quanto sopra perché – pur con qualche riserva di Churchill per la posizione dell’Italia – alla conferenza di Casablanca (14 – 23 gennaio 1943) gli Alleati avevano indicato come preliminare alla cessazione delle ostilità  una resa senza condizioni. Da qui l’urgenza di rivolgersi all’Unione Sovietica. Ed invero il 26 marzo 1943 Mussolini scriveva a Hitler riprendendo delle considerazioni già esposte in una sua precedente comunicazione del 9 marzo (DDI, serie IX, vol. X, doc. 95):

 

“…..PER QUESTO VI DICO CHE IL CAPITOLO RUSSIA PUO’ ESSERE CHIUSO CON UNA PACE, SE POSSIBILE, ED IO LA RITENGO POSSIBILE….IL PUNTO DI VISTA DA CUI PARTO PER ARRIVARE A QUESTA CONCLUSIONE E’ CHE LA RUSSIA NON PUO’ ESSERE ANNIENTATA, POICHE’ FU ED E’ DIFESA DA UNO SPAZIO COSI’ GRANDE DA NON POTERE MAI ESSERE CONQUISTATO E TENUTO…BISOGNA QUINDI IN UN MODO O IN UN ALTRO LIQUIDARE IL CAPITOLO RUSSIA. 26.

 

Bastianini aveva preparato a tal riguardo, anche con la collaborazione di Ambrosio, un dettagliato memorandum per supportare Mussolini nei suoi colloqui con Hitler fissati a Salisburgo per il 7 aprile.  Che le attese per un cambio di rotta fossero unanimemente condivise  è Bottai ad annotarlo puntualmente nel suo diario il 10 aprile (il giorno conclusivo dei colloqui): “Il Duce è in Germania. Per le strade (sic) se ne attende, al ritorno, la pace con la Russia. Il desiderio è divenuto voce pubblica” 27. Come è noto gli incontri di Salisburgo si rivelarono un totale fallimento: Hitler ribadì la volontà di continuare il conflitto contro l’Unione Sovietica e si limitò a convenzionali risposte per i problemi legati al Mediterraneo: il 13 maggio 1943 il gen. Messe al comando della superstiti truppe italo-tedesche si arrenderà agli Alleati in Tunisia. Tramontata la “pista” diplomatica, il gen. Ambrosio con i suoi collaboratori darà maggiore forza all’ipotesi di destituire Mussolini quale prima tappa per uscire dalla guerra e il Ministero degli affari esteri e in particolare Pietromarchi vedranno esaurirsi il pur importante compito assolto fin a quel momento per poi riprendere l’iniziativa dopo il 25 luglio.

 

Nella primavera del 1943 si era intanto infittita l’attività di Acquarone: il ministro della Real Casa, che purtroppo non ha lasciato memorie o diari, con l’aiuto di Senise incontrerà i liberali di Casati e Bergamini, i radicali del periodo clandestino “Ricostruzione”, i demolaburisti di Meuccio Ruini, i cattolici di De Gasperi e Gronchi. Monelli, in seguito messo al corrente di questi contatti, preciserà nel suo libro: ”Tutti costoro contavano sulla possibilità di un intervento del sovrano per abbattere il fascismo e mandare a casa il dittatore; e in questo ebbero alleati i comunisti, i quali, pur di ottenere il ribaltamento del regime e uno stato di cose nuovo di zecca si proclamarono pronti a tutti i compromessi, anche la partecipazione a un governo borghese e monarchico con un ministro senza portafoglio” 28. Nessuno, dopo la caduta del Fascismo, smentirà o cercherà di sminuire le proprie responsabilità anche se rifiuteranno ogni collaborazione con il governo Badoglio.

 

Il Re decise di procedere alla destituzione di Mussolini, ma – come scriverà ad Acquarone nel 1944 perché si reagisse alla campagna di stampa antimonarchica divampata – “l’attuazione di questo provvedimento, resa più difficile dallo stato di guerra doveva essere minutamente preparata e condotta nel più assoluto segreto” 29. Qui risiede la causa dell’apparente “sordità” del Sovrano alle sollecitazioni che gli giungevano e del suo apparente immobilismo: non far insospettire il dittatore, che avendo chiaramente subdorato qualcosa dopo aver allontanato dal governo Ciano, Grandi 30 e Bottai  il 14 aprile rimuoveva dall’incarico di Capo della Polizia Senise. Un Mussolini irato  il 5 maggio 1943 prometteva nel suo ultimo discorso dal balcone di Palazzo Venezia “piombo per i traditori”, anche se poi nei suoi articoli pubblicati sul Corriere della Sera e confluiti nel famoso volume STORIA DI UN  ANNO egli confesserà: “…c’era una gran  folla…ma il “calore” della manifestazione era di molti toni inferiore a quello delle altre volte”  31.

La estrema riservatezza del Quirinale era imposta anche dalla necessità di non allarmare  i capi nazisti, ostili per pregiudizio ideologico a Casa Savoia, e che da par loro preparavano contro l’Italia il “piano Alarico”  considerando l’Italia solo un campo di battaglia a difesa della Germania. E’ noto come da tempo i tedeschi avessero disseminato su tutto il territorio nazionale uffici e rappresentanze che cumulavano a compiti amministrativi frenetiche attività spionistiche che non risparmiavano le sedi del potere romano. Il diario del gen. Paolo Puntoni, primo aiutante di campo del Re dal 1940, costituisce la fonte quasi unica del sentire del sovrano in quei frangenti: egli ci conferma come dal novembre 1942 Vittorio Emanuele III stesse orientandosi per scelte radicali in politica interna ed estera pur fra riserve comprensibili per la estrema delicatezza della situazione. A differenza di molti fra le alte cariche dello Stato e nella società italiana il Re si rendeva conto che “in caso di sconfitta…è meglio non farsi troppe illusioni e non aggrapparsi a inutili e false promesse”  per come dirà a don Roffredo Caetani, che gli parlava di un possibile sostegno da parte degli Stati Uniti.

“Vittorio Emanuele III pensava non a un abbattimento brusco del fascismo e a una radicale sostituzione della sua classe dirigente, bensì a un processo graduale che, in un’ottica chiaramente conservatrice, avrebbe dovuto consentire sia la sopravvivenza  della Monarchia sia la continuazione di un assetto sociale e politico moderato” 32:  il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, gen. Azolino Hazon – nominato nel febbraio 1943, ricevuto dal Re il 3 aprile, aveva infatti rappresentato le eventualità di sommovimenti popolari: Puntoni scrive che Hazon, dopo l’udienza, ebbe a dirgli come fosse preoccupato “della situazione interna che vede sempre più grave” 33.

 

L’invasione della Sicilia il 10 luglio determinava il Sovrano a porre fine ad ogni indugio, facilitato dalla convocazione del Gran Consiglio del Fascismo dopo l’ennesimo nulla di fatto seguito al colloquio fra i due dittatori a Feltre il 19 luglio, giorno in cui era stata per la prima volta bombardata Roma, per cercare una soluzione diplomatica del conflitto. Ivanoe Bonomi, che nei diversi colloqui avuti al Quirinale nella tarda primavera, aveva sottoposto al sovrano un articolato e graduale piano d’azione per archiviare il regime e uscire dalla guerra, dovrà velocemente modificarlo: ” Il 14 luglio 1943 – propongo un ministero militare-politico che compia le due operazioni: rovesciamento del fascismo e sganciamento dell’Italia dalla Germania. Pertanto propongo che Badoglio prenda la presidenza del Consiglio ed io la vice-presidenza. L’insediamento si farebbe insieme, poi nei giorni successivi si costituirebbe il ministero con uomini politici rappresentanti delle varie correnti dell’antifascimo: liberali, democratici, cattolici, azionisti, comunisti, socialisti” 34.

Quando Badoglio, due giorni dopo, salì al Quirinale per ricevere la proposta di subentrare a Mussolini, si vide rifiutare nettamente dal Re tale soluzione militare-politica e a ragione. La posizione di Vittorio Emanuele III nasceva da una serie di convinzioni secondo le quali un governo dichiaratamente politico e “antifascista” avrebbe rivelato senza riserva alcuna la decisione ultima della Corona di uscire dal conflitto e convinto i Tedeschi a reagire all’istante. Sul Re influiva anche la convinzione che gli “antifascisti” non rappresentassero che se stessi  e non avessero alcun seguito fra gli Italiani. Ha scritto giustamente Simona Colarizi come l’ostilità degli Italiani al Regime era determinata dallo “spontaneo ed elementare rifiuto della guerra fascista che passa orizzontalmente per tutti i ceti sociali…Per molti i conti con il fascismo si fermano qui…Nella situazione del’43, l’assenza di un impegno politico, di una profonda tensione antifascista, di uno slancio attivo di riscatto…continua a caratterizzare la maggior parte della popolazione italiana” 35 mentre  “gli esponenti dell’antifascismo sono i rappresentanti di esili gruppi, dei sopravvissuti al fascismo che si fanno interpreti di un sentimento popolare e di un  movimento di popolo ancora tutto da verificare” 36. L’entusiasmo degli Italiani all’annuncio di Badoglio il 25 luglio con i cortei che attraversavano piazze e strade sventolando i tricolori de Regno e innalzando ritratti del sovrano non solo dimostravano “come l’identificazione tra i Savoia e la Nazione avesse resistito …al mussolinismo e ,in parte, a una guerra che si era rivelata disastrosa” 37, ma che “gli Italiani sentirono il 25 luglio che la monarchia ritornava veramente alla sua funzione, riacquistava anch’essa la sua libertà, interpretava le aspirazioni del Paese, esprimeva la volontà di tutti. La speranza che essi avevano conservato nel cuore non era stata delusa: il popolo e la Corona si ritrovavano e si riconoscevano  dopo una lunga schiavitù comune. Il  vero volto dell’Italia si vide in quei giorni, e fu un volto monarchico” 38.

 

All’indomani dell’approvazione dell’ordine del giorno proposto da Grandi (illustrato da questi a Vittorio Emanuele III il 3 giugno e passato con 19 sì, 8 no e  1 astenuto) il Re assumeva “con l’effettivo comando delle Forze Armate…quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono” per come statuiva il testo del documento. Un inedito di Dino Grandi (pubblicato sul n.3/2013 di “Nuova Storia Contemporanea”, con una prefazione di Francesco Perfetti), ha fornito un ulteriore e rilevante contributo alla ricostruzione del ruolo svolto dalla Corona. Grandi- che scriveva a Federzoni alla fine degli anni’50 – nel rievocare i contatti avuti con Vittorio Emanuele III quale Ministro delle giustizia, incarico assunto nel giugno 1939, narrava che il Re, ricevutolo a Sant’Anna di Valdieri in quel frangente, gli aveva detto: “Ore gravi stanno avvicinandosi per il nostro Paese…Qualcuno crede e si illude che lo Statuto del Regno…sia ormai lettera morta. Non è vero. Lo Statuto è stato qua e là corroso, ma le capriate dell’edificio costituzionale sono rimaste intatte. Io temo che profittando di circostanze eccezionali di emergenza possa essere dato un colpo grave alle linee maestre dell’edificio costituzionale. Ho bisogno di qualcuno che consideri suo compito difendere quello che resta ancora…Lei deve essere questa persona…La trincea è lo Statuto”. Entrata l’Italia in guerra contro “l’armonica azione che automaticamente ebbe a determinarsi a favore della neutralità da parte della Monarchia, del Vaticano, delle Forze Armate e della….maggioranza del Consiglio dei Ministri”, Mussolini cercò infatti di rafforzare la dittatura “travolgendo le ultime trincee rappresentate dalla Costituzione Albertina e dalla stessa Monarchia”. Dopo le sconfitte in Africa e  Albania, Grandi – che Mussolini aveva inviato al fronte greco assieme ai gerarchi titolari dei ministeri per depotenziare i dicasteri da un punto di vista politico – maturava la convinzione che “l’Italia non aveva se non una via di salvezza, quella di uscire dalla guerra al più presto  possibile a costo di provocare con ciò l’occupazione tedesca dell’Italia che già di fatto esisteva da qualche mese”.

 

Dopo il Re Grandi incontrò anche Umberto, al quale disse che occorreva “un colpo di Stato da parte della Monarchia…il quale sia null’altro che il ripristino nella sua interezza della funzionamento della Monarchia costituzionale”. A questo punto Grandi dichiarava di aver commesso l’errore tattico di non essersi coordinato con Acquarone e soprattutto di avere rifiutato “ogni contatto con i capi militari e i loro fiduciari i quali sovente, dal febbraio al giugno, fecero discreti approcci alla persona di Grandi diretti ad esaminare insieme la gravità della situazione in cui si trovava il Paese”. Il nostro ripete diffusamente questo concetto facendo intuire come si ritenga corresponsabile delle manchevolezze dell’azione del governo Badoglio. Ancora il 20 luglio, Grandi ricordava, si era rifiutato di incontrare Acquarone, che vedrà solo nelle prime ore del 25 luglio per consegnargli “il secondo originale della deliberazione del Gran Consiglio con le firme originali di coloro che l’avevano votato” e chiedergli di assumere una serie di iniziative oramai superate (ad esempio la nomina della Maresciallo Caviglia al posto di Badoglio) dallo svolgersi dei fatti! Stigmatizzato l’atteggiamento degli antifascisti di cui sperava che “avrebbero per un momento dimenticato vendette e rancori e non si sarebbero sottratti all’elementare ed urgente dovere di costituire un fronte unico…per salvare la Patria”, Grandi doveva rilevare infine come le positive ripercussioni derivate dal capovolgimento della situazione interna italiana in Ungheria, Bulgaria, Romania, Jugoslavia, Grecia e nella stessa Germania, dove “i focolai  di ribellione già esistenti in quei Paesi si accingevano ad esplodere seguendo il coraggioso esempio dato dall’Italia”, erano state vanificate dalla “stupidità dei Governi alleati” e “la favorevole situazione internazionale determinata dal colpo d Stato in Italia a poco a poco si raggelò e si inaridì.

 

Il modo come gli Alleati trattarono l’Italia dal luglio al settembre scoraggiò definitivamente i patrioti di tutti i Paesi occupati dalla Germania…la guerra che avrebbe potuto decidersi e terminare con  la piena vittoria degli Alleati mediante il concorso della rivoluzione dei Paesi occupati dalla Germania dovette protrarsi ancora per due anni”. Il dattiloscritto di Grandi (rimesso dalla famiglia Federzoni a Renzo De Felice, che lo versò all’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri) ribadisce la centralità della Corona negli avvenimenti del 25 luglio e che il nostro riconosce non aver saputo coadiuvare adeguatamente respingendo quei contatti con i vertici  militari e il ministro della Real Casa che invece avrebbe potuto consigliare e orientare come gli aveva chiesto il Sovrano. L’inedita testimonianza infine sottolinea il grave errore strategico e politico degli Anglo-americani che non seppero (e non  vollero) sfruttare le decisioni assunte dal Re a favore di una più celere sconfitta della Germania. Un’Italia non umiliata dalla richiesta di resa incondizionata, non ingannata sulla data dell’annuncio dell’armistizio, efficacemente sostenuta nel territorio metropolitano e nelle zone dalla stessa occupate nei Balcani e nel Mediterraneo, garantita nelle proprie istituzioni, con in testa la Monarchia, avrebbe fatto della svolta adottata un fattore rilevante per la conclusione anticipata della guerra. Dietro l’Italia sarebbero venute di Bulgaria, Romania e Ungheria  sottraendo l’Europa orientale all’occupazione sovietica, mentre in Germania la “destra” aristocratica e monarchica avrebbe avuto maggiori possibilità di eliminare il dittatore. Per “punire” l’Italia e forse con essa anche la più importante istituzione monarchica nel continente europeo la si gettò nel baratro dell’occupazione nazista e nello strazio di un  guerra civile che ha ipotecato tutto il suo futuro.

 

 

 

Note:

1)         Paolo Monelli, nato nel 1891 a Modena, inizia la sua brillante carriera giornalistica al “Resto del Carlino”. Interventista, volontario nella  Grande Guerra, è più volte decorato al v.m.: di quella esperienza trarrà ispirazione per il suo romanzo più famoso SCARPE AL SOLE. Scriverà su La Stampa, il Corriere della Sera, la Gazzetta del Popolo, il Messaggero: da corrispondente di guerra e inviato speciale sarà in Russia, in Germania, a New York, in Spagna, in Etiopia, e durante la II guerra mondiale in Africa settentrionale. Promotore di insuperate iniziative culturali come il Premio Bagutta e il Premio Strega, segna nel secondo dopoguerra l’ambiente intellettuale della capitale. “Roma 1943” ha avuto  innumerevoli edizioni;

2)         Si veda F. Lucifero, L’ultimo Re. I diari del ministro della Real Casa 1944 – 1946, a cura di Alfredo Lucifero e Francesco Perfetti, Milano, 2002. Falcone Lucifero, eminente  giurista di convinzioni antifascisti, fu scelto da Umberto di Savoia, assunta la Luogotenenza del Regno il 5 giugno 1944, come ministro della Real Casa, la persona deputata a tenere i contatti con il governo e la Commissione alleata di controllo: i suoi diari sono lo specchio fedele di un “monarchico contingente”, come dichiarava essere il nobile calabrese, che registra con cadenza quotidiana gli avvenimenti grandi e piccoli di quei due anni così convulsi della storia unitaria;

3)         A.A. Mola, Declino e crollo della Monarchia, Milano 2006;

4)         R.De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, Torino, 1996, pagg.19 e ssg;

5)         G. Gafencu, Ultimi giorni dell’Europa, Milano, 1947, pag. 37:“ Fui ricevuto il primo maggio ( 1939 n.d.a.) di buon mattino: il Re era solito cominciare presto le sue giornate. Quest’uomo…sembrava attendere che…il principio di continuità, che egli incarnava, l’avesse vinta sulla “rivoluzione”, e che gli fosse resa la sovranità…Il giorno della restaurazione non era forse così lontano”;

6)         Documents Diplomatiques francais – DDF – s. II, vol.VII, n. 862;

7)         M. de Leonardis, La monarchia italiana e l’intervento dell’Italia nella seconda guerra mondiale, in E. Di Nolfo, R. Rainero, R. Vigezzi, L’Italia e la politica di potenza in Europa (1938-1940), Milano, 1985, pagg. 39-67;

8)         Pio XII così aveva salutato il sovrano:“…mentre altri popoli sono travolti o minacciati dalla guerra e la tranquillità e la pace sono andate esuli da gran numero di cuori, l’Italia, invece, pur sempre vigile e forte, sotto l’augusta e saggia mano del Suo Re e Imperatore, posa pacifica nel vivere civile”.

9)         Già nella primavera del 1942  i rapporti dell’OVRA avevano segnalato, allarmati,  che, a Firenze, nel visitare Maria Josè gli sfrattati di San Giorgio e i feriti ricoverati all’Ospedale di mobilitazione Santa Maria Nuova si erano accalcati attorno alla principessa e alle duchesse Anna e Irene di Savoia Aosta, presenti anch’esse, ed erano state salutate in strada da ripetuti applausi. Un successo erano state la visite di  Vittorio Emanuele III e di Umberto in Sicilia nell’inverno 1942 -1943;

10)       Le vicende relative alla destinazione degli “archivi” di Umberto II dopo la sua scomparsa il 18 marzo 1983 a Ginevra hanno attirato particolarmente l’attenzione degli storici, alla pari di quelle legate all’esistenza o meno delle “memorie” redatte da Vittorio Emanuele III nei suoi anni di esilio e delle quali dà conto in un acuto volume Francesco Perfetti. Particolarmente interessante è sulla sorte di questi archivi la testimonianza rilasciata dal conte Fausto Solaro del Borgo, consegnatario del testamento di Umberto II, alla SISSCO il 21 dicembre 2002 a cura di Fulvio Cammarano e Salvatore Botta. Certo è che nel momento in cui gli esecutori testamentari di Umberto II, Simeone II di Bulgaria e Maurizio d’Assia, hanno versato all’Archivio di Stato di Torino quanto da loro rinvenuto a “Villa Italia”, la sua residenza portoghese a Cascais, mancava qualsiasi atto riferibile al periodo del regno di Vittorio Emanuele III e di Umberto II;

11)       L. Regolo, Il Re Signore, Milano 1998, pag. 408:

12)       G. Bottai, DIARIO 1935-1944, a cura di Giordano Bruno Guerri, Milano, 1982,. pag. 339-340

13)       ibidem, pag. 350;

14)       ibidem, pag. 352;

15)       ibidem, pag. 403;

16)       G. Bruno Guerri, Galeazzo Ciano. Una vita ( 1903-1944), Milano, 2001;

17)       M. L. Straniero, Maria Josè, Milano, 1988;

18)       G. Falanga, Storia di un diplomatico. Luca Pietromarchi al Regio Ministero degli Affari Esteri (1923-1945), Roma, 2018, pag. 354  e ssg;

19)       L.P. Lochner ( ed), The Goebbels Diaries, pag. 181;

20)       cit. in L. Regolo, op.cit., pag.408;

21)       cit in G. Bruno Guerri, op. cit. ,pag- 528;

22)       cit. in R. Bova Scoppa, Colloqui con due dittatori, Roma, 1949, pag. 72;

23)       F. Anfuso, Da Palazzo Venezia al lago di Garda, Bologna, 1948, pag. 256;

24)       DDI, Serie IX, vol. X, doc. 159 pag. 131;

25)       L’Unione Sovietica dichiarò guerra al Giappone  l’8 agosto 1945;

26)       G.Bottai, op. cit. pag, 372;

27)       P. Monelli, Roma 1943, Einaudi, pag. 48;

28)       D. Bartoli, I Savoia. Ultimo Atto, Novara, 1986 pag.142;

29)       Quasi in risposta all’ennesima “svolta” dittatoriale di Mussolini il Re il 25 marzo 1943 conferiva a Grandi, non più Ministro guardasigilli ma ancora Presidente della Camera dei Fasci e  delle Corporazioni, il Collare della SS. Annunziata: era il massimo riconoscimento onorifico del Regno d’Italia e che rivestiva nel caso dell’ex Ministro una precisa valenza politica. Il Sovrano quando riceverà il 25 luglio pomeriggio Mussolini – per come ammetterà lo stesso dittatore un anno dopo nel famoso libro “Storia di un anno” – avrebbe commentato l’esito del voto del Gran Consiglio: “Diciannove voti per l’ordine del giorno Grandi: fra di essi quattro Collari dell’Annunziata”…  La circostanza che l’ordine del giorno Grandi fosse stato sottoscritto anche dagli altri tre “Collari” presenti nel Gran Consiglio –  Federzoni, De Bono e Ciano – costituiva un elemento di valutazione che la Corona non poteva sottovalutare;

30)       B. Mussolini, Storia di un anno, Milano, 1944 ( edizione del 1982), pag. 44;

31)       A. Ungari, In nome del Re. I monarchici italiani dal 1943 al 1946, Firenze, 2004, pag.5

32)       P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Milano, 1958, pag.127;

33)       I. Bonomi, Diario di un anno, Milano, 1947, pag.20

34)       S. Colarizi, La seconda guerra mondiale e la Repubblica, Milano, 1996, pag.192-3;

35)       ibidem, pag. 197;

36)       P. Ungari, op.cit. pag.9

37)       G. Cattaneo, La verità per la storia! Le colpe della monarchia, Torino, 1946 pag.21;