PROGETTO FORMATIVO MILITE IGNOTO – CARIATI (CS)

  

Si è concluso il Progetto formativo “Milite Ignoto” svolto da docenti dell’Istituto del Nastro Azzurro agli studenti del Liceo Scientifico-Liceo Linguistico di Cariati (CS). Al termine del progetto gli studenti sono stati chiamati a svolgere un tema sui diversi argomenti trattati durante il corso. La commissione della Presidenza Nazionale, dopo aver esaminato gli elaborati pervenuti ha scelto i temi vincitori:

1° classificato

Ungaretti e il suo Milite Ignoto

La Prima Guerra Mondiale fu il primo conflitto ad essere documentato con fotografie e filmati, anche se le foto di guerra, all’epoca non vennero mai pubblicate sui giornali. Le fotografie, quasi sempre di autori anonimi, sono straordinari documenti storici, spesso di intenso impatto emotivo; esse ritraggono le cerimonie ufficiali, gli effetti dei bombardamenti ma soprattutto i soldati in trincea, colti mentre combattono, soccorrono i feriti, nei momenti di pausa, nella paura e nella disperazione. Una dolente testimonianza di un’umanità ferita. Questo dolore, questa angoscia sono state magistralmente espresse anche dall’opera di molti intellettuali, artisti, scrittori e poeti italiani che fecero esperienza al fronte rendendone poi testimonianza. Il grande poeta Giuseppe Ungaretti, precursore dell’Ermetismo, dedicò alla Grande Guerra una parte della sua produzione poetica. Arruolatosi con entusiasmo come volontario e inviato a combattere sul Carso, mentre era al fronte Ungaretti scrisse in un taccuino alcune poesie, che furono poi raccolte e pubblicate, nel 1916, con il titolo “Il porto sepolto”. Questi suoi componimenti, talvolta brevissimi, hanno uno spiccato carattere autobiografico, in una stretta connessione tra arte e vita, e nella loro essenzialità cercano il senso ultimo e nascosto delle cose. Attraverso lo strumento dell’analogia, con poche ed efficaci immagini poetiche, il poeta punta direttamente al significato con incredibile intensità, scavando la profondità del suo mondo interiore. “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”: è “Soldati” del 1918, un componimento tanto breve quanto eloquente, che fa percepire la vita di qualsiasi soldato, senza nome, senza identità, desolato e solo. Questa immagine del soldato è assimilata alla fragilità di una foglia d’autunno, attaccata al suo albero, finché un soffio di vento può stroncarla. Ungaretti, in pochi versi, suggerisce lo straordinario senso di sospensione e di precarietà nella vita di un giovane soldato. In “Veglia” del 1915, il poeta è accanto al cadavere di un compagno caduto. I primi versi evocano, senza alcuna retorica, l’orrore della guerra e le sue nefaste conseguenze. E tuttavia, l’immagine straziante di quel corpo sfigurato conduce ad un inatteso capovolgimento di senso: “Nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore / Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita”. Anche nel dolore più lacerante, anche nel buio più profondo si può scorgere la luce, intesa come amore per la vita e amore per l’umanità, che restano sempre e comunque i valori più alti da mantenere. Il Carso è stato uno dei simboli della Grande Guerra Italiana, molte vite sono state sacrificate qui e molte decisioni che hanno segnato il corso della guerra hanno riguardato quest’area. Il corpo del Milite Ignoto è stato scelto qui da Maria Bergamas, madre di un volontario irredentista di Gradisca d’Isonzo, da qui è partito il suo viaggio verso la Capitale ed è qui che si trova il più importante e maestoso Sacrario dei Caduti della Grande Guerra. Sia l’esercito Italiano, sia quello Austriaco ritenevano questa zona il punto fondamentale dove poter oltrepassare le linee nemiche per raggiungere le capitali delle nazioni opposte. Una guerra di trincea, quella vissuta e narrata da Ungaretti, in un territorio le cui rocce si scheggiavano, trasformandosi in frammenti di morte. Dodici battaglie, combattute in pochi chilometri per anni, conquistando pochi metri per poi perderli nel successivo attacco nemico. Una linea di sangue, di soldati mandati al macello, “come d’autunno sugli alberi le foglie”. Nel 1921, tre anni dopo la fine del conflitto, anche quel giovane soldato che giaceva al suolo “vegliato” da Ungaretti, senza nome, senza identità, giungeva simbolicamente a Roma, all’Altare della Patria, per essere tumulato insieme a tutti i suoi compagni che, da Nord a Sud, si erano uniti “attaccati alla vita” sotto quell’amore per la Patria e per l’umanità.  

                                       Domenico Salvati, Classe 5 – Sez. C Liceo Linguistico

2° classificato

“GATTI E CAVALLI VOLANTI”

“Scienza, libertà, bellezza, avventura: cosa si può chiedere di più alla vita? Il volo aereo ha unito tutti gli elementi che ho amato. C’è scienza in ciascuna curva di un profilo aerodinamico, in ogni angolo tra il puntone e il filo, nell’intercapedine di una candela di accensione o nel colore della fiamma di scarico C’è libertà nell’orizzonte illimitato e sui campi aperti dove si atterra. Un pilota è circondato dalla bellezza della terra e del cielo. Sfiora le cime degli alberi insieme agli uccelli, salta valli e fiumi, esplora i canyon che guarda come un bambino. L’avventura giace in ogni soffio di vento”. Questo brano di Charles Lindbergh riassume tutto il fascino che il volo ha da sempre esercitato sull’essere umano. D’altra parte la possibilità per l’uomo di volare era stata già teorizzata e progettata da Leonardo Da Vinci nel suo “Codice del volo”, in cui il grande genio toscano aveva delineato i suoi studi meccanici sulle “macchine volanti” basandosi sull’osservazione del volo degli uccelli e sul loro studio anatomico. A proposito del moto dei corpi Leonardo sosteneva che “L’impeto è una virtù creata dal movimento e trasmessa dal motore dei corpi in movimento, è la traccia del moto che viene trasmesso dal motore del corpo in movimento”, affermazione che senz’altro ben si può applicare a tutti i corpi in movimento ma, in particolare, ai velivoli. Attraverso i secoli il progresso scientifico e tecnologico avrebbe condotto a traguardi prima impensabili, specie nell’impiego di mezzi e strumenti in ambito militare. In tal senso la data del 17 dicembre 1903, segna un momento decisivo per lo sviluppo dell’aviazione. A Kitty Hawk (North Carolina), infatti, il flyier dei fratelli Wright spicca il suo primo volo. Wilbur e Orville Wright, costruttori di biciclette, furono i primi a realizzare un aeroplano capace di alzarsi in volo, anche se inizialmente solo per alcuni metri. Nel corso dell’Ottocento, molti studi si erano occupati della possibilità di sollevare da terra mezzi dotati di motore. I fratelli Wright applicarono i loro esperimenti su aquiloni, poi su un grosso aliante trainato da un mezzo a terra. Costruirono diversi prototipi di aereo in grado di trasportare un passeggero fino a quando, nel 1903, realizzarono un aereo con apertura alare di 12 m, massa di circa 340 kg (compreso il pilota), dotato di un motore a scoppio con quattro cilindri e potenza di 12 CV. A Kitty Hawk, con questo mezzo, i fratelli Wright riuscirono a effettuare quattro brevi voli, il più lungo di 59 secondi, su distanze di poche decine di metri e segnarono così la nascita dell’aviazione. Negli anni seguenti, nel giro di pochissimo tempo, l’aviazione fece rapidamente progressi enormi, grazie al contributo di molti altri inventori. E, infatti, di lì a poco gli aeroplani cominciarono a essere usati per impieghi militari e divennero fondamentali durante la Prima Guerra Mondiale. Il primo impiego militare dell’aviazione fu italiano e riguardò le operazioni in Libia nell’ambito della guerra italo-turca. Fu, infatti, in quella occasione che il corpo di spedizione del genio aeronautico in Libia sperimentò gli utilizzi basici dell’aviazione bellica: ricognizione, bombardamento e combattimento aereo. Di lì a poco l’aviazione si sarebbe affermata come nuova arma che poteva offrire un nuovo vantaggio tattico: l’attività svolta in precedenza dalla cavalleria diventava molto più efficace quando condotta dall’alto. A bordo del ricognitore l’ufficiale osservatore era addetto ai rilievi fotografici ed all’osservazione, appunto, della situazione nemica; uno degli ufficiali osservatori d’eccezione fu Gabriele D’Annunzio, noto anche per il raid su Vienna, il 9 agosto 1918 (in cui furono lanciati volantini sui quali si inneggiava alla sicura vittoria italiana e si scoraggiavano gli austriaci da ulteriori azioni belliche) e per l’impresa di Fiume del 1920. La caccia nacque, invece, per abbattere il ricognitore prima che completasse la sua missione, evitando così di fornire ai comandanti notizie utili sulla situazione. Il combattimento assunse gli aspetti cavallereschi della “singolar tenzone”, si affermò così la figura dell’«asso», il pilota che aveva abbattuto almeno 5 aerei avversari in combattimento. L’asso che più di tutti guadagnò questa qualifica fu il barone tedesco Manfred Von Rithchofen che aveva abbattuto ben 80 velivoli avversari. Von Rithchofen comandava uno stormo da caccia costituito da assi scelti da lui personalmente, lo «Jasta 11». I colori degli aeroplani anziché essere mimetici erano vistosi e sgargianti, compreso quello di Von Rithchofen, completamente rosso, da cui prese il soprannome di “Barone rosso”. Per le livree colorate e stravaganti dei suoi aeroplani lo «Jasta 11» fu soprannominato il “circo volante”, anche se l’immagine “eccentrica” dello stormo aveva lo scopo di intimorire gli avversari. Il Barone rosso, dopo una serie di imprese memorabili morì durante un combattimento il 21 aprile 1918 a soli 26 anni. Il più noto asso italiano era il maggiore Francesco Baracca, il quale aveva conseguito 32 vittorie. Proveniente dall’arma di cavalleria, aveva come simbolo il cavallino rampante su una nuvola bianca. Baracca aveva costituito la 91^ squadriglia caccia, composta tutta da assi italiani sotto il suo comando. Nell’ambito delle operazioni di assalto compiute durante la cosiddetta “battaglia del solstizio”, Francesco Baracca venne colpito in volo da un proiettile di fucile sparato da terra e cadde alle pendici del Montello, dove oggi sorge il suo mausoleo. La leggenda dell’asso è impressa sulla carrozzeria dell’auto più prestigiosa d’Italia: la mitica Ferrari. La madre di Baracca, infatti, fece dono ad Enzo Ferrari, allora giovane pilota di automobili, del simbolo del cavallino rampante dicendogli che gli avrebbe portato fortuna. Attualmente presso il 4° stormo o il 9° stormo si tiene il “Ferrari day”, una gara di accelerazione tra un caccia del reparto in decollo e una Ferrari di Formula 1. Durante la Grande Guerra nacquero i reparti di volo tuttora esistenti nell’organizzazione dell’aeronautica militare, i cui compiti negli anni si sono diversificati in funzione dell’evoluzione tecnologica e tattica. Tra i diversi stormi il 3°, inizialmente un reparto da ricognizione, divenne uno stormo caccia per poi tornare all’originale compito di ricognizione dopo la seconda guerra mondiale. L’origine del simbolo araldico dei “4 Gatti” risale al primo stemma della 278^ Squadriglia Autonoma Aerosiluranti (quattro gatti, due bianchi e due neri sopra un siluro con la scritta “pauci sed semper immites”, “pochi ma sempre aggressivi”). Nel settembre 1940 l’unità venne posta sotto il comando del capitano Massimiliano Erasi, il quale adottò come distintivo quattro gatti ad indicare i quattro aerei del reparto e la povertà di uomini e mezzi con cui era stato costituito. L’affascinante storia dell’aviazione deve la sua evoluzione anche ad un altro italiano: il generale Giulio Douhet, il quale fu il primo a teorizzare l’impiego delle forze aeree sin dal 1909, fino alla pubblicazione, nel 1928, de “Il dominio dell’aria”, tutt’oggi testo di studio nelle accademie aeronautiche di tutto il mondo.

                                                                            Classe 3^ Sez. B Liceo Scientifico

3° classificato

La divisa cucita addosso: spirito di servizio, dovere morale e solidarietà dei militari italiani.

L’ordine democratico italiano è frutto di anni di sacrificio, lunghi processi di socializzazione e in ultimo, ma non per importanza, immani sacrifici di giovani Italiani immolatisi per la gloria del loro Paese.

Le forze armate, nella loro discreta e spesso non visibile presenza, sono alla base del nostro quieto vivere quotidiano, con lo spirito di servizio di chi è sempre a disposizione del prossimo senza remore. Chi appartiene alle forze armate basa il suo servizio verso il Paese su di una apparentemente semplice formula di giuramento che racchiude in sé i più alti valori: dovere, onore, disciplina, coraggio, onore, fedeltà e responsabilità.  

È con il giuramento, il momento più importante della vita militare, che il soldato si impegna ad essere fedele, ad agire con dedizione e rispetto verso le istituzioni. L’etica militare è l’insieme dei principi delle forze armate, che regola il loro comportamento. La divisa cucita addosso è parte integrante del servitore dello Stato; è un esempio di dovere, un impegno solenne, un amor di patria; è forte attaccamento alla propria nazione che porta a sacrificarsi per essa.

La fratellanza d’armi è un vincolo di lealtà che unisce i combattenti sotto la stessa bandiera, indipendentemente dalla loro provenienza regionale, come avveniva durante la prima e la seconda Guerra Mondiale. Durante queste guerre si verificò un processo di unificazione morale tra i vari soldati provenienti da tutte le parti d’ Italia, nonostante non riuscissero a comprendersi per i differenti dialetti che venivano parlati.

Chi andava in guerra era consapevole di avere poche possibilità di far ritorno nella propria terra e di riabbracciare i propri cari. Secondo il codice d’onore nessun commilitone veniva lasciato sul campo di battaglia; perciò i soldati facevano il possibile per non veder morire i propri compagni sotto i loro occhi. Tanti sono i morti, pochi coloro che hanno fatto ritorno a casa e tantissimi i dispersi. È doveroso ed importante piangere la morte dei servitori della Patria, per onorare la loro memoria e per rispettare il gesto di profondo amore, altruismo e grande spirito di sacrificio.

Proprio per questo motivo nel 1919 fu istituito il Commissariato Onoranze Caduti in Guerra, “onor caduti” che ha l’obiettivo di ricercare, recuperare, sistemare le spoglie dei caduti sia in Italia che all’estero. Questo ente divulga le informazioni sulle suddette sepolture in modo da informare le famiglie delle vittime, collaborando con gli enti esteri per ricercare i caduti italiani e riportarli in Patria. Lo stemma degli onor caduti è uno scudo sannitico di colore azzurro che rappresenta la fedeltà e l’amore per la Patria; al centro troviamo un rombo rosso simbolo di coraggio, il quale racchiude i simboli delle forze armate emblemi di gloria, sovranità e giustizia. Inoltre, all’interno è collocata una stella color argento a cinque punte con una fiamma, perenne simbolo di onore e memoria per i caduti. 

I corpi dei caduti ad oggi sono custoditi nei sacrari militari, dei complessi architettonici realizzati per commemorare le spoglie dei caduti morti in guerra. È proprio per questo che piangere chi si è sacrificato per il nostro Paese diventa un atto di estremo rispetto e di riconoscimento, per celebrare l’eroismo, il coraggio e il sacrificio dei nostri caduti.

Purtroppo, non tutti i caduti sono stati identificati; tra questi il milite ignoto, che rappresenta tutti coloro che sono morti in guerra di cui non si conosce l’identità.  Al termine della prima guerra mondiale si decise di rendere i più alti onori ai militari non identificati; così dalle zone di operazioni belliche furono recuperate undici salme, tra cui scegliere quella che sarebbe stata tumulata al Vittoriano di Roma, divenuto poi l’Altare della Patria. 

Fu la madre di uno dei caduti Maria Bergamas, una donna triestina che aveva perso suo figlio in guerra, a scegliere il Milite Ignoto. Il feretro fu posto su un treno e, durante il suo viaggio verso Roma, ad ogni fermata gli furono tributati gli onori. Il 4 novembre del 1921, con una cerimonia solenne, alla presenza delle più alte autorità e del popolo, il feretro fu tumulato nel Vittoriano. Oggi il 4 novembre è celebrato come la festa delle forze armate. Il Milite Ignoto fu scelto per dare conforto e adempiere al senso di rispetto verso tutti, affinché fosse il simbolo del sacrificio e della pietà per quei poveri ragazzi che non potevano avere degna sepoltura con una tomba, per essere compianti dai parenti. Da quel momento tutte le più alte cariche istituzionali resero omaggio al Milite Ignoto in segno di imperitura gratitudine della patria per l’olocausto di tanta gioventù. 

Quanto espresso si può racchiudere in una poesia, scritta da un genitore al figlio che si accingeva a servire la patria: “diventa gioia la fatica e la sofferenza se nel cuore arde la fiamma di un ideale, e per quella fiamma bisogna a tutti i costi che lo sguardo luccichi e l’orgoglio motivi ogni passo. C’è gente che non ha ideali, altri che li hanno perduti, altri ancora che non avrebbero dovuto proprio esistere. Tu invece fa’ in modo da tenere sempre vivo e pulito il tuo credo”.  

                                                                        Viva l’Italia, viva le Forze Armate!

Calbi Margherita

4^A Liceo Scientifico Stefano Patrizi, Cariati