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Durante la Prima Guerra Mondiale le figure degli intellettuali rivestirono un ruolo essenziale nella comunicazione. Il più noto di essi coniò addirittura parte del lessico che rimane tuttora presente nel linguaggio: il termine ‘velivolo’ o la denominazione ‘Battaglia del Solstizio’, ad esempio, si debbono al Vate. Egli non si fece scudo della propria penna ma partecipò in prima persona alla guerra, impegnandosi in imprese anche rischiose (il Volo su Vienna) senza paura di perdervi la vita.
Si può parlare nel suo caso di ‘coraggio’ o forse sarebbe più opportuno riferirsi al concetto di ‘temerarietà’ in obbedienza ad un gusto estetico capace di richiedere totale identificazione fra ideali professati ed esistenza?
D’Annunzio era immerso profondamente nel clima bellico in cui, forte della sua cultura notevolissima dei classici, poteva sperimentare dal vivo le dinamiche proprie della ferinità che si sprigionano dal conflitto. Ne era consapevole e non ne faceva mistero:
Ricordo una disputa alla mensa di Comando a Vicenza – Villa Camerini – (Cadorna non vi partecipava) quando un ufficiale, pensoso di problemi osò parlare di guerra e di pace a proposito del romanzo di Tolstoi. Il D’Annunzio reagì con violenza – fors’anche per un istintivo timore di confronti coll’ombra del grande «barbaro». Reagì pallido e iroso. Non so se nel suo sdegno, come spesso avveniva in lui, non si confondesse a una reale manifestazione di sentimenti autentici, una certa voluta drammaticità dell’attore – e quale attore! – ben cosciente della scena su cui recitava. Ma ciò che di lui in quel momento mi parve schietto è la confessione di ciò che gli appariva essenziale nelle supreme finalità del nostro intervento. Non bastavano Trento e Trieste per giustificarlo. Non era ragione sufficiente l’antico conflitto contro l’Austria reazionaria. L’Italia aveva bisogno di una prova esaltatrice e rinnovatrice – di un «bagno di sangue».
«L’Italia ha bisogno di un lavacro per purificarsi dalle sozzure, dalle pusillanimità, dalla vigliaccheria di secoli» – insisteva – «è necessaria una ecatombe colossale per rinvigorirla, per farne una ‘unità d’acciaio’. Guai ai pacifici! È necessario che gli italiani siano condotti dall’esasperazione a nutrirsi delle cervella del proprio nemico» (sic).[1]
L’esperienza bellica incide profondamente nella sfera morale di un Paese. La coesione che il giovane Regno d’Italia guadagnò con la Grande Guerra gettò le basi sostanziali di un concetto di ‘Nazione’ presente nelle menti ancora di pochi. Ciò non toglie che la pars destruens richieda la pietas necessaria di fronte al sacrificio della vita della gioventù combattente, anche avversaria. Charle Montague afferma che la furia (e non il valore) è propria di chi non combatte: tale osservazione parrebbe pertinente alla figura del Poeta Soldato, impegnato più in senso estetico che propriamente militare. La conferma a ciò traspare dalle parole dello stesso D’Annunzio:
Dovetti confessare al Poeta a che punto i suoi amici soffrissero nel vederlo ad ogni istante rischiare la propria vita: che non volasse più, per piacere! Che si riposasse finalmente, aveva dato al suo paese tutto quello che i migliori cittadini potevano dare alla patria, la sua anima e il suo spirito, la sua volontà, la sua energia, il suo sangue, la sua vita quasi … «Ma non la propria vita!» esclamò allora. «Come potete voi, che dite di essere mio amico, non desiderare una morte in combattimento, in cielo? A quale vecchiaia mi volete destinare? A quella di un uomo di lettere in mezziguanti che scriverà opere, seduto come un travet [figura di ‘colletto bianco’ schiavo del dovere] alla sua scrivania? Oh, no! Ho assaggiato troppo la vita temeraria, la vita sublime dello spazio e del vento, ho troppo goduto del pericolo, ho a oggi troppo bisogno di tentare, di osare! Amo con passione il volo. Vorreste da me che conducessi la vita di un comandante gottoso che firma carte? Mai mi sento più felice che lassù, lontano da tutte le povertà e i languori umani … E poi, se lo si può confessare, adoro la guerra. […] Non fosse per il sangue altrui che gronda, sarei tentato di aver paura della fine stessa della guerra».[2]
Il terribile amore per la guerra[3] che pervadeva il Poeta si arresta, umanamente, di fronte al sangue versato.
Le forze potentissime che si sprigionano dalle dinamiche del conflitto costituiscono invece per il Militare non un elemento di fascino a cui soggiacere bensì un fattore psicologico essenziale da gestire efficacemente: solo la consapevolezza del Dovere permette il distacco necessario al raggiungimento di un’affermazione indirizzata al disegno di nuovi sofferti equilibri.
L’estetica del pensiero strategico risponde a criteri altri da quelli dell’edonismo.
Gabriele D’Annunzio rimane un grande Poeta ma non fu un Soldato.
[1] T. Gallarati Scotti, Idee e orientamenti politici e religiosi al Comando Supremo: appunti e ricordi, Roma: Edizioni Cinque Lune, 1963, p.7 (in M.L. Suprani Querzoli, La Grande Guerra di Francesco Baracca, Forlì: CartaCanta, 2020, pp. 159 – 160).
[2][2] M. Boulenger, Chez D’Annunzio – a cura di A. Pietrogiacomi, prefazione di G. B. Guerri – Rimini: Odoya, 2018, pp. 40 – 41.
[3] Il riferimento è all’omonima opera di James Hillman.