Al Generale Eugenio De Rossi si deve la conoscenza dell’ambiente militare durante l’Età Umbertina: la sua autobiografia, infatti, accanto ai profili di figure divenute poi celebri, si sofferma ampiamente su fragilità e virtù che connotarono il mondo militare (italiano e straniero) a cavallo fra Ottocento e Novecento. Il suo si rivela quindi un contributo indispensabile per comprendere l’assetto mentale, morale e professionale, dell’Italia prossima ad entrare in guerra.
De Rossi, ad un certo punto della carriera, approdò felicemente fra i Bersaglieri: il suo dinamismo (provetto ciclista) e la capacità di coinvolgere con l’esempio i propri sottoposti denotavano in lui una rara sinergia fra equilibrio ed entusiasmo. Anche alla sua opera di intelligence l’Esercito dovette molto[1].
La grave ferita riportata durante le primissime azioni di guerra lo rese invalido, determinando così per lui la fine della partecipazione attiva al conflitto.
Varrà la pena riportare per esteso la descrizione del momento drammatico in cui De Rossi rimase colpito per poi concludere con alcune brevi riflessioni:
Tornai tra i miei bersaglieri, dissi brevemente essere venuta l’ora della prova, quella che il destino ha fissato per ognuno. Mi volsi poi a don Gilardi e lo invitai a far atto del suo ministero per i credenti e i miscredenti. […] I volti gravi ma fermi, la fierezza con la quale si drizzarono dopo l’assoluzione in articulo mortis mi dette la sicurezza della loro intrepida risoluzione. Avviai la pattuglia ufficiali, la compagnia di avanguardia e con essa mi incamminai.
Posi sul cappello l’aigrette bianca da colonnello: aveva brillato alla parete, si mostrasse ora al combattimento. […] Superammo altri 300 metri di dislivello. Tutto il mio essere era teso vero l’imminente scoppiar della fucilata, poiché il nemico non poteva tardare farsi vivo. […] Feci dare il segnale di allungare il tiro, ma non fu compreso, o compreso alla rovescia, perché invece cessò improvvisamente […]. [I]l silenzio dei nostri pezzi fu immediatamente seguito dal crepitare della fucileria nemica e dall’abbaiare delle mitragliatrici, entrate in azione furiosamente. Ma la truppa stette salda attorno agli ufficiali e continuò poi l’ascesa sotto la raffica mortale, accorrendo alla mia voce che incitava e chiamava superando, stentorea come poi mi dissero, il fragore degli spari.[2]
Una constatazione prima di proseguire nel racconto: l’impiego delle artiglierie in affiatamento con il procedere delle truppe si dimostra fin da subito un punto di grave fragilità. L’esempio di compensazione morale alle manchevolezze di ordine tecnico è encomiabile. La narrazione di quel momento terribile gravido di molte perdite è particolarmente efficace: la si riprenderà dal momento in cui le cose, per De Rossi, precipiteranno.
Conclusione: un attacco frontale oltre che sanguinosissimo non condurrebbe ad alcun risultato, perché sarebbe impossibile rimanere sulla posizione conquistata, dominata completamente dallo Sleme; conviene perciò attendere che cominci l’azione che, per l’alto, doveva svolgere la colonna di fanteria ed artiglieria da montagna verso lo Sleme stesso, per il momento concorrervi dimostrativamente. Spiegai questa decisione ai miei ufficiali. Insistendo particolarmente con Negrotto della necessità della sosta, parve persuaso. Lasciai la linea di fuoco per scendere ad una cinquantina di metri, in un punto donde si scorgeva il terreno che avrebbe dovuto percorrere la colonna aggirante e vedere altresì l’arrivo dei battaglioni chiamati in rinforzo […]. Non erano trascorsi dieci minuti che scoppiò vivacissimo il fuoco sul fronte, seguito dal grido di «Savoia!».
Era Negrotto che preso, suppongo, da un accesso di pazzia guerriera, volendo, ritengo, coprirsi di gloria e dimostrare che la baionetta è ancora oggi la regina della battaglia aveva ad un tratto ordinato il fuoco celere e senza dar tempo neppure a quel mezzo di agire, era partito all’attacco con il cappello sulla sciabola, seguìto dal suo battaglione. Quei valorosi non avevano toccato il fondo della dolina che già venivano falciati a mucchi: il resto dava indietro, sulla posizione di partenza.
Esasperato per la inutile e aperta disubbidienza, presi velocemente a salire sulla linea di fuoco e dimentico di ogni precauzione mi ingolfai in una zona battuta da mitragliatrici nemiche. Il cappellano mi avvisò del pericolo e mentre mi volgevo verso di lui per rassicurarlo, ebbi la sensazione di ricevere un forte pugno sul fianco destro. Subito le gambe mi si piegarono sotto.[3]
Volutamente non ci si soffermerà sulla gravità della ferita e sull’azione tanto ingenua quanto sconsiderata del Negrotto, né sull’agonia di quest’ultimo e sulle condizioni miserevoli in cui si trovò De Rossi, dato per spacciato. Sarà opportuno scorgere invece in questo frammento durissimo della Grande Guerra il passaggio storico fra il clima morale delle Guerre Risorgimentali e le istanze feroci e sconosciute poste dalla tecnologia, capaci di riformulare interamente le dinamiche del conflitto.
[1] Il riferimento è alla scoperta del Piano Conrad.
[2] E. De Rossi, La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, pp. 278 – 279.
[3] Ivi, p. 283.