Militari ebrei e Valor Militare
Giovanni Cecini
Fino a ottanta anni fa c’erano italiani ebrei,[1] da quel maledetto 1938 purtroppo solo ebrei italiani. L’inversione grammaticale tra sostantivo e aggettivo, che potrebbe sembrare banalmente ininfluente, ha invece un significato sostanziale, potremmo dire esistenziale. Per di più esso ha una causa storica ben precisa o meglio due nomi e due cognomi ben precisi: Benito Mussolini e Vittorio Emanuele III di Savoia. Proprio il penultimo re d’Italia – ritornato di recente suo malgrado agli onori della cronaca per via della traslazione in Patria della propria salma – insieme al ventennale capo del Governo sono i protagonisti indiscussi di questo libro. Ciascuno a suo modo, il “re soldato” e il più noto bersagliere d’Italia, hanno esaltato il valor militare nel nostro Paese ed essi stessi un giorno decisero che gli ebrei sarebbero stati tagliati fuori da ogni considerazione inerente il valor militare.
Ma andiamo per gradi, analizzando un arco temporale, che abbraccia circa un secolo di storia italiana e che ha influito in modo epocale nel complesso rapporto tra Nazione e popolazione di fede ebraica, residente nella Penisola. Gli israeliti abitano nei territori compresi tra le Alpi e la Sicilia dall’epoca dei sette re di Roma. Si tramanda infatti che fossero stati degli ebrei a fornire gli abiti dopo il ratto delle Sabine, che sempre essi chiesero di piangere sulla salma di Giulio Cesare e che fossero circa 50 mila all’epoca di Augusto. Solo in tempi molto successivi la Chiesa cattolica e non l’Impero romano iniziò a perseguitare i cosiddetti “giudii” e rinchiuderli nei ghetti. Stante il periodo di assolutismo religioso, in Italia una prima ondata di affermazione civile dei sudditi ebrei degli Stati preunitari si ebbe con il periodo napoleonico, per poi tramontare con il 1815 e con il rigurgito conservatore della Restaurazione.
In Italia la situazione mutò ancora una volta a partire dal 1848. Il re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia, a latere della concessione dell’omonimo Statuto costituzionale, allargò la base dei diritti civili e politici anche ai sudditi israeliti del proprio piccolo regno. La concessione di tali prerogative era del resto il frutto di una piena adesione delle comunità piemontesi e liguri verso quegli ideali, che a partire dai sommovimenti degli anni Venti, Trenta e Quaranta dell’Ottocento, si stavano concretizzando con i nomi di libertà, indipendenza e unità dell’Italia. Molti erano stati gli ebrei, che rimasti affascinati dalla figura di Giuseppe Mazzini, avrebbero poi continuato il proprio percorso patriottico sotto le insegne dei Savoia. In questo panorama di apertura civile non fece eccezione la possibilità di accedere proprio al mestiere delle armi, sancito dal Decreto luogotenenziale 15 aprile 1848 n. 700, firmato dal principe Eugenio di Savoia-Carignano per conto del sovrano.
Da quel momento in poi anche gli ebrei del Regno di Sardegna poterono quindi partecipare alla vita militare dello Stato e contribuire in maniera regolare e palese agli impegni bellici dell’Armata sarda. Fu così che proprio a partire dalla 1ª guerra d’indipendenza l’adesione ebraica alle campagne risorgimentali divenne un tassello importante della vita delle singole comunità d’appartenenza. In base a quanto riportato dalle cronache del tempo o da altri autori successivi, furono 235 i volontari ebrei nelle battaglie del biennio 1848-49.[2] I bersaglieri israeliti dell’8ª compagnia salvarono alla Bicocca la bandiera reggimentale; altri correligionari si distinsero nella protezione del medesimo Carlo Alberto a Milano.[3] L’ebreo mantovano Giuseppe Finzi, per ordine del Governo provvisorio lombardo fu il riorganizzatore del battaglione Ceccopieri (che aveva disertato dall’esercito austriaco), continuando la guerra accanto agli uomini di Garibaldi. In quello stesso periodo a Firenze la Guardia Nazionale era comandata dal capitano Gioacchino Basevi, ebreo come i 45 che con il battaglione toscano presero parte alle battaglie di Curtatone e Montanara. Tra di essi vi era anche Isacco Artom, diplomatico, futuro segretario di Cavour e primo senatore ebreo. In quegli stessi mesi l’apporto israelitico si fece sentire poi nelle insurrezioni avvenute a Venezia e a Roma, sia nelle figure di spicco sia tra i semplici combattenti: nelle file della Repubblica Romana su un totale di 3.000 volontari vi erano 350 ebrei.[4] Nella guerra di Crimea, oltre all’onnipresente pluridecorato tamburino volontario Angelo Vitale, che raggiungerà il grado di maggiore, vi era tra gli altri Angelo Rovighi, il cui nome fu inciso sul monumento piemontese di guerra nei pressi di Balaclava sul Mar Nero.[5]
Dei 1.089 di Quarto fecero parte una decina di ebrei, tra cui 2 o 3 ufficiali; il capo dei sottoscrittori per il «milione di fucili» per i garibaldini fu il già attivo Giuseppe Finzi, che poi diventerà il primo deputato ebreo della storia d’Italia. Nel 1866 i volontari israeliti erano 174 e non mancarono nemmeno a Mentana[6] o a Porta Pia dove sarebbero stati non meno di 236.[7] La liberazione di Roma risultò emblematica: la 5ª batteria del 9° reggimento artiglieria che aprì la breccia delle mura capitoline era comandata dal capitano ebreo Giacomo Segre,[8] come israelita fu il tenente dei bersaglieri Riccardo Mortara, che comandò il primo assalto alla stessa breccia.[9] Pio IX aveva minacciato di scomunicare il primo soldato italiano invasore; ironia della sorte l’anatema non ebbe effetto: il soldato era «giudio».[10]
Così l’unità d’Italia divenne non solo il modo per unire e cementare l’identità nazionale delle diverse popolazioni preunitarie, ma divenne anche l’occasione sociale per affrancare le libertà personali e tra queste proprio quelle degli ebrei, che in molte regioni della Penisola erano ancora oggetto di forti limitazioni nella propria affermazione come uomini e cittadini. Si può quindi dire che a partire dal 1848 si strinse una sorta di patto tra ebrei e casa Savoia, che garantì ai primi l’occasione – attraverso anche il concorso alle esperienze belliche e al valore militare – di dimostrare al nascituro Stato italiano la propria piena adesione e partecipazione ai destini comuni della Patria.
In questo modo vi fu un’ampia e più che rappresentativa dimostrazione di attaccamento ai destini nazionali con la scelta delle nuove generazioni di ebrei – ormai italiani come tutti gli altri – di dedicare la propria attività professionale verso la vita sociale e non solo ed esclusivamente nelle attività commerciali o del credito. L’unità d’Italia aprì così le porte delle amministrazioni pubbliche e dell’attività politica ad esponenti, che sarebbero poi stati di punta nella vita nazionale. Tanto per fare alcuni nomi, basti citare Giuseppe Ottolenghi ministro della Guerra tra il maggio 1902 e il settembre 1903, Ernesto Nathan in giovinezza già intimo amico di Mazzini e in età matura sindaco di Roma tra il 1907 e il 1913, per non parlare di Luigi Luzzatti e Sidney Sonnino, che ricoprirono i principali e più alti incarichi governativi dell’epoca liberale.
Questa rapida carrellata ci spiega quindi come in Italia non solo non vi fosse una questione ebraica, ma che non vi fossero neppure lontanamente i sentori affinché essa potesse affiorare. I retaggi antigiudaici rimasero sempre d’appannaggio di una minoranza clericale e che riportava le sue origini ai pregiudizi e alle persecuzioni medioevali o di antico regime, che – con la proclamazione di Roma capitale – non avevano più nessun referente istituzionale o politico.
Parlando di vita sociale e di ampia adesione alla componente militare del Regno, è importante aggiungere come la componente ebraica fosse in media più dotta ed emancipata della restante parte della popolazione italiana. Questa condizione era in massima parte spiegata dalla provenienza urbana e borghese o piccoloborghese degli ebrei, ma soprattutto per via dell’alta alfabetizzazione diffusa in una comunità religiosa, che basava la propria identità sulla lettura del proprio libro sacro. In questo modo, oltre alla tradizionale vocazione per le arti mediche, i tanti ebrei che andarono a ingrossare le file delle Forze Armate nazionali lo fecero in modo accentuato nel rango degli ufficiali e nelle cosiddette armi dotte: l’artiglieria e il genio. Anche le guerre coloniali dell’ultimo quarto di secolo videro la distinzione di diversi militari israeliti. Tra essi il capitano Adriano Issel, che meritò la medaglia d’argento al valor militare per i fatti di Agordat e che morì all’Amba Alagi, dopo aver combattuto le campagne dell’87, dell’88, del ‘90, del ‘91 e del ‘95.
Nel mentre continuava e cresceva il pieno attaccamento ai Savoia, i cui re soprattutto dopo Porta Pia potevano vantare un pedigree anticattolico e quindi più che favorevolmente benevolo verso i credi, che si ponevano in competizione al Papa. Non fu quindi un caso che Vittorio Emanuele III, sul trono da meno di quattro anni, il 2 luglio 1904 fece visita tra la folla acclamante al nuovo e ancora non ultimato Tempio di Roma. Il sovrano ascoltò il solenne discorso patriottico di Angelo Sereni, presidente della Comunità, che in quell’occasione fu nominato grande ufficiale della corona d’Italia.[11]
Nonostante questi esempi di piena complementarietà tra vita nazionale e quella religiosa, tuttavia proprio a partire dalla fine dell’Ottocento iniziò sostenuto un distacco di una parte degli italiani ebrei dalla fede tradizionale. A cavallo dei due secoli si conta infatti un allontanamento dalle comunità d’appartenenza di circa il 30%. La spiegazione – comune del resto anche alle confessioni cristiane – è da ricercare tra l’altro nel grande impegno civile, quasi fideistico, dimostrato da taluni; la formazione degli stati nazionali comportò robusta infatti un’alternativa fede per lo Stato, in contrapposizione a quella tradizionale verso una divinità spirituale. Non fu quindi neppure un caso che quello fosse il periodo in cui la Massoneria trovò una grande adesione anche tra gli ebrei, testimoniata dal fatto che il citato Nathan potesse divenire gran maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1896 al 1904 e dal 1917 al 1919.
Tale secolarizzante emancipazione non avrebbe una grande importanza sull’aspetto militare – oltre al fatto che la Massoneria fosse ben rappresentata anche nelle Forze Armate – se non avesse comportato un cambiamento anche nella rappresentazione dell’italiano ebreo di fronte a un correligionario di altro Paese. Tale aspetto emerse e preoccupò le istituzioni religiose israelitiche d’Italia in occasione della guerra italo-turca, combattuta in Libia e nel Dodecaneso. Per la prima volta i soldati italiani e quindi anche quelli di religione ebraica ebbero l’occasione di combattere contro ebrei stranieri. In realtà la cosa non fu una novità assoluta, visto che l’Impero asburgico aveva una componente ampia di cittadini israeliti; tuttavia soprattutto la stampa ebraica della Penisola riportò in quel momento storico con una certa preoccupazione il fatto che gli italiani ebrei combattessero propri correligionari, senza che ciò avesse creato troppi scrupoli morali di fratricidio.
Nonostante questi timori, nella quotidianità tale problematica – che si sarebbe mostrata nella propria maggiore evidenza proprio durante la Prima guerra mondiale, dove la componente ebraica degli Imperi centrali venne mobilitata anche sul fronte italiano – fu vissuta con una certa serenità, visto che la citata maturità secolarizzante aveva derubricato il problema a mera questione religiosa. Di conseguenza, per chi era impegnato in guerra per rendere l’Italia più grande e prospera, tutto ciò interessava poco o nulla. Anzi, proprio durante il conflitto di Libia, al profilarsi di accuse di sionismo internazionale indirizzate da frange nazionaliste dell’opinione pubblica, un gruppo di ebrei romani volle ribadire l’attaccamento della comunità ai destini della Patria, rispondendo in questo modo al direttore del «Giornale d’Italia»: «Sarebbe per noi di compiacimento se una volta tanto fosse da qualcuno rilevato che vi sono anche numerosi ebrei fra i prodi difensori del nome della nostra cara Italia… Molti ebrei romani, ma anzitutto italiani».[12]
Fu così che l’impegno profuso in Libia venne ricompensato per gli italiani ebrei con due cavalierati dell’ordine militare di Savoia, 6 medaglie d’argento al valor militare, 17 medaglie di bronzo e un ampio numero di encomi solenni.[13] La guerra italo-turca tuttavia fu solo un frugale antipasto per il valor militare profuso dagli italiani ebrei in guerra. La cosiddetta «ora della prova», ossia la testimonianza di come la partecipazione degli israeliti nelle file del Regio Esercito e della Regia Marina potesse divenire massima, fu la Prima guerra mondiale. La partecipazione degli italiani ebrei al conflitto fu ingente, potendo parlare di circa 5.000 uomini e un ampio campionario di episodi eroici: circa 400 morti, tanto da meritare numerose decorazioni al valor militare:[14] 5 medaglie d’oro (Giulio Blum, Roberto Sarfatti, Guido Brunner, Giacomo Venezian e Dario Vitali), 207 medaglie d’argento, 238 medaglie di bronzo e 28 encomi solenni. Notevole fu il numero degli irredenti, soprattutto triestini.[15] Dopo varie polemiche, il primo caduto della guerra fu dichiarato un israelita, il capitano Michelangelo Ovazza del 41° reggimento fanteria, caduto il 31 maggio 1915 sul Monte Mrzlivrh.[16] Tra i decorati ebrei vi erano anche il più giovane e il più anziano tra i combattenti: i già citati Roberto Sarfatti (17 anni) del 6° reggimento alpini e Giulio Blum (61 anni) del 32° reggimento artiglieria da campagna, entrambi volontari. All’età di settant’anni anni, il barone Giorgio Enrico Levi si arruolò come soldato semplice all’inizio del conflitto, terminando con la promozione per merito di guerra al grado di capitano e una medaglia d’argento al valor militare.[17]
Infine nella Trieste appena liberata, se il vescovo locale Andreas Karlin si era rifiutato di onorare i soldati italiani con una funzione sacra di ringraziamento nella cattedrale di San Giusto, essa venne celebrata nel Tempio dove il rabbino Israele Zolli fu il primo a salutare i liberatori con un Te Deum alla presenza del generale Carlo Petitti di Roreto; allo stesso modo sempre nel Tempio triestino alla presenza delle autorità civili sarà commemorata nel gennaio del 1920 l’annessione della città giuliana, come dimostrazione dei sentimenti patriottici della comunità israelitica locale, che nella nuova Italia unificata rappresentava per numero il terzo agglomerato ebraico.[18]
Nel suo complesso la Grande Guerra enumerò tra l’altro 17 generali e 193 ufficiali superiori israeliti,[19] mentre nel 1920 si contavano nelle amministrazioni dello Stato 3.259 ebrei, dei quali 267 nel ministero della Guerra (comprendente allora anche l’Aeronautica) e 117 in quello della Marina.[20] Da citare poi che le autorità militari del Regno autorizzarono già nel giugno 1915 la costituzione di un apposito Rabbinato militare, che nell’intero periodo bellico annoverò una dozzina di maestri d’Israele, adibiti all’assistenza e al supporto spirituale, sanitario e patriottico dei propri correligionari mobilitati.[21]
L’integrazione tra ebrei e altri italiani fu ormai cosa normale anche nell’impresa di Fiume, dove Gabriele D’Annunzio, nell’elogiare i suoi commilitoni ebrei, condannò l’antisemitismo.[22] Infatti la Reggenza del Carnaro nel suo ordinamento garantiva la piena cittadinanza senza distinzioni di stirpe, sesso e religione: «Ogni culto religioso è ammesso, è rispettato e può edificare il suo tempio».[23] Tra i legionari fiumani vi erano 79 israeliti,[24] mentre un fulgido esempio dell’arditismo scaturito dalla trincea veniva rappresentato dal sottotenente ebreo Umberto Beer. Questi durante la guerra era stato un fidato subalterno dell’allora maggiore Giovanni Messe al IX reparto d’assalto, era stato ferito cinque volte e decorato di quattro medaglie d’argento al valor militare. Al termine delle ostilità volle portare nella vita civile quello spirito che lo aveva animato in guerra e fu tra i fondatori dell’Associazione fra gli arditi d’Italia, prima di essere richiamato nell’Esercito, quando una nuova menzione al valore venne tramutata in promozione per merito di guerra, valendogli anche il passaggio al servizio permanente effettivo nei bersaglieri.[25]
Tale situazione di massima adesione reciproca e complementarietà tra cittadini ebrei e Nazione italiana non ebbe perturbazioni con l’avvento del fascismo. Anzi proprio il movimento e poi partito di Benito Mussolini ebbe una certa propensione ad accogliere gli ex combattenti di fede ebraica, perché tra i più attivi per senso patriottico. All’atto pratico l’anticlericale Mussolini e i suoi seguaci, di varie tendenze e origini, non solo erano estranei alle differenze etnico-religiose, ma erano attratti solo da ciò che li avrebbe avvantaggiati nelle loro aspirazioni di potere. All’epoca il futuro duce non si pose affatto il problema religioso e meno che mai quello razziale, nella scelta dei suoi sostenitori e militanti. Lo stesso Italo Balbo, in quanto ferrarese, aveva molti contatti e amici tra gli israeliti. Ecco la presenza di 5 ebrei tra i 119 fondatori del PNF nella riunione milanese del 23 marzo 1919 a piazza San Sepolcro; la sala dell’Associazione dei commercianti, per lo storico evento, fu procurata dallo stesso sansepolcrista Cesare Goldmann presidente dell’associazione proprietaria,[26] come ebrei furono alcuni tra i sostenitori dei primi anni, per non parlare della mussoliniana «ninfa egeria» Margherita Grassini Sarfatti, madre del Roberto eroe della Grande Guerra. In molte occasioni – sempre ponderate dalla contingente opportunità politica – Mussolini non tralasciò neanche l’esaltazione palese dei camerati ebrei, come nel comizio a Milano del 1917 in cui elogiando il sacrifico dei volontari triestini, volle porre sugli altari l’ebreo Giacomo Venezian, o in quello del 13 gennaio 1921 in cui Sarfatti era immolato come simbolo dell’eroismo giovanile italiano.[27] Nel suo primo discorso alla Camera, Mussolini riconobbe poi che «il sacrificio di sangue dato dagli ebrei italiani in guerra è stato largo e generoso»[28] e sulle colonne del suo quotidiano aggiunse anche che «…in Italia non si fa assolutamente nessuna differenza fra ebrei e non ebrei, in tutti i campi, dalla religione, alla politica, alle armi, all’economia… La nuova Sionne, gli ebrei italiani, hanno qui, in questa nostra adorabile terra, che del resto, molti di essi, hanno difeso, eroicamente, col sangue».[29]
Tra quelli che poi verranno innalzati agli altari come martiri della causa e della rivoluzione fascista ci furono tre ebrei morti negli scontri contro i socialisti tra il 1919 e il 1922 (Duilio Sinigaglia, Gino Bolaffi, Bruno Mondolfo).[30] Non minore adesione vi fu poi in occasione della Marcia su Roma, dove – se il comandante della divisione a difesa della Capitale era l’ebreo Emanuele Pugliese – tra gli attivi seguaci di Mussolini vi era ben 230 israeliti (227 italiani e 3 stranieri), tra cui spiccava Aldo Finzi (battezzato, ma d’origine ebraica), pluridecorato pilota della compagine aviatoria di D’Annunzio. Più in generale risultarono 746 quelli iscritti all’epoca al Partito Nazionale Fascista oppure al Partito Nazionalista, fusi insieme nel marzo del 1923.[31]
La presa del potere del fascismo fu poi propedeutica a rilevanti incarichi di ebrei nella compagine statale: lo stesso Finzi divenne prima sottosegretario agli Interni e poi vicecommissario all’Aeronautica; il prefetto Dante Almansi fu promosso vicecapo della polizia; Maurizio Rava divenne vicegovernatore della Libia, governatore della Somalia e generale della Milizia; infine Guido Jung, già deputato, diverrà nel 1932 addirittura ministro delle Finanze.
Nel frattempo la collaborazione tra regime e gerarchie militari, in un continuo rapporto amore-odio, si fece sempre più solido e anche in ciò le eventuali differenze religiose non inficiarono mai con la gestione stessa delle Forze Armate da parte degli ambienti ministeriali: le ultime promozioni del generale Guido Liuzzi furono volute dallo stesso Mussolini in contrasto con alcuni generali “razzisti”.[32] Per di più, dopo l’ascesa di Adolf Hitler al cancellierato tedesco, a ribadire questa condizione imperturbata fu l’attitudine della Penisola a offrirsi per la sua tolleranza come una delle mete predilette dagli ebrei tedeschi, obbligati a emigrare. Del resto i sentimenti antitedeschi non erano minoritari in Italia: la tradizione del Risorgimento e l’esperienza della Grande Guerra erano terreno fertile in questo senso. In quel periodo, Mussolini non nascose nemmeno la sua profonda cordialità nei confronti dei sionisti, purché si trattasse di questioni internazionali e in particolar modo della possibilità per Roma di accaparrarsi il protettorato o il mandato in Palestina a danno di Londra; pertanto la camaleontica e duttile fisionomia che il dittatore volle dare alla politica estera italiana lo portò a essere sionista o antisionista, alternativamente, se doveva rendersi amico dell’ebraismo internazionale, della Gran Bretagna o dei Paesi arabi e «insieme minacciare gli ebrei italiani delle peggiori conseguenze se avessero mantenuto una doppia identità».[33] Lo stesso Ludwig testimoniò nei suoi famosi colloqui con il dittatore come «nessun italiano può essere antisemita per ragioni razziali o spirituali».[34] «L’antisemitismo non esiste in Italia», dichiarò Mussolini. «Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente. Essi occupano posti elevati… nell’esercito… Tutta una serie sono generali; comandante della Sardegna è il generale Modena, un altro è nell’artiglieria».[35]
La politica altalenante di Mussolini nei confronti dei sionisti ebbe anche un risvolto molto importante per la successiva formazione militare degli ebrei. Alla Scuola marittima di Civitavecchia fu aggiunta una speciale Section juive, destinata ad accogliere elementi israeliti come allievi, che nel secondo dopoguerra formeranno l’avanguardia della Marina militare del futuro Stato d’Israele. L’idea di una scuola di navigazione, che accogliesse ebrei, era sorta già nel 1930 fra alcuni giovani delle frange revisioniste palestinesi, che contrastavano le decisioni geopolitiche anglofrancesi, sottoscritte con il trattato di pace di Sèvres nel 1920.
Questi militanti erano in massima parte provenienti dall’Europa centro-settentrionale, confluiti nel movimento «Bethar» (sigla di «Berith Joseph Trumpeldon», patto di Joseph Trumpeldon, combattente nella lotta in Palestina), un’organizzazione che si prefissava tre obiettivi principali: preparazione educativo-culturale, allenamento all’autodifesa fisico-sportiva e formazione professionale. Tale iniziativa, promossa dal movimento sionista antibritannico di Wladimir Zeev Jabotinsky e dal professor Isacco Sciaky, rientrava nei piani di amicizia mussoliniana verso quella frangia revisionista del sionismo intenzionata a eliminare il mandato inglese sui territori palestinesi. I primi corsi speciali per gli ebrei, «purché siano da almeno due anni iscritti al Betar [sic]»,[36] si svolsero nel dicembre del 1934; lo stesso Jabotinsky, ostile verso gli inglesi sin dalla fine della Grande Guerra, ne fu l’animatore e il coordinatore, mentre il capitano Nicola Fusco, giovane ufficiale della marina mercantile italiana, assunse la direzione effettiva dei corsi.[37] Alla fine del primo di questi su 29 allievi ebrei, 24 superarono gli esami di teoria;[38] avendo conseguito il titolo di capitani di medio corso, essi furono subito assunti in servizio in varie società di navigazione. Al secondo corso parteciparono circa 60 allievi.
Jabotinsky cercò sempre di tenere in considerazione il fatto di essere in Italia e per questo esortò gli allievi stranieri non solo a studiare l’ebraico, ma anche l’italiano, perché sarebbe stata la lingua in cui si sarebbero svolti gli esami[39] e perché le cerimonie si chiudevano sempre al canto di inni fascisti e religiosi. Lo spirito ebraico non passò comunque mai in secondo piano; lo stesso Jabotinsky ebbe modo di confermare che «la presenza dei Sacri Rotoli della Legge, vi ricorda che la vostra nave è anche il vostro Tempio, perché questo è il grande compito d’Israele, di fare della vita una religione». Per una gioventù a cui «è stata tolta od è contesa una patria, e che orienta la propria attività verso l’idea e la realizzazione dello Stato Ebraico», l’obiettivo rimaneva sempre quello di impedire che «la scaltrezza ben nota dell’Inghilterra»[40] continui a sfruttare il mare e la terra di Palestina.
In forte antagonismo con Londra sul Medio Oriente il Governo italiano, le istituzioni locali di Civitavecchia e tutti gli ebrei italiani (sionisti e non), con entusiasmo approvarono questa attività, che durò fino all’anno 1937-38, periodo in cui era in atto il cambiamento di rotta nella politica fascista verso gli ebrei. Si concludeva così il principale rapporto tra regime e sionisti, che sarebbe sfociato in analoghi episodi nell’istruzione aeronautica e militare nel suo complesso.[41]
Nel frattempo, proprio a metà degli anni Trenta anche in Italia riprese all’interno delle comunità israelitiche italiane una riflessione sulla propria collocazione in ambito internazionale. Ne nacque un acceso dibattito, che incluse oltre al modo di approcciarsi come italiani al rafforzamento dello Stato dittatoriale, anche e soprattutto il rapporto d’identità tra il concetto di “italianità” e quello di “fascismo”. Questo accadeva perché le spinte sioniste sovranazionali in qualche modo influivano anche su taluni italiani ebrei, oltre al fatto che una parte della stampa anche nazionale faceva del becero qualunquismo sul tema. In questo modo il dibattito interno fu particolarmente sentito. Emerse in modo molto energico una corrente proveniente da Torino, a cui facevano capo il generale Guido Liuzzi e il centurione della Milizia Ettore Ovazza. I due esponenti, campioni di un ebraismo patriottico e pienamente fascista, ebbero una vita travagliata all’interno della vita comunitaria, incarnata dall’Unione delle comunità israelitiche italiane. Facendosi forti di una rivista loro creatura dal titolo «La Nostra Bandiera», in occasione della guerra d’Etiopia si posero come paladini dell’adesione completa alle imprese belliche del regime, chiedendo alle istituzioni israelitiche di essere meno timide e aderire con più convinzione alla vita totalitaria del Paese. Le continue accuse furono mal sopportate dalla componente maggioritaria dell’Unione delle comunità, tanto che per protesta nel maggio 1936 la minoranza torinese si dimise, creando una spaccatura all’interno della comunità nazionale.
Nonostante tali divergenze sul proprio sentirsi italiani, la guerra d’Etiopia aveva segnato un ulteriore passo verso il consenso anche di marca ebraica verso il regime. Si conta che almeno 150 ebrei, tra cui il generale Adolfo Olivetti comandante della 5ª divisione Cosseria, parteciparono alla campagna africana, annoverando anche la riedizione del Rabbinato militare con 2 maestri di culto, uno per ciascuno dei due scacchieri d’operazione militare.[42]
Tuttavia le cose iniziarono a cambiare proprio con la creazione dell’Impero fascista. Il massimo del consenso per Mussolini comportò una serie di provvedimenti ancora più draconiani per la Nazione, che successivamente vennero definite “cazzotti allo stomaco”. Per quel che riguarda la componente ebraica tre indirizzi politici in successione fecero incrinare nel giro di due anni la pluridecennale simbiosi tra cittadini israeliti e Nazione italiana: il razzismo verso i sudditi neri, l’accelerazione per uno Stato totalitario e l’alleanza con la Germania nazista.
Come ha acutamente commentato Arturo Carlo Jemolo già nel 1974: «le leggi razziali erano conseguenza necessaria della politica dell’Asse, che già prima della guerra si esplicava in un continuo scambio di visite di Ministri, di funzionari, [[43]] di reduci, di mutilati. Sarebbe stato davvero difficile pensare che in guerra generali ed ammiragli tedeschi si trovassero a collaborare con colleghi italiani ebrei (era ebreo il più provetto degli ufficiali del Genio navale italiano del tempo [Umberto Pugliese]). Non occorreva una richiesta esplicita della Germania».[44]
Si era insomma posta la necessità di creare un nuovo nemico da combattere: il duce inacerbì la politica di regime e l’opinione pubblica verso la necessità di additare proprio gli ebrei come la componente affarista, che aveva anche contribuito a punire l’Italia con le sanzioni delle democrazie occidentali. Se nell’immaginario collettivo l’ebreo capitalista era il burattinaio che tirava i fili a Londra e Parigi, mentre quello bolscevico tirava quelli a Mosca, la crociata contro la Gran Bretagna, la Francia e l’Unione Sovietica nella guerra civile spagnola fu l’apoteosi di questo scellerato discorso. In questo modo venne del tutto silenziata la partecipazione di italiani ebrei come volontari persino nella compagine franchista, visto lo spirito dogmatico-confessionale dell’impresa anticomunista e antioccidentale.
In questo clima di caccia alle streghe, a partite dalla fine del 1937 la politica di Mussolini si accostò gradualmente all’individuazione, alla classificazione degli ebrei italiani e stranieri e allo studio per estrometterli dalla vita civile della Nazione. Per coerenza a questi nefasti destini, anche le Forze Armate si adeguarono a tale deprecabile condotta. Prima in maniera larvata, poi a colpi di circolari ministeriali, fino ad arrivare alla vera e propria legislazione antiebraica, qualsiasi militare dichiarato “di razza ebraica”, venne espulso non solo da quello che rappresentava l’unico modo di sostentamento, ma soprattutto da quello che per molti era stata una missione, nonché il sentimento più alto per sentirsi legati alla propria Patria.
Mussolini per far sembrare meno doloroso l’antisemitismo di Stato, oltre allo slogan da balcone «discriminare e non perseguitare», inventò proprio la categoria discriminati; questi ultimi – a seguito di un’attenta analisi degli organi competenti sulle proprie esperienze e documentazioni – per meriti di fronte alla Patria o al regime avrebbero potuto ottenere delle esenzioni, rispetto ai divieti introdotti. Come accennò lo stesso Mussolini: «La discriminazione non è nei nostri confronti: è nei confronti degli altri ebrei».[45] I “discriminati” (seppure sempre di «razza ebraica») insomma erano una via di mezzo tra gli «italiani di razza ariana» e il resto degli «italiani di razza ebraica», da colpire senza esitazione nei propri diritti politici, civili ed economici. Come amaramente ha commentato Michele Sarfatti, la normativa avrebbe collocato «i “meritevoli” in una sorta di ghetto con lustrini destinato a esaurirsi nel tempo, portando l’intera condizione ebraica italiana a coincidere sempre più col vero e proprio ghetto – durissimo – riservato ai non “meritevoli”».[46]
La prima norma, che introdusse limitazioni anche ai militari, venne discussa nella seduta del Gran Consiglio del fascismo del 6-7 ottobre 1938: la «Dichiarazione della razza». Nella bozza iniziale del documento erano annoverati tra i “discriminati”: i componenti delle famiglie dei caduti, dei mutilati, degli invalidi, dei feriti, dei decorati al valor militare, dei volontari delle guerre libica, mondiale, etiopica o spagnola.
Durante la riunione si formarono due schieramenti: quello degli intransigenti e quello – capeggiato da Italo Balbo – di coloro, che avrebbero concesso maggiori favori agli ebrei patrioti. Durante la discussione Balbo, De Bono e Federzoni si batterono affinché all’interno della categoria dei discriminati fossero inclusi tutti i combattenti senza ulteriori distinzioni. Un Balbo molto aggressivo, nell’intenzione di dare peso almeno alle croci al merito di guerra degli ebrei, non mancò di attaccare lo stesso Mussolini: «Tu stesso, Duce, hai avuto la croce di guerra, e non la medaglia al valore. Se fossi ebreo, non saresti discriminato!»[47] In conclusione, i tre oppositori riuscirono infatti a far inserire i combattenti decorati di croce al merito di guerra tra i discriminati.[48] Nella versione definitiva cambiò anche il punto riguardante l’impossibilità per i “non discriminati” di prestare il servizio militare, che non suonava più come un’esenzione ma come un divieto, laddove affermava che gli ebrei non avrebbero più potuto «prestare servizio militare in pace e in guerra».
Nella sostanza tutto ciò però poco importava, perché «le discriminazioni non contano»[49] come disse lo stesso duce a Ciano, in una pausa della seduta, facendo come al solito il doppio gioco. Queste parole, come se ce ne servisse la riprova, mostrano ancora una volta come la svolta mussoliniana all’antisemitismo sia dipesa solo da logiche di demoniaco machiavellismo e non da convinto spirito di superiorità della “razza italica”, peraltro assolutamente assente nel Mussolini uomo politico, che dal congresso di Monaco si trovò definitivamente sprofondato nel più avvilente servilismo nei confronti dei tedeschi.
A poco servirono in tutta Italia le testimonianze di fedeltà dei militari ebrei alle istituzioni, come a nulla servirono le flebili obbiezioni di Pio XI nei riguardi della validità dei matrimoni misti o di Vittorio Emanuele III. Il comportamento del re-soldato fu comunque assolutamente deprecabile, proprio perché acconsentì senza protestare a quella folle epurazione anche nelle due uniche istituzioni che gli erano rimaste ormai fedeli: l’Esercito e la Marina. Sin dal giorno successivo alla fatidica seduta, il ministero della Guerra, in linea con le circolari preparatorie già fatte diffondere, dispose che erano da considerarsi di razza ebraica: i nati da genitori entrambi ebrei; i nati da padre ebreo e madre straniera; i nati da matrimonio misto che professino religione ebraica.[50]
A fine ottobre per gli istituti di formazione delle Forze Armate, dove i preparativi erano stati avviati già da mesi, si decise «l’immediato allontanamento degli allievi di razza ebraica dalle scuole militari»,[51] perché luogo di formazione della successiva classe degli ufficiali. Fu dibattuta l’opportunità di applicare i “temperamenti” del Gran Consiglio nelle scuole militari, ossia la possibilità di evitare l’esclusione a quei cadetti e allievi le cui origini ebraiche fossero attenuate da meriti militari o civili; queste eccezioni avrebbero creato però non solo difficoltà – riammissione di alcuni giovani recentemente allontanati – ma anche e soprattutto un’incoerenza di fondo nella bieca logica del rinnovamento razziale: «l’ufficiale è insegnante e educatore per eccellenza nella grande scuola dell’esercito».[52] Onde evitare tali inconvenienti, Mussolini accettò la proposta di «tirare diritto»,[53] disapplicando così quelle attenuazioni inserite nella «Dichiarazione della razza». In quella circostanza non ci si volle ricordare che proprio da quelle scuole, nelle quali ufficiali e sottufficiali israeliti si erano formati, era uscita la nuova generazione che aveva combattuto valorosamente per il regime in Africa e in Spagna.[54]
Contro queste iniziative, l’Unione delle comunità israelitiche, tramite il suo presidente Aldo Ascoli, chiese al ministero di equiparare «lo stato di fatto allo stato di diritto per coloro che avevano i titoli per essere insigniti della croce di guerra»,[55] ma che poi non avevano provveduto a inoltrare domanda nei termini stabiliti. Ciò avrebbe voluto premiare anche quei feriti e valorosi militari che avevano meritato un encomio solenne nella Grande Guerra oppure per quelli della guerra di Libia, quando la croce non era stata ancora istituita. Altresì chiese di inserire nella categoria “volontari” anche coloro che avevano presentato domanda per l’Africa Orientale o per la Spagna e poi per vari motivi non avevano raggiunto i luoghi di combattimento. Particolare attenzione inoltre venne chiesta per tutti i militari, che avevano prestato il loro servizio con fedeltà e onore, la cui esclusione sarebbe significata una sorta di degradazione, e per i più giovani ufficiali di carriera o di complemento che per età non avevano potuto partecipare alle guerre.
Il presidente Ascoli poi concluse che, escludendo tutti questi italiani in divisa dalla qualifica di volontario, ciò sarebbe significato per loro essere ridotti in uno stato giuridico persino inferiore a quello dei sudditi dell’Impero, che invece potevano concorrere alle formazioni militari coloniali e che proprio in quei mesi stavano ricevendo anche le stellette al bavero. Invece proprio questo era l’obbiettivo dei piani di Mussolini.
Nel frattempo un aggiornamento della «Dichiarazione della razza» venne incluso nel R.D.L. 17 novembre 1938, n. 1728, più noto con il nome di «Provvedimenti per la difesa della razza». Non è qui il caso di affrontare un esame critico delle norme in esso contenute, che potremmo dire semplicemente diaboliche, rimandando alla pregevole analisi tecnica, che ne ha fatto Saverio Gentile.[56] Per quel che ci interessa in questa sede, va rilevato che il decreto-legge conteneva un micidiale tarlo anche per i militari ebrei con benemerenze. Infatti l’art. 14 – relativo alle esenzioni migliorative per i “discriminati” – prevedeva la possibilità per essi di continuare a «prestare servizio militare in pace e in guerra», ma non permetteva però loro di appartenere alle «Amministrazioni civili e militari dello Stato». Questa anomalia sarebbe stata sanata a breve. Fino ad allora tutti questi provvedimenti non erano infatti suffragati da nessuna norma di attuazione, che però non si fece attendere troppo. Solo poche settimane dopo, tra le varie altre disposizioni legislative, venne approvata quella che colpì più direttamente i militari ebrei: il R.D.L. 22 dicembre 1938, n. 2111 (convertito il 2 giugno 1939 in legge n. 739), «Disposizioni relative al collocamento in congedo assoluto ed al trattamento di quiescenza del personale militare delle Forze Armate dello Stato di razza ebraica» (G.U. n. 30, 6 febbraio 1939). Tale norma, seguendo le vie legali, collocava in congedo assoluto a partire dal 1° gennaio 1939 tutti i dipendenti di razza ebraica – senza eccezione alcuna – delle Forze Armate, della Guardia di Finanza e della Milizia.
Teoricamente questa legge sarebbe dovuta valere solo per i non discriminati in base all’art. 14 dei «Provvedimenti per la difesa della razza», ma all’atto pratico il regime la attuerà disinvoltamente per tutti i militari ebrei (tranne pochissime eccezioni), senza distinzione di grado, anzianità, meriti e decorazioni. La logica dei congedi era tutta legata al fatto che anche generali e ammiragli erano considerati semplici dipendenti statali, per i quali la legge non faceva eccezioni, tanto meno per i discriminati.
Le uniche garanzie che vennero concesse ai futuri congedati erano di natura economica; esse si basavano sulla quiescenza e l’indennità, relativamente alla maturazione dei diritti dei singoli, in base al loro grado e anzianità, fino al raggiungimento del diritto di pensione;[57] ben poca cosa per un numero ragguardevole di validi e fedeli soldati, la cui unica colpa – se così si può chiamare – era quella di appartenere a una tradizione cultural-religiosa diversa dalla maggioranza e per questo considerati da un giorno a un altro sospetti e di razza inferiore.
Come si è potuto constatare, le discriminazioni risultarono soltanto un autentico raggiro: un espediente per illudere gli ebrei e per colorare di spirituale un razzismo biologico, brutta copia di quello tedesco. La commissione, presieduta dal prefetto Antonio Le Pera, che avrebbero dovuto valutare le discriminazioni caso per caso, aveva massima discrezione, rendendo abituale il mercimonio di discriminazioni e di arianizzazioni. In ogni caso, una volta ottenuta la discriminazione non si era neppure certi di poterla mantenere; era infatti possibile anche una sua revoca. All’atto pratico per tutti gli ebrei il diritto-dovere di prestare il servizio militare non sarà mai riconosciuto, quindi neanche ai discriminati, onde ribadire l’inconsistenza di questa categoria di privilegio.
Ingenuamente quasi tutti gli ebrei credettero al possibile vantaggio di potere ottenere la discriminazione, anche perché rientrare nelle condizioni stabilite non era del tutto impossibile. Le benemerenze di carattere politico-militare però apparivano anomale, perché mal distribuite: ammiragli ne erano esclusi, semplici piantoni ne erano inclusi. Molti meritevoli, per inerzia o disinteresse, in passato non avevano fatto domanda per la croce di guerra e nel 1938 se ne pentirono amaramente perché, il ministero della Guerra, in una sua direttiva del 16 novembre 1938, confermava «il tassativo divieto di accogliere istanza per la concessione delle distinzioni onorifiche […] presentate fuori dei termini fissati».[58] Vani furono anche i tentativi di far valere titoli equipollenti o analoghi; a chi faceva ancora notare che durante il conflitto italo-turco la croce di guerra non era stata ancora istituita e chiedeva di far valere la medaglia commemorativa col motto “Libia”, venne risposto che per quella non era necessario aver partecipato ad azioni militari[59] e comunque secondo la disposizione normativa gli «altri certificati sono nulli».[60] La Demorazza (l’ente del ministero dell’Interno creato ad hoc nel luglio del 1938 per avviare l’aspetto demografico della campagna antisemita) calcolò anticipatamente che ci sarebbero stati circa 11-12 mila casi di discriminazione.
Le richieste degli interessati per la discriminazione dovevano pervenire entro il 30 marzo 1939 agli uffici della Demorazza, ma il suo riconoscimento era arbitrario e facoltativo. Il candidato discriminato (o un ariano con i medesimi titoli) poteva altresì domandarne estensione anche per i familiari, gli ascendenti e discendenti fino al secondo grado. Come detto, anche i militari discriminabili vennero esonerati dagli incarichi ricoperti e congedati, ma chiunque avesse una minima possibilità di ottenere questa benemerenza ci provò. In totale vennero presentate 8.171 domande, complessivamente per 15.339 persone. Solo 2.486 domande vennero accolte, così si ebbero in tutto 6.494 discriminati.[61]
Svariati invece furono i casi di repentine conversioni e battesimi nel periodo luglio-settembre 1938; la successiva legislazione premierà questi veloci catecumeni perché stabilì l’arianità ai misti battezzati prima del 1° ottobre, che non fossero più colti in manifestazioni d’ebraismo. La legge però non si preoccupava di elencare tutti i comportamenti che avrebbero palesato manifestazioni d’ebraismo, tanto da lasciare comunque un margine elastico e soggettivo alle commissioni giudicatrici in casi particolari.[62]
Mussolini – in mala fede, considerando quello che era accaduto – dirà in seguito che «l’Ebreo patriota perde le caratteristiche polemiche della razza»:[63] ma se saranno veramente pochi i casi in cui il dittatore autorizzerà (in maniera discrezionale anche senza alcun titolo) ad arianizzare[64] degli ebrei patrioti, ci furono anche alcuni casi di ariani ebreizzati; infatti se nel periodo tra luglio e novembre vennero celebrati molti matrimoni tra ebree e ufficiali per salvare queste donne, in alcuni casi la razza della moglie venne utilizzata per discriminare anche il marito ariano. Anzi – anticipando ciò che sarebbe capitato in futuro – anche tutti gli «italiani di razza ariana» figli di matrimonio misto rimasero comunque a rischio: pendendo su di loro la spada di Damocle della possibile (quanto evanescente) manifestazione d’ebraismo, non mancarono casi in cui venne riesaminata in modo negativo la propria posizione ariana. Fu il caso dei gemelli Serafino: Amelia e Gualtiero come figli di padre cattolico e madre ebrea, ma battezzati alla nascita, furono nel 1938 dichiarati anch’essi ariani. Così Gualtiero come allievo ufficiale combatté in Africa Orientale e a seguito della prematura morte in battaglia venne decorato di medaglia d’oro al valor militare. All’opposto Amelia, sposando l’israelita Renato Spizzichino, fece riaffiorare – secondo i funzionari ministeriali – la componente ebraica della propria ascendenza e venne riclassificata di «razza ebraica». Di fronte a questa follia, l’ariano padre si trovò contemporaneamente il figlio elevato agli onori della Patria e la figlia gemella messa ai margini della società.
Tutto ciò evidenza in modo sin troppo evidente come lo spartiacque tra razza ebraica e ariana fosse labile, per non dire inesistente: il mito della predominanza di sangue italiano fu un delirio più che un’operazione politica;[65] la sua applicazione invece evidenziò ancora una volta come quella, che all’inizio era stata vista come un’azione da risolvere velocemente, fosse divenuta un problema vero e proprio, anche perché la faciloneria[66] di Mussolini – e dei suoi collaboratori – nel sottovalutare la questione aggravò la situazione.
Le reazioni della maggior parte degli ebrei e a maggior ragione di coloro che avevano servito lo Stato oscillarono tra l’incredulità e lo sconforto. Vi furono casi polemici di lettere sferzanti all’indirizzo persino di Vittorio Emanuele III, a cui ci fu chi restituì persino le proprie medaglie al valore. Anche i suicidi risultarono diversi, almeno cinque tra i militari. Il rifiuto di continuare a vivere era motivato evidentemente sia dallo sconforto di non poter più compiere il proprio dovere, sia dall’umiliazione prodotta dall’indifferenza che le istituzioni ormai provavano per loro; proprio loro, che invece erano stati abituati dal regime a sommi onori per i successi militari in pace e in guerra. I ripetuti suicidi preoccuparono il ministero della Guerra, che iniziò a tenere d’occhio coloro che avrebbero potuto compiere l’ultimo gesto.
Lettere di richiesta di pietà e di considerazione per i molti anni in divisa giunsero numerose all’indirizzo del duce, di donna Rachele, dei vari ministeri[67] e anche dell’Unione delle comunità israelitiche. Tuttavia quest’ultima era assolutamente impotente e in balia degli eventi.
Risultò inascoltata l’invocazione dell’Unione per risparmiare i giovani ebrei, «nati e cresciuti nel clima mussoliniano […dal] supremo dolore di non poter offrire il braccio ed occorrendo la vita per la Patria».[68] Questo rifiuto, come tutti i moltissimi altri ai quali gli ebrei italiani furono assoggettati, di non permettere loro di combattere, non incrinò l’attaccamento di coloro che sentivano ancora grande la fedeltà al proprio Paese.
In questo modo a partire dal 1° gennaio 1939 iniziarono i congedi per gli appartenenti alle Forze Armate, senza possibilità alcuna in questo caso di appellarsi ai singoli meriti passati, anche se dichiarati discriminati o nel frattempo battezzati. L’effettivo invio in congedo per motivi razziali fu attuato in maniera abbastanza puntuale da parte dei corpi e dei distretti militari,[69] evidenziando anche fin troppa indifferenza per la sorte di un così gran numero di validi e ineccepibili soldati, distintisi più volte di fronte allo Stato e al regime.
Per quanto riguarda l’Esercito vennero congedati 25 generali tra quelli in ausiliaria o in riserva.[70] Gli ufficiali in servizio permanente effettivo che furono posti in congedo furono 81.[71] Tra gli ufficiali non in servizio attivo furono congedati 2.952 ebrei, elevando quindi il numero a 3.057 ufficiali ebrei congedati nell’intero esercito.[72] Per quanto riguarda la Marina gli ufficiali in servizio posti in congedo furono 29.[73] Per l’Aeronautica gli ufficiali in servizio (attivo e complemento) posti in congedo furono 38,[74] ai quali si debbono inizialmente aggiungere almeno altri 44 militari, tra gli ufficiali di riserva, i sottufficiali e la truppa.[75] In un secondo tempo il ministero dell’Aeronautica riammise 13 militari “ex ebrei” perché questi avevano nel frattempo dimostrato di essere stati battezzati prima del 1° ottobre 1938,[76] coerentemente con la legge in vigore. La Milizia congedò 279 ufficiali, di cui 196 operativi e 83 di ruolo sanitario.[77] Nella Guardia di Finanza non si riscontrarono ufficiali ebrei e quindi non ci fu nessun congedo,[78] anche se vi furono alcuni casi tra i sottufficiali e la truppa.[79]
All’interno dei reparti i congedi non furono affiancati da atteggiamenti ostili da parte degli altri soldati, ma c’è probabilmente del vero nel ritenere che all’interno delle Forze Armate si levassero malcelate approvazioni alla persecuzione in atto, come testimonianza di invidia e sospetto nei confronti della casta ebraica all’interno della casta militare. Anche il polemico Balbo dovette senza discutere, ma a malincuore, far eseguire le leggi in Libia, allontanando i militari ebrei dai loro incarichi, garantendo tuttavia un trattamento generale più tollerante rispetto a quello vigente in Italia.[80]
Oltre a licenziare tutti coloro che facevano parte di enti e organizzazioni militari, in base ai dettati legislativi era doveroso, secondo la legislazione ormai in vigore, provvedere anche a impedire l’entrata di altri ebrei all’interno delle Forze Armate stesse. Tramite i prefetti, il ministero della Guerra volle regolare la situazione dei giovanissimi ebrei delle classi di leva ancora in attesa di chiamata. Essi nel periodo 1938-39 fremevano più dei loro padri e fratelli maggiori, perché ardenti più di altri di poter servire quella Patria e quel regime, che li aveva cresciuti e addestrati, per combattere contro gli stati demoplutocratici, che tanto avevano recentemente sanzionato l’Italia e le sue gagliarde ambizioni. Vennero quindi date disposizioni per bloccare gli ebrei ancora prima della selezione e dell’arruolamento, creando tuttavia un iter non solo avvilente, ma di fatto inutile e dispendioso. Le norme attuative disposero che i non discriminati venissero radiati dalle liste di leva, mentre i discriminati fossero in esse confermati e oggetto di visita di leva, per poi essere posti in congedo assoluto.
Nel frattempo, la politica internazionale all’inizio del 1939 era in piena ebollizione, convincendo ormai le democrazie europee che la politica acconsenziente dell’appeasement avrebbe solo rinviato la guerra, non l’avrebbe certo impedita. L’ormai inevitabile ricorso alle armi per risolvere i contrasti diplomatici europei provocò una mobilitazione generale in tutte le potenze, che solo un anno prima a Monaco avevano siglato un accordo di pace; anche l’Italia, benché impreparata militarmente, si prefissava nel giro di pochi mesi di rispettare l’impegno a sostenere in armi l’alleato germanico e per questo, pur con una incoerente dichiarazione di non belligeranza, preparava anch’essa le sue schiere da mandare a combattere. La componente ebraica anche in questa circostanza, benché esclusa dalla vita civile della Nazione, non esitò a richiedere di partecipare attivamente ai destini della Patria, come ennesima testimonianza del valore e dei meriti fino ad allora dimostrati.
Nel loro complesso furono molte le offerte di volontarismo ebraico per la guerra[81] e la massima istituzione israelita dopo tanta insistenza si decise a chiedere direttamente a Mussolini una riammissione collettiva dei congedati per motivi razziali.[82] Come facilmente ipotizzabile, il duce rifiutò ogni offerta di arruolamento e per aspettare il reintegro di così tanti valorosi soldati non basterà attendere solamente la caduta del fascismo e l’istituzione del cosiddetto Regno del Sud.
Di fronte alla pigrizia politica, a raccogliere quel desiderio di ricucitura tra destini della Patria e combattenti ebrei non poté tuttavia mancare il Nastro Azzurro, che si dimostrò all’avanguardia come primo sodalizio combattentistico sensibile al patriottismo degli italiani ebrei. Infatti, già il 24 agosto 1943 il suo commissario governativo, il generale (medaglia d’oro) Achille Martelli accolse con estremo afflato la richiesta inoltratagli dal suo vecchio compagno d’armi, il tenente generale medico Angelo Di Nola, allora presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. In questo modo l’Istituto non solo riammise d’iniziativa i decorati «di religione ebraica» (si noti bene la forma politicamente corretta usata) come propri soci, ma promosse anche una petizione affinché tutti gli israeliti ex militari fossero richiamati senza ulteriore ritardo nelle Forze Armate «nell’ora grave che volge».[83]
Nonostante questo nobile gesto, la proposta rimase lettera morta, visto che proprio in quei giorni il Governo Badoglio non aveva tra le proprie priorità il patriottismo degli ebrei; la piena reintegrazione sarebbe avvenuta solo a partire dal gennaio successivo. Tutto ciò mentre la Regia Marina per tutta la durata della guerra aveva continuato ad avere al suo attivo ben tre sommergibili, dedicati ad altrettanti italiani ebrei: Daniele Manin, Giuseppe Finzi e Alberto Liuzzi.
Nel frattempo, in modo spontaneo vi fu una marcata adesione degli ebrei alla Resistenza, visto che le principali e maggiori comunità – contestualmente toccate dall’occupazione e dalla deportazione nazista – erano prevalentemente nel centro-nord del Paese. Ancora italiani tra gli italiani, furono circa 2.000 gli israeliti, fra coloro che decisero di combattere i tedeschi alla macchia nelle file partigiane. Insieme ai ventenni pieni d’entusiasmo e smaniosi di libertà, c’erano anche alcuni veterani ex militari ebrei, che finalmente potevano non solo tornare a combattere per la loro Italia, ma questa volta anche contro quei nazisti e quei fascisti che tanto avevano contribuito all’annientamento morale e fisico dei loro correligionari.
La conclusione della guerra mondiale e la Liberazione del Paese offrirono il motivo per la speranza di pacificazione e di reinserimento degli italiani ebrei nel tessuto sociale della Nazione. Tuttavia, il trauma era stato troppo grande: le persecuzioni, le deportazioni e lo sterminio non poterono essere rimarginati in modo indolore. Ciò accadeva tra l’altro nei mesi in cui la politica internazionale dava un nuovo spiraglio verso la creazione in Palestina di una casa per tutti gli israeliti. Fu così che a partire dal 1948 gli ebrei desiderosi di combattere trovarono nello Stato d’Israele il luogo dove poterlo fare con una piena coscienza religiosa e patriottica.[84] In questo modo si va quindi spiegando il motivo per il quale a partire dagli anni Cinquanta il militarismo ebraico in Italia si iniziò a spegnere sempre più velocemente. Le uniche eccezioni furono incarnate dai figli della medaglia d’oro Alberto Liuzzi: la prematura morte del padre nel 1937 – che quindi fu indipendentemente dalla “razza” elevato sugli altari addirittura della R.S.I. – e la tenera età dei due fratelli nel periodo delle discriminazioni e delle persecuzioni portarono quindi Tullio e Alberto iunior a una certa imperturbabilità nella propria vocazione verso il mestiere delle armi nelle Forze Armate italiane.
Chiuse invece le carriere dei più illustri reintegrati, quali Giorgio Liuzzi, Ivo Levi e Paolo Supino, gli italiani ebrei confermarono la loro trasformazione in ebrei italiani. Se le generazioni di Custoza, del Piave e dell’Amba Aradam avevano scritto i propri nomi sulle lapidi delle sinagoghe, ora quella che fu obbligata a scrivere i nomi dei propri padri e fratelli, perché deportati e uccisi dal nazi-fascismo, calò un velo pietoso sulla successiva volontà incondizionata di continuare a portare una divisa in Italia.
[1] A tal proposito non è stato un caso se il Museo ebraico di Roma abbia voluto intitolare nel 2014 una propria mostra sulla Grande Guerra “Prima di tutto italiani”, inerente alla partecipazione degli ebrei romani alla Prima guerra mondiale.
[2] F. Servi, Gli Israeliti in Italia nella guerra 1915-18, Torino, 1921, p. 53.
[3] M. Michaelis, Gli ufficiali superiori ebrei nell’esercito italiano dal risorgimento alla marcia su Roma, in «La Rassegna Mensile Israel», XXX (1964), n. 4, p. 156.
[4] S. Waagenaar, Il ghetto sul Tevere. Storia degli ebrei di Roma, Mondadori, Milano, 1973, pp. 227-228.
[5] S. Foà, Gli ebrei nel Risorgimento italiano, Carucci, Assisi-Roma, 1978, pp. 59-60.
[6] Ibidem, pp. 71, 75.
[7] E. Rubin, 140 Jewish Marshals, Generals and Admirals, De Vero Books, London, 1952, p. 157; A. Rovighi, I militari di origine ebraica nel primo secolo di vita dello Stato italiano, USSME, Roma, 1999, p. 15.
[8] A. Segre, Siamo laici, in «Ha Keillah – Bimestrale ebraico torinese organo del gruppo di studi ebraici», ottobre 2006, n. 4, p. 15; S. Waagenaar, op. cit., p. 233.
[9] V.D. Segre, L’emancipazione degli ebrei in Italia, in M. Toscano, Integrazione e identità (a cura di), Franco Angeli, Milano, 1998, p. 109. Riccardo tra l’altro era il fratello di Edgardo, che in tenera età era stato battezzato all’insaputa della famiglia e ad essa sottratto dalle autorità ecclesiastiche per educarlo come cattolico.
[10] A. Segre, Siamo laici, op. cit., p. 15.
[11] E. Capuzzo, Gli ebrei italiani dal Risorgimento alla scelta sionista, Le Monnier, Firenze, 2004, pp. 92-93; S. Caviglia, L’identità salvata. Gli ebrei di Roma tra fede e nazione. 1870-1938, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 90-91.
[12] S. Caviglia, op. cit., p. 144.
[13] Le onorificenze e le medaglie al valore militare conferite per la campagna di Libia ai nostri correligionari, «Il Vessillo Israelitico», LXI, 15 aprile 1913, p. 223; M. Michaelis, Gli ufficiali superiori ebrei nell’esercito italiano dal risorgimento alla marcia su Roma, op. cit., p. 156, n. 6.
[14] Il testo più recente che parla dei numeri sulla partecipazione degli italiani ebrei alla Grande Guerra è P. Orsucci Granata, Moisè va alla guerra, Salomone Belforte & C., Livorno 2017. In esso si parla di 5.000 militari, circa 450 caduti sul campo di battaglia e almeno 150 i decorati per un totale di circa 700 onorificenze.
[15] R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino, 1993, p. 16, n. 1; E. Momigliano, Storia tragica e grottesca del razzismo italiano, A. Mondadori, Milano, 1946, p. 31.
[16] «La Nostra Bandiera», a. I, n. 12 (19/7/34).
[17] ACS, Min. Int., PS A1, 1942, b. 67, f. Levi Ugo, lettera di questi dove racconta i precedenti militari della sua famiglia.
[18] G. Rigano, Il caso Zolli. L’itinerario di un intellettuale in bilico tra fedi, culture e nazioni, Guerini Studio, Milano, 2006, pp. 57-58, 60-64.
[19] P. Briganti, Il contributo militare degli ebrei italiani alla Grande Guerra (1915-1918), Silvio Zamorani, Torino, 2009, pp. 49-54.
[20] A. Rovighi, op. cit., pp. 17-18.
[21] M. Toscano, Religione, Patriottismo, Sionismo: il Rabbinato Militare nell’Italia della Grande Guerra (1915-1918), in «Zakhor», Rabbini e maestri nell’ebraismo italiano, VIII/2005, La Giuntina, Firenze 2005, pp. 77-133; G. Cecini, L’assistenza sanitaria e religiosa ebraica sul fronte italiano 1915-1918, in R. Supino-D. Roccas (a cura di), «L’apporto degli ebrei all’assistenza sanitaria sul fronte della Grande Guerra», Zamorani, Torino, 2017, pp. 39-52.
[22] M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, Einaudi, Torino, 2007, p. 18.
[23] G.S. Rossi, La destra e gli ebrei. Una storia italiana, Rubettino, Soveria Mannelli, 2002, p. 14.
[24] ACS, Min. Int. Demorazza, Aff. div., b. 4.
[25] P. Briganti, Il generale Umberto Beer. Testimonianza sulla carriera di un soldato ebreo, in «Clio, Rivista trimestrale di studi storici», anno XLII (2006), n. 2, pp. 285-293; F. Cordova, Arditi e Legionari Dannunziani, Manifestolibri, Roma, 2007, pp. 30, 38, 113-114.
[26] Per A. Tamaro, Venti anni di storia 1922-1943, Ed. Tiber, Roma, 1953, vol. III p. 304 sono Cesare Goldmann, Elio Jona, Cesare Sarfatti, A. Jarach, J. Pontremoli; per M. Michaelis, Gli ebrei italiani sotto il regime fascista (1ª puntata), in «La Rassegna Mensile Israel», XXVIII (1962) n. 5, p. 216, i 5 sansepolcristi sarebbero Goldmann, Piero Jacchia, Eucardio Momigliano, Riccardo Luzzatti ed Enrico Rocca.
[27] E. Momigliano, op. cit., p. 32.
[28] Discorso pronunciato il 21 giugno 1921, in M. Michaelis, Gli ufficiali superiori ebrei nell’esercito italiano dal risorgimento alla marcia su Roma, op. cit., p. 164 e in L. Preti, Impero fascista, africani ed ebrei, Mursia, Milano, 1968, p. 26.
[29] Articolo del 1920 di Mussolini su «Il Popolo d’Italia» riportato in L. Preti, op. cit., p. 25 e in R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, op. cit., p. 71.
[30] Ibidem, p. 73.
[31] Ibidem; sono 590 quelli iscritti al PNF in M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, op. cit., pp. 22-23.
[32] M. Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, Edizioni di Comunità, Milano, 1982, nota a p. 417.
[33] G. L. Mosse, Il razzismo in Europa, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 215.
[34] E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Mondadori, Milano, 2000, p. XXXVII.
[35] Ibidem, pag. 55.
[36] «La Nostra Bandiera», a. III, n. 7 (15/4/36), pp. 4-5, La scuola marinara di Civitavecchia per gli ebrei stranieri.
[37] R. De Felice, Il fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei ed indiani nella politica di Mussolini, il Mulino, Bologna, 1988, pp. 161-165.
[38] L’articolo de «La Nostra Bandiera» riportò invece: «i 25 allievi che lo frequentarono furono tutti promossi con brillante votazione».
[39] L. Carpi, Come e dove rinacque la Marina d’Israele, Nuova Editoriale Marina Italiana, Roma, 1965.
[40] Le varie citazioni sono tratte dall’articolo de «La Nostra Bandiera», La scuola marinara di Civitavecchia per gli ebrei stranieri, a. III, n. 7 (15/4/36), pp. 4-5.
[41] R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, op. cit., pp. 165-174.
[42] G. Cecini, I soldati ebrei di Mussolini, Mursia, Milano, 2008, pp. 49-71.
[43] In maniera molto zelante, già nel novembre 1936 il ministero degli Esteri aveva scartato la proposta di inviare a Berlino come rappresentante della Regia Marina il generale ebreo del Genio Navale Giorgio Rabbeno; ASMAE, MAE, AP, 1931-45, Germania, b. 36.
[44] A.C. Jemolo, Presentazione alla prima edizione, in G. Fubini, op. cit., p. 13.
[45] M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei, S. Zamorati, Torino, 2017, p. 69.
[46] Ibidem, p. 121.
[47] L. Preti, op. cit., p. 141; G.B. Guerri, Italo Balbo, Mondatori, Milano, 1998, p. 358; C.G. Segrè, Italo Balbo, il Mulino, Bologna, 1988, p. 426.
[48] R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, op. cit., p. 304.
[49] G. Ciano, Diario 1937-1943, Bur, Milano, 1990, p. 193.
[50] AUSSME, H1, b. 1, promemoria ministeriale di servizio n. 62 del 12/X/1938.
[51] Ivi, promemoria del Ministero della Guerra per il duce del 25/X/1938.
[52] Ibidem.
[53] Ibidem, annotazione di Sebastiani, accettata con un “si” da Mussolini.
[54] E. Momigliano, op. cit., p. 70.
[55] ACS, SPD, CR, b. 145, lettera dell’Unione al Ministero della Guerra del 1°/X/1938.
[56] S. Gentile, op. cit., pp. 146-164.
[57] AUSSME, H1, b. 2, nota per l’ufficio del capo di S.M.G. dalla G.U. del 6 febbraio 1939.
[58] AUCEI, UCII, b. 83 A, sf. rapporto con le autorità.
[59] ACS, MI, Demorazza, aff. div., b. 6.
[60] Ivi, b. 2, nota a matita sull’appunto per il sottosegretario di stato del 19/1/1939.
[61] R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, op. cit., pp. 366-367.
[62] Art. 8 del R.DL. 17/11/1938, n. 1728.
[63] Y. De Begnac, Palazzo Venezia. Storia di un regime, Roma, 1950, p. 643.
[64] Legge 13 luglio 1939, n. 1024. Norme integrative del R. decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, sulla difesa della razza italiana (G.U. n. 174, 27 luglio 1939).
[65] M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei, op. cit., pp. 13-18.
[66] R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, op. cit., pp. 344, 357.
[67] Tutta una serie di testimonianze nelle numerose lettere contenute all’ACS in SPD, CR, 480/R b. 14, e in MI, Demorazza, aff. div., b. 10, f. richieste di volontari.
[68] Mozione di fedeltà dell’Unione del 12/10/38, in R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, op. cit., p. 332, n. 1.
[69] AUSSME, H 9, b. 4, f. 7, promemoria per il duce, del ministero della Guerra del 22/4/1939.
[70] A. Rovighi, op. cit., p. 36, ne elenca solo 24, ma dimentica di inserire nella lista il gen. Levi Giusto, al quale però aveva dedicato un piccolo resoconto biografico a p. 101.
[71] Ibidem, pp. 37-39.
[72] Ibidem, pp. 40-41.
[73] Si arriva a questa cifra confrontando e sommando la cifra 27 di Rovighi (p. 43) e i resoconti di Vitale in ACDEC, Vitale, b. 3, f. 1AI.
[74] A. Rovighi, op. cit., pp. 44-45.
[75] ACS, Min. R. Aeronautica, Gabinetto, bb. 8 e 9, documentazione sui militari (considerati ebrei) da congedare.
[76] Ibidem.
[77] A. Rovighi, op. cit., p. 42.
[78] Ibidem, p. 46.
[79] In proposito si vedano gli accurati studi e le opere di Gerardo Severino.
[80] Lettera di Balbo a Mussolini del 19/1/1939, da R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, op. cit., pp. 375-377 e da idem, Ebrei in un paese arabo. Gli ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo e sionismo (1835-1970), il Mulino, Bologna, 1978, p. 263.
[81] Il numero delle lettere nel settembre 1939 fu elevatissimo in ACS, MI, Demorazza, aff. div., b. 10, f. richieste di volontari.
[82] Ivi, lettere varie all’Unione e lettera del 3 settembre della stessa al duce.
[83] AUCEI, UCII 1934-1948, b. 85 E, f. abolizione decreti razziali.
[84] Sull’emigrazione verso il nascente Stato d’Israele si vedano M. Toscano, La “Porta di Sion”. L’Italia e l’immigrazione clandestina ebraica in Palestina (1945-1948), Il Mulino, Bologna, 1990 e idem, Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, FrancoAngeli, Milano, 2003.