VALENTINA TROGU. Prima Guerra Mondiale, una inaspettata fotografia di

  

 

La storia è un insieme di singoli eventi, alcuni ben noti altri dimenticati, che hanno permesso la costruzione del nostro mondo di oggi, nel bene e nel male. Il susseguirsi di accadimenti è l’unico modo per garantire un’evoluzione e un cambiamento nel momento in cui è necessario modificare la realtà. Guardare al passato significa imparare a riconoscere errori, valutare e attingere a ciò che di buono c’è stato per migliorare il presente e il futuro. Nei libri di storia si studiano gli eventi più significativi, quelli considerati centrali e determinanti per comprendere questa evoluzione che riguarda ogni cultura, ogni popolo e ogni nazione. L’accento viene posto sui conflitti e sulla loro risoluzione, sulle rivoluzioni e sulle trasformazioni della società; gli aspetti politici, economici e militari sono trattati con accurata dovizia di particolari ma non si deve tralasciare l’importanza dei risvolti sociali e psicologici riconoscibili in ogni singolo evento.

Pensiamo, ad esempio, all’atto della guerra. È necessario capire le cause dello scoppio del conflitto, conoscere i protagonisti e i leader che sono stati chiamati a prendere decisioni; allo stesso modo è di pari rilievo individuare le mosse messe in atto, le opzioni strategiche scelte e le conseguenze che ne sono derivate.  Conseguenze politiche, tecnologiche, economiche ma anche psicologiche – con particolare riferimento alla popolazione civile e ai soldati coinvolti in prima persona – e sociologiche per spiegare i cambiamenti interni ad uno Stato e la mutazione dei rapporti interculturali e delle relazioni con gli altri Stati.

Soffermiamoci sui combattenti, protagonisti indiscussi di una guerra; spesso giovani uomini chiamati a difendere la patria senza avere in mano gli strumenti adatti per affrontare lo scontro con un nemico. Nemico che è rappresentato da altri giovani uomini che ricoprono lo stesso ruolo degli avversari.

Durante la Prima Guerra Mondiale, nel loro ruolo di soldati, francesi, inglesi e tedeschi hanno dovuto dimostrare odio l’uno verso l’altro spinti dallo stereotipo comune che vede l’altro, lo straniero, il diverso, come un nemico da combattere perché pericoloso per l’incolumità della propria patria, della propria gente. I soldati hanno avuto, dunque, un ruolo sociale ben definito che li ha obbligati ad abbracciare la violenza giustificata dalla guerra in atto per sconfiggere i nemici a qualunque costo, vita compresa.

L’estate del 1914 ha visto l’Europa diventare lo scenario di una guerra devastante che ha coinvolto tutta l’umanità dipingendola come capace di poter compiere qualsiasi gesto e qualunque atrocità se necessario. Questo tipo di comportamento rientra nell’aggressività predatoria – la lotta tra specie diverse – che Konrad Lorenz denomina aggressività interspecifica utilizzata dalle differenti specie (culture o nazionalità) per sopravvivere e che si conclude con la vittoria del più forte sul più debole che nella maggioranza dei casi subirà una sconfitta mortale. Facile trovare riscontro di questa aggressività nella specie umana quando si assiste a lotte tra gruppi che si vedono come diversi, lontani, e che agiscono spinti da una violenza interetnica che trova espressione nella deumanizzazione dell’altro gruppo composto da persone “non umane” su cui è applicabile la massima violenza, l’uccisione. Nello schema rientra anche l’aggressività ostile – harrasment – studiata da Aubrey Manning il quale ha riscontrato un’incapacità di fermarsi davanti al dolore altrui proprio perché non si riesce a vedere l’altro come un essere umano.

La guerra e il ruolo di soldato richiedono questo distacco, questa violenza che è caratterizzata sia da componenti innate e istintive, legate alla sopravvivenza, al patriottismo e al nazionalismo, sia ad aspetti sociali, culturali e ambientali determinati dalle circostanze in atto.

Succede, però, che il muro del distacco dall’altro possa essere infranto, che la distanza che separa due mondi apparentemente opposti possa accorciarsi lasciando che l’uomo riscopra l’umanità di chi ha davanti. Lo spiraglio può aprirsi in qualsiasi momento, anche durante i drammi, la paura, la violenza di una guerra atroce come la Prima Guerra Mondiale.

Era il giorno di Natale del 1914 quando i soldati si sono fermati, hanno abbandonato le armi, l’odio e il rancore per dare vita alla Tregua di Natale. Per un giorno, un unico giorno, le differenze sono state messe da parte per ritrovare quell’umanità perduta nonostante gli ordini dall’alto non accordassero alcuna tregua. Il campo di battaglia si trasformò in un campo da calcio e i soldati inglesi e tedeschi giocarono improvvisando una partita. Dopo aver seppellito i cadaveri dei compagni, gli schieramenti opposti cominciarono a scambiarsi gli auguri, i regali e ad intonare canti natalizi per creare un’atmosfera di festa in un luogo di morte. Non si era più soldati di fazioni differenti, ma uomini con in comune la passione per il calcio e la voglia di giocare una partita in cui l’importante non era vincere ma divertirsi e ritrovare la spensieratezza della giovane età con la consapevolezza che quella tregua sarebbe durata solo poche ore e che passato Natale si sarebbe ritornati ad essere nemici, un punto lontano sul mirino di un fucile.

Nei libri di storia non si parla della Tregua di Natale né della partita di calcio; si hanno testimonianze dell’accaduto dalle lettere dei soldati, da alcuni resoconti scritti a distanza di tempo. Potrebbe essere solamente una storia di Natale inventata per impedire che l’umanità sia tacciata unicamente di brutalità e indifferenza eppure l’immagine dei soldati che giocano una partita di calcio è una fotografia che tutti vorremmo poter osservare. La storia è anche questo, non solo racconti di uccisioni, odio e violenza ma anche cronaca di eventi di solidarietà i cui protagonisti, spesso, sono stati soldati che non desideravano altro che uscire dal ruolo che gli era stato imposto. L’anno successivo alla Tregua di Natale, Giuseppe Ungaretti scrisse una poesia in cui alto si leva il grido di volontà di eliminare differenze e ostilità per posare le armi e porre fine alla continua paura della morte. Il titolo è “Fratelli” con riferimento ad un altro reggimento.