La sera di domenica 25 luglio 1943, la notizia della caduta del fascismo arriva mentre i savonesi sono nei rifugi antiaerei. All’alba del lunedì 26 luglio si riunisce il Comitato Federale del Partito Comunista Italiano, che decide di promuovere uno sciopero generale contro la guerra e di contattare altre forze democratiche. In giornata si istituisce quindi il Comitato d’Azione Antifascista che proclama lo sciopero generale. Dalle principali fabbriche della città si dipartono numerosi cortei con operai, lavoratori provenienti da ogni settore, donne, ragazzi e curiosi. Lo sciopero ottiene un grande successo. Tuttavia, prima di sera, nel rione Fornaci, davanti alla casermetta della Milizia portuale, durante un corteo composto in maggioranza da donne, l’Ufficiale comandante ordina di aprire il fuoco sui manifestanti. Ci sono 30 feriti e 2 giovani donne Lina Castelli e Maria Pescio. Intanto, a fine agosto, arrivano a Savona detenuti politici che hanno scontato il confino, come Libero Bianchi, Amedeo Isolica ed altri antifascisti. L’avvocato Sandro Pertini è rilasciato da Ventotene e, con lui, l’avvocato socialista Giovanni Pera.
Alle 19.45 dell’8 settembre 1943 il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio legge alla radio il proclama dell’armistizio firmato dal governo italiano con gli Angloamericani. I savonesi, nuovamente illusi che la guerra sia finita, scendono in strada esultando. Ma la gioia ben presto si spegne: l’assenza di ordini ai comandi dell’esercito nazionale e il blocco, a poche ora dall’armistizio, dei principali punti di accesso alla provincia da parte delle formazioni tedesche. Per questa ragione dall’alba del 9 settembre la città è già occupata dai reparti tedeschi. Il Comandante interinale del presidio, data l’esiguità delle forze armate disponibili, rinuncia a ordinare la difesa delle caserme e lascia i soldati allo sbando. Giovani lavoratori delle fabbriche recuperano presso caserme e depositi abbandonati fucili e munizioni. Intanto, dalla sera dell’8 settembre, alla Capitaneria di porto si lavora per impedire ai tedeschi di impadronirsi di navi italiane ancorate nelle acque portuali. Il comando è affidato al Tenente Colonnello Enrico Roni, d’origine livornese, che tuttavia non ha ancora ricevuto alcun ordine ufficiale. L’ordine del Caposettore del Comando Marina di Genova gli giunge soltanto alle 7.00 del 9 settembre, poco dopo Roni impartisce gli ordini: 6 unità navali prendono il largo mentre 10 si autoaffondano.
Il 9 settembre, intorno alle 18.00, un gruppo di giovani e operai che ha fatto scorrerie d’armi al Priamar, mentre si trova all’inizio di via Untoria, vede sopraggiungere dal porto una colonna di autocarri blindati tedeschi preceduti da una camionetta con a bordo dei soldati. Quando la colonna sta per entrare in piazza Giulio II, il portuale Mannoro Mannorini lancia una bomba a mano di fabbricazione italiana che, pur centrando la colonna, non scoppia. L’attentatore, sorpreso in fuga, viene catturato e trascinato prima in un edificio del porto e poi nella vicina caserma di corso Ricci. A sera, in località Maschio, è barbaramente ucciso. Il suo cadavere viene trovato tre giorni dopo, sulla strada di Montemoro, con il volto insanguinato e il corpo crivellato di pallottole. È il primo savonese caduto per la lotta di liberazione dal nazifascismo.
Fra l’ottobre e il novembre 1943 in città e nei centri urbani della provincia le condizioni di vita si fanno particolarmente difficili. Scarseggiano gli alimenti e il costo dei generi di prima necessità aumenta. Nelle industrie mancano le materie prime e scende il livello dell’occupazione. Ad aggravare un quadro socio-economico già critico, si aggiungono i frequenti bombardamenti aerei. Di questi, il più drammatico avviene a mezzogiorno di sabato 30 ottobre, quando Savona è colpita da 156 aerei alleati. Il bombardamento distrugge parte del centro storico e dell’area portuale, provocando danni irreparabili a edifici storici pubblici e privati, 116 morti, centinaia di feriti e più di 3.000 senzatetto.
Gli eventi che si danno nelle fabbriche savonesi nel dicembre ’43 sono preceduti dalle scelte del comando germanico di impedire, tramite il primo rastrellamento, che i nuclei di partigiani stabilizzino sulle alture i loro insediamenti. L’obiettivo è l’area di Gottasecca (in cui si sono stanziati i partigiani della “Stella Rossa”) e la zona di Roviasca con il gruppo di Gino De Marco. Del primo nucleo fa parte Francesco Calcagno che, catturato dai Carabinieri a Quiliano il 19 dicembre, è consegnato ai tedeschi. Interrogato e torturato, è poi detenuto dal 23 al 27 nel carcere di Sant’Agostino di Savona e verrà fucilato per rappresaglia, insieme ad altre 6 vittime, il 27 dicembre al Forte della Madonna degli Angeli.
Il “Natale di sangue” al Forte della Madonna degli Angeli
La sera del 23 dicembre una bomba di grande potenza viene lanciata contro la “Trattoria della Stazione”, in via XX Settembre, luogo abituale di ritrovo di tedeschi e fascisti. Nell’immediato, l’ordigno provoca 6 morti e 13 feriti. Il mattino del giorno di Santo Stefano viene redatta una lista di 7 antifascisti da deferire al tribunale Militare Straordinario. Il 27 dicembre, alle ore 4.00, i sette prigionieri vengono tratti dal carcere di Sant’Agostino e, in catene, trasportati nella caserma della Milizia in Corso Ricci, dov’è allestito il Tribunale Militare. Ai prigionieri viene comminata la “condanna a morte mediante fucilazione” con “esecuzione immediata”, in quanto, appunto, “mandanti morali” dell’attentato. Alle 6.00 i 7 condannati vengono tradotti al Forte della Madonna degli Angeli dove viene eseguita la condanna.
Alla Città di Savona con Decreto Presidenziale del 19/09/1974 viene conferita la Medaglia d’oro al valor Militare:
“Le genti di Savona, fedeli allo spirito che ne animò le gesta e l’impegno patriottico nel primo riscatto risorgimentale, reagirono alla occupazione da parte delle forze armate tedesche, opponendo alla prepotente sopraffazione nazifascista una lotta tanto coraggiosa quanto ostinata. Formazioni di volontari armati furono organizzate, alimentate ed assistite dalla popolazione nella città e sulle montagne dell’entroterra e, per oltre 19 mesi, svolsero un’intensa attività di minaccia e logoramento al presidio nemico della regione. Non valsero a frenare lo slancio generoso né la precarietà di mezzi, né la preponderanza delle forze avversarie, né la barbarie a cui queste ispirarono la loro spietata opera di repressione con arresti in massa, deportazioni, torture, fucilazioni, massacri di innocenti e distruzioni. Il grande contributo di sangue offerto dai volontari e dai cittadini vittime delle rappresaglie, i sacrifici e le sofferenze sopportate sono testimonianze di una assoluta ostinazione a non subire la vergogna della tirannide, di dedizione alla Patria, di tenacia nella fedeltà ai più alti ideali di libertà e di giustizia.” Zona di Savona, 8 Settembre 1943 – Aprile 1945