I Soldati del Primo Tricolore
II Parte[1]
Roberto Olevano
DALLA CISALPINA AL REGNO D’ITALIA (1802 – 1808).
Al momento della sua costituzione, a fine gennaio 1802, la Repubblica Italiana ereditò dalla Cisalpina un apparato militare debole e disgregato. La guardia nazionale, creata ad imitazione del modello francese, era stata ridimensionata dopo il trattato di Campoformio, anche perché, con la pace, era venuta meno per i francesi, la necessarietà dei corpi ausiliari italiani. La responsabilità principale della crisi della guardia nazionale ricadeva su alcune decisioni prese dal Governo della Cisalpina, il quale, con la Legge del 21 aprile 1801 aveva ammesso la possibilità, per i coscritti, di essere sostituiti attraverso il pagamento di una tassa. Pertanto, coloro che erano in grado di pagare il balzello, tra l’altro nemmeno tanto elevato, approfittarono di questa norma per farsi sostituire da individui, presi dai ceti più bassi, provocando un pericoloso abbassamento di livello della guardia nazionale. Altrettanto allarmante appariva la situazione delle truppe di linea, soprattutto nella cavalleria e nell’artiglieria, considerate armi “nobili”, che necessitavano di personale qualificato o almeno con un minino di istruzione. Assunto il 14 febbraio 1802 il comando delegato delle truppe, il vicepresidente Melzi, nominò aiutanti di campo Achille Fontanelli e Ottavio Corradini e propose come ministro della guerra il generale Alessandro Trivulzio, nominato da Bonaparte il 22 febbraio.
Il 18 agosto fu approvata la legge sulla coscrizione, con un contingente iniziale di 18.000 uomini tratti da 5 classi (1777 – 1781) e una riserva di 60.000 da formare con 5 contingenti annuali di 12.000. All’interno di ogni classe venivano iscritti per primi gli ultimi nati, in ordine decrescente di data di nascita; i figli unici di padre vivente o di madre vedova, quelli che avevano già un fratello sotto le armi e gli ammogliatisi dopo la pubblicazione della legge erano inseriti per ultimi nella lista della propria classe con lo stesso ordine di nascita e sarebbero stati gli ultimi ad essere eventualmente chiamati. Era infine prevista l’esenzione dalla coscrizione per varie categorie: i congedati; gli ammogliati che avessero contratto matrimonio prima della pubblicazione della legge; i vedovi con prole; ed infine i ministri della religione di Stato, (cattolica), promossi almeno al primo degli ordini maggiori. Un apposito titolo di legge, il terzo, si occupava poi della “requisizione”, cioè della leva effettiva del numero di uomini necessari a completare l’armata. Numero che era determinato dal Governo e da questo ripartito tra i dipartimenti in ragione della loro popolazione; a loro volta i consigli dipartimentali erano incaricati di dividere con lo stesso criterio i loro contingenti fra i rispettivi distretti, mentre ai consigli distrettuali spettava la ripartizione tra i propri comuni. Permaneva la norma che ammetteva la sostituzione, ma venne modificata con la possibilità per il coscritto che avesse presentato entro tre giorni, un sostituto idoneo di età non superiore ai trenta anni e che avesse pagato una tassa “in ragione della sua rendita” comunque non superiore alle mille lire milanesi.
Convincere un coscritto a star lontano da casa per quattro anni, per di più con l’incombente prospettiva della guerra, non era impresa facile, la legge sulla coscrizione, quindi, invitava le autorità dipartimentali ad avvalersi, nell’azione persuasiva della collaborazione, di quelle categorie che potevano maggiormente influire sull’animo popolare, cioè i cittadini più istruiti e i ministri del culto. Era giudicato, infatti, assai importante l’intervento del clero nelle campagne, gli ecclesiastici venivano invitati a facilitare l’attuazione della coscrizione sulla base dell’assunto che la professione delle armi non era in contrasto con i dettami del Vangelo, come dimostravano l’esperienza storica e l’esistenza degli eserciti negli Stati cristiani d’Europa. Il tentativo di utilizzare gli ecclesiastici come agenti di propaganda per la coscrizione sortì però scarsi effetti. Quasi tutti i vescovi, che non gradivano la parte loro assegnata dal governo, si trassero d’impaccio con pastorali generiche e poco impegnative e lo stesso dicasi per le omelie dei parroci.
Ad ogni modo la formazione delle liste di coscrizione andò egualmente avanti, pur se spesso in modo approssimativo e talora caotico. L’operazione riuscì più sollecita nei dipartimenti in cui le amministrazioni si dimostrarono più attive e si trascinò stancamente in quelli inoperosi, ma alla fine di maggio tutti i dipartimenti erano stati in grado di trasmettere al Ministero della guerra le proprie liste, ad eccezione di quello dell’Olona. Si erano in tal modo realizzate le premesse per passare alla fase della requisizione, cioè alla leva vera e propria, che per il primo anno doveva cadere, come già detto, su 18.000 coscritti. Ma la requisizione, nonostante le precauzioni ed i provvedimenti adottati, rivelò subito la sua profonda impopolarità, apparsa chiara già durante le fasi della coscrizione e tanto più diffusa in quanto si erano palesati i timori che le truppe della Repubblica potessero essere impiegate al di là dei confini. Melzi era fermamente intenzionato a completare il più presto possibile la leva con l’uso di tutti i mezzi disponibili anche perché la formazione di un esercito nazionale era per lui la premessa per cercare di ottenere l’evacuazione di una parte almeno delle forze francesi ed avviare così il risanamento delle finanze pubbliche. Il problema da affrontare apparve subito quello della renitenza, che divenne presto un fattore di grave turbamento nella vita della Repubblica. Quasi tutti i prefetti fecero immediatamente presente la necessità di avere a disposizione una adeguata forza armata, senza la quale la leva sarebbe riuscita di assai difficile attuazione. Melzi si convinse dell’opportunità di riorganizzare il corpo della Gendarmeria, che giudicava indispensabile al buon ordine interno dello Stato. Tra luglio e agosto del 1803 sostituì l’ispettore generale colonnello Agostino Piella, con il più capace Pietro Polfranceschi, e provvide a rafforzare i poteri del nuovo comandante che ottenne subito un accrescimento numerico del corpo che venne portato a 1.941 uomini su 13 compagnie. Nei primi mesi del 1804, comunque, erano stati ricostituiti i corpi tecnici e logistici e la scuola delle armi dotte ed era stata creata un’efficiente gendarmeria e una piccola marina. Grazie alla leva fu infine possibile inviare per la prima volta tre contingenti all’estero: una Divisione di 2.000 italiani e 2.500 polacchi a Taranto al comando di Giuseppe Lechi e una di 5.000 italiani a Calais al comando di Domenico Pino, più una Legione italiana all’isola d’Elba.
La Fanteria della Repubblica Italiana.
Con legge del 21 settembre 1801 la fanteria venne ordinata in 7 Mezze Brigate, 5 di linea e 2 leggere, di 2 battaglioni, con un organico totale di 15.120 uomini, il 27 settembre furono pubblicati i nomi degli ufficiali di fanteria compresi nel nuovo ordinamento. L’organico stabilito dalla legge ne prevedeva 427, ma in realtà ne furono inseriti 560 perché ad ogni compagnia furono aggiunti ben 2 sottotenenti. A causa della scarsità dell’indaco necessario per tingere i panni di verde, l’11 aprile 1802 si decise, per economia, di dare alla fanteria di linea panciotti e calzoni bianchi, lasciandoli verdi solo alla leggera. Il 30 settembre le MB furono ripartite tra le Divisioni attive: la 1a, 2a e 3a di linea, di stanza le prime due a Milano e l’altra a Novara, furono assegnate alla 1a Divisione comandata dal generale Lechi, la 4a di linea di stanza a Bologna e la 1a leggera a Modena alla 2a Divisione del generale Pino. Ad ogni Divisione era inoltre assegnata una MB polacca su 3 battaglioni, ognuno dei quali equivaleva ad una MB italiana. Pur pagando tre generali di divisione, l’intera fanteria italiana equivaleva perciò alla Brigata polacca, con la quale formava una Divisione di 11 battaglioni.
All’inizio del 1803 la 2a MB polacca giunse a Genova per imbarcarsi per Santo Domingo. Il 15 aprile, proprio alla vigilia della prima chiamata alle armi, Bonaparte fece riunire a Faenza una divisione italiana per costituire, assieme ad una francese, il corpo d’armata del Rubicone e del Mezzogiorno d’Italia, destinato ad occupare le coste della Puglia. A comandarla fu designato Lechi, il quale lasciò a Pino il comando della 1a Divisione di Milano. La fanteria contava 2 battaglioni polacchi e 3 italiani, completati coi coscritti, partiti in giugno e dislocati a Bari, Barletta e Lecce. In ottobre i legionari furono destinati al presidio dell’Elba, dove arrivarono in dicembre via Piombino. In novembre altri 6 battaglioni furono assegnati alla Divisione Pino per l’Armata della Grande Spedizione contro l’Inghilterra. Uno, il 1° della 1a MB leggera, fu però richiamato dalla Puglia e perciò alla Divisione Lechi rimasero solo 2 battaglioni nazionali. I 6 battaglioni rimasti all’interno formarono la 3a Divisione.
Il 15 gennaio la 1a leggera giunse a Parigi dove fu passata in rassegna da Bonaparte sul piazzale delle Tuileries, manovrando ai suoi ordini per più di due ore. Seguì un breve discorso, concluso dall’acclamazione dei soldati “Evviva Bonaparte nostro presidente!” e dalla consegna delle nuove bandiere. L’indomani la 1a partì per Cambrai e in marzo tutta la fanteria divisionale fu schierata a Calais. Il 9 ottobre 1804 la fanteria aveva 3.743 effettivi a Calais: 1.039 acquartierati al Forte Mieubry e 2.704 accampati sulla spianata della Cittadella. Il servizio di piazza a Calais impegnava ogni giorno 359 italiani, altri 810 formavano le guarnigioni di 81 pescherecci armati. Il 13 ottobre 3 fregate inglesi attaccarono a Capo Gravelines, presso Calais, 27 cannoniere olandesi che andavano ad unirsi al naviglio francese raccolto nella rada di Boulogne. I soldati italiani presero parte allo scontro sparando dalla spiaggia e dai pescherecci. Il 13 dicembre uno di questi catturò all’arrembaggio il mercantile inglese Mathilde e Napoleone concesse ai 10 italiani della guarnigione l’intero valore della preda (18.804 franchi). Malgrado ciò la Divisione era famigerata per indisciplina, cattiva amministrazione e sospetti politici e finì per essere smembrata tra vari presidi costieri.
La Cavalleria della Repubblica Italiana.
Ussaro del 2° Reg. (1801) Immagine tratta da I soldati del primo tricolor. Valerio Gramellini. Rivista Militare, Roma 1993. |
L’ordinamento provvisorio del 27 agosto 1800 assegnava alla cavalleria un organico di 1.272 uomini divisi in 2 reggimenti (ussari e cacciatori) su 4 squadroni di 156 uomini a loro volta divisi in 2 compagnie di 78. Il 4 settembre i reggimenti furono sdoppiati in mezzi reggimenti di due squadroni, assegnati alle Divisioni Italica Lechi (1° ussari a Como e 1° cacciatori a Varese) e Cisalpina Pino (2° ussari e 2° cacciatori, entrambi a Bologna). Il 12 ottobre gli 8 squadroni cisalpini avevano 1.482 effettivi e 1.259 presenti (390 ussari a Como e 486 a Bologna, 257 cacciatori a Varese e 126 a Bologna). I cavalli erano tuttavia appena 764 e 286 erano di proprietà dei 99 ufficiali presenti: di conseguenza solo il 41 per cento dei 1.160 sottufficiali e militari di truppa presenti era montato. Le cronache della breve campagna del 1800 – 1801 menzionano solo 6 squadroni (5 di ussari e 1 di cacciatori). La cavalleria assegnata alla Divisione Cisalpina, comandata da Carlo Balabio, includeva soltanto 2 squadroni che il 14 gennaio 1801 misero in fuga sotto Siena 300 dragoni leggeri napoletani. Altri 4 squadroni, tutti di ussari, presero parte alle operazioni contro gli austriaci: il 3° e il 4° con la Divisione Italica in Valcamonica, il 1° distaccato a Salò col gruppo Severoli e il 2° sull’Adige con la Brigata francese. Quest’ultimo poi prese parte al blocco di Peschiera, mentre il 1°, aggregato ad una Divisione francese, superò Rivoli e La Corona e il 3 gennaio entrò ad Ala. Intanto il 3° era sceso in Trentino valicando due passi coi cavalli imbracati e trascinati nella neve e, riunitosi col 4°, arrivato da Brescia dopo avervi scortato l’artiglieria francese, il 3 e 5 gennaio sloggiò il nemico dagli avamposti nelle alte valli del Chiese e del Sarca e il 6 attaccò il ponte di San Lorenzo, entrando il 7 a Trento, evacuata dagli austriaci in ritirata. Il 17 gli ussari marciarono al blocco di Mantova, ma, a seguito dell’armistizio, furono inviati a Piombino, rientrando a Milano il 1° maggio. In memoria della campagna, il 20 agosto 1802 gli squadroni del 1° ussari ricevettero i nuovi stendardi con le seguenti iscrizioni: 1° squadrone “benemerito della Patria”; 2° “campagna dell’anno IX”; 3° “trincere di Condino superate”; 4° “ponte di Trento conquistato”. Nel frattempo, la legge d’ordinamento del 30 dicembre 1800 aveva elevato l’organico delle 16 compagnie a 83 uomini e dei 2 reggimenti a 1.376. Il 23 aprile gli effettivi erano 1.217 ma erano ripartiti non fra due, bensì fra tre reggimenti, 2 a Varese e Gallarate e uno in Toscana. Luigi Campagnola già capobrigata del 1° ussari cisalpini, poi generale di brigata, fu nominato comandante in capo della cavalleria e svolse con impegno il suo incarico. Innanzitutto, fece istituire a Milano una scuola di equitazione e scherma per formare gli istruttori delle truppe montate e non mancò di controllare la disciplina dei corpi. Evidenziando il ruolo fondamentale di questa arma, anche a ragione dei grandi spazi della Pianura Padana, Campagnola insistette affinché venisse potenziata, addestrata e che venisse sensibilmente aumentata la retribuzione: c’era da considerare infatti che la divisa di un ussaro poteva costare anche 1.500 lire, corrispondente ad un anno di stipendio di un sottotenente. Sempre secondo il parere del Campagnola la cavalleria doveva essere acquartierata in luoghi piovosi perché abbondanti di foraggio, con maneggi coperti per non lasciare oziosi i cavalli col tempo cattivo e vicino ai fiumi, per la cura dei cavalli e l’addestramento al guado. Il problema maggiore della cavalleria italiana erano il costo e la reperibilità dei cavalli. La durata massima era di dieci anni, ma un cavallo impiegato all’estero deperiva per il cambiamento di clima e i cavalli requisiti duravano due mesi sotto il servizio militare. L’autore calcolava che nell’arco di un decennio si dovessero approvvigionare 20.000 cavalli. Il prezzo corrente era di 600 lire milanesi, dunque una spesa di 12 milioni. Occorreva dunque potenziare le risorse nazionali e il sistema alla lunga più economico era quello delle mandrie, allevamenti gestiti direttamente dall’esercito, ma la Repubblica non aveva i capitali occorrenti per un investimento a medio termine. Si doveva perciò incentivare l’allevamento privato.
L’Artiglieria della Repubblica Italiana.
La legge del 21 settembre 1801 sul nuovo ordinamento dell’esercito, triplicò l’organico dell’artiglieria a 3.000 uomini, inclusi 91 ufficiali e 41 civili, ordinati su 32 batterie. Queste ultime corrispondevano ai quadri esistenti, ma soltanto 8 erano attive in tempo di pace. Gli ispettori d’artiglieria e genio proposero di designare Pavia come sede degli stabilimenti d’artiglieria. Situati dietro la seconda linea dell’Adda e sul Ticino, sarebbero stati al sicuro da un’eventuale offensiva austriaca. Inoltre, Pavia era ottima anche per ricevere le materie prime dal Lago Maggiore e rifornire le piazzeforti di Pizzighettone, Mantova e Ferrara e le batterie da erigere alle foci del Po e lungo la costa romagnola. La proposta fu approvata dal governo con decreto dell’8 giugno. Il 4 luglio fu istituito un laboratorio dei materiali d’artiglieria con annessa scuola artificieri. Nell’agosto 1802 l’artiglieria italiana contava 614 pezzi (532 cannoni, 55 obici e 27 mortai), tutto materiale obsoleto in bronzo. Il 9 settembre Bonaparte decretò la cessione alla Repubblica Italiana, fino al valore di 4 milioni di franchi, delle artiglierie, armi e munizioni esistenti nelle sue piazzeforti, la nomina di una commissione mista per l’inventario e la stima del materiale e la rifusione dei pezzi, a cura e a carico del governo italiano, nei calibri d’ordinanza francesi (cannoni da 6, 8, 16 e 24, mortai da 8 e 12 pollici, obici da 5 pollici e 6 linee). Lo stesso decreto imponeva inoltre al governo italiano di costruire due equipaggi da ponte (uno per il Po e uno per l’Oglio e l’Adige) da stabilire a Pizzighettone con gli equipaggi d’assedio, di riserva e di campagna e una sala d’armi di 15.000 fucili, stabilendone un’altra di 10.000 a Mantova. Un altro decreto consolare del 21 novembre determinò l’armamento e il servizio delle piazze principali (il Quadrilatero Mantova, Legnago, Peschiera, Verona più Pizzighettone) e di altre cinque minori (a nord del quadrilatero: Rocca d’Anfo, Orzinovi e Brescia, a sud dello stesso: Ferrara e Forte Urbano). L’armamento, stabilito con la consulenza di Calori, prevedeva complessivamente 25.100 uomini, 8.100 fucili di riserva e 626 bocche da fuoco con 337.000 colpi. A Pavia dovevano trovarsi inoltre i due parchi d’assedio e da campagna, rispettivamente con 70 e 60 pezzi, più altri 10.000 fucili di riserva.
L’articolo 3 del decreto, che riservava agli ufficiali francesi non solo il comando delle piazzeforti, ma anche, in via esclusiva, la disciplina degli arsenali e la direzione dei lavori, suscitò le rimostranze degli italiani e Melzi sollevò la questione con Bonaparte, ma, a parte qualche contentino marginale, non ottenne la modifica del decreto. Nel frattempo, era stato completato l’inventario e il 2 aprile 1803 il capobrigata Claude Saint Vincent consegnò al parigrado italiano Frederic Guillaume 937 pezzi (401 in ferro e 383 in bronzo di calibri regolamentari e 153 fuori ordinanza) per 4.016.580 franchi.
Il 2 maggio 1802 il governo aveva approvato il progetto che prevedeva di destinare 12 pezzi da battaglia e 10 pesanti, con 2 affusti da piazza, 2 da costa, una squadra del treno, addestrando i cannonieri, con munizioni fornite dai francesi, alla manovra, alla costruzione e al servizio delle batterie da battaglia, da costa, da piazza e d’assedio, nonché, in attesa di essere armati con fucili leggeri, anche alla scuola di plotone e alle manovre di fanteria. La Scuola teorica e pratica d’artiglieria fu ufficialmente istituita a Pavia dallo stesso Bonaparte, con decreto consolare del 22 luglio 1803, che prescriveva un esame di matematica per l’ammissione tra gli ufficiali d’artiglieria e fissava l’inizio dei corsi per il 15 settembre.
Nell’aprile 1803 gli effettivi dell’artiglieria giunsero al minimo di 706 uomini: in particolare le 6 batterie cannonieri avevano appena 290 effettivi. Tuttavia, sui 18.000 coscritti chiamati alle armi in estate, ne furono assegnati all’artiglieria 2.032, inclusi 394 del dipartimento dell’Olona. Furono così completate le batterie già attive e attivate le altre, incluse quelle dei pontieri e degli armaioli. Furono inoltre costituiti due nuovi corpi; in agosto il battaglione dei marinai cannonieri addetto alla flottiglia e alle batterie costiere; in settembre l’artiglieria della Guardia del Presidente su 2 batterie, con 76 cannonieri a cavallo e 78 militari del treno d’artiglieria. Nel dicembre 1803 gli effettivi dell’artiglieria erano già triplicati a 2.113 con 474 cavalli, anche se il treno fu completato per ultimo solo un anno dopo, quando la forza giunse al massimo di 2.386 effettivi, pari al 79% del nuovo organico.
Il Genio della Repubblica Italiana.
Il decreto del 27 agosto 1800 sull’ordinamento provvisorio del nuovo esercito cisalpino riduceva a 7 gli ufficiali del corpo ma in compenso raddoppiava a 600 le truppe del Genio inquadrati in due compagnie di 100 pontonieri, due di 150 zappatori e una di 100 minatori. L’articolo 8 della Legge 30 dicembre 1800 sull’ordinamento definitivo dell’esercito aveva ridotto drasticamente il corpo del Genio, articolato su una direzione delle fortificazioni e una sola compagnia mista di minatori e zappatori, mentre i pontonieri erano trasferiti all’artiglieria. La direzione includeva appena 15 ufficiali: 1 colonnello, 2 capibattaglioni, 3 capitani di 1a classe, 3 capitani di 2a, 3 tenenti di 1a classe e 3 tenenti di 2a. La compagnia aveva un organico di 101 uomini da formare con militari ceduti dalle altre armi. Con la legge del 21 dicembre 1801, gli organici vennero decuplicati diventando ben 1.443 mentre gli ufficiali diventavano 92.
DALLA REPUBBLICA AL REGNO.
Il 17 marzo del 1805 Napoleone trasformava la Repubblica italiana in Regno d’Italia[2] proclamandosene re, e qualche mese dopo, il 7 giugno, messo da parte Melzi, nominava viceré il figliastro Eugenio Beauharnais, allora ventitreenne. Nasceva così quell’organismo statale che, ampliato nell’aprile 1806 con i paesi veneti sulla sinistra dell’Adige, nell’aprile 1808 con la Marca di Ancona e i territori di Urbino, Fermo, Macerata ed Ascoli e il 1° maggio 1810 con il Tirolo meridionale, sarebbe durato sino all’aprile 1814 allargandosi nel momento della sua maggiore espansione territoriale su una superficie di 84.000 km quadrati e con una popolazione di più di 6.700.000 anime. Il 7 giugno 1805 Napoleone indirizzava ad Eugenio le istruzioni a cui avrebbe dovuto attenersi nell’esercizio delle funzioni a lui delegate. In pratica l’imperatore riservava a sé stesso un ampissimo potere di intervento, dirigendo il viceré nelle sue attività all’interno di una visione politica che aveva come punto di riferimento centrale il superiore interesse della Francia, di fronte al quale ogni altra considerazione avrebbe dovuto passare in secondo piano. Fu quindi Napoleone ad orientare l’azione dell’amministrazione militare, a compiere le scelte di fondo in materia di coscrizione, a determinare l’organico e l’articolazione dei corpi, a definire le modalità del loro impiego all’interno della Grande Armée. Nei primi anni del Regno il punto nevralgico dell’apparato militare restò quello della coscrizione e della leva, un meccanismo che richiese vari aggiustamenti e revisioni per riuscire ad eliminare i difetti e a superare le difficoltà che avevano reso così faticose e contrastate le requisizioni del periodo repubblicano. Un primo passo avanti fu compiuto in occasione della leva del 1805, decretata il 24 giugno per mettere a disposizione del governo 3.000 uomini per l’armata attiva e 3.000 per la riserva ai quali Napoleone aggiunse altri 1.000 coscritti scartati per la bassa statura. La statura minima per il servizio in fanteria non dipendeva da criteri estetici, ma dalla lunghezza del fucile. Bastava quindi integrare i fucili con armi più corte per recuperare una parte dei coscritti scartati alla visita di leva. Napoleone applicò il principio ai più bassi, battezzandoli “volteggiatori” e riunendoli in compagnie scelte con soldo da granatieri, che prendevano il fianco sinistro del battaglione.
A norma delle istruzioni emanate per regolare la leva del 1805 era prevista in ogni dipartimento la formazione di un Consiglio di leva dipartimentale, di consigli di leva distrettuali e di commissioni di leva cantonali. Al vertice di questa struttura piramidale stava il prefetto, che presiedeva il Consiglio dipartimentale, del quale facevano parte un membro del Consiglio di prefettura estratto a sorte e l’ufficiale di gendarmeria di grado più elevato presente nel capoluogo. Lo stesso prefetto sceglieva e nominava i due membri del Consiglio di leva distrettuale che affiancavano il viceprefetto. Ma se in tal modo venivano accresciuti i poteri direttivi e di controllo dei prefetti rispetto alla pratica delle precedenti requisizioni, l’istanza operativa di base, sulla quale veniva a poggiare tutta la costruzione, diventava la Commissione Cantonale che era composta di un podestà e di due savi municipali ed aveva per segretario il cancelliere del censo. A questi organismi era infatti affidata l’esecuzione della leva dei propri contingenti e l’incombenza di far scortare i requisiti fino al Consiglio Distrettuale, che li avrebbe poi inviati al Consiglio Dipartimentale, incaricato a sua volta di verificare che tra i giovani così affluiti non ci fossero individui inabili o indebitamente requisiti. La leva del 1805 e quella del 1806, decretata sempre il 24 giugno 1805 per lo stesso numero di coscritti ed eseguita con le stesse norme del gennaio 1806, risentirono dunque degli inconvenienti connessi con il metodo adottato e registrarono gli stessi disordini e le stesse resistenze che avevano contraddistinto la requisizione negli anni repubblicani. Il successo della leva, un’operazione che si presentava ancora per molti aspetti come un problema di polizia, continuava a restare legato alla disponibilità di consistenti reparti di forza armata, ma in alcuni dipartimenti le brigate di gendarmeria erano insufficienti, poiché già impegnate nella difesa dell’ordine pubblico contro i briganti. L’esecuzione delle leve del 1805 e del 1806 venne rallentato anche da una sopravvenuta novità: l’abrogazione di fatto della facoltà di farsi sostituire concesso dalla Legge del 1802. Abrogazione sancita da un articolo del decreto istitutivo della Guardia Reale, la quale aveva proibito il rimpiazzo nei dipartimenti che non avessero completato il loro contingente. Pertanto, siccome in molti dipartimenti non era stato possibile arrivare a saldare questo contingente neppure nel corso di due anni, la conseguenza fu che, come si esprimeva un documento ministeriale, “dovettero marciare coscritti ammogliati, capi e sostegni di famiglia, lasciando nella più dura indigenza le mogli, i figli, i cadenti genitori”.
Repulsione dei coscritti per la leva e conseguente emigrazione o abbandono della propria residenza, scarsità della forza armata utilizzabile in funzione repressiva, connivenze e negligenze di autorità civili e militari, difetti intrinseci della legge istitutiva della leva erano alcune delle cause principali che inceppavano il funzionamento della requisizione. Continuavano ad agire negativamente le pratiche che permettevano ai giovani delle famiglie abbienti di sottrarsi alla chiamata. Le conseguenze erano rilevanti non tanto sul numero di coloro che riuscivano ad eludere la leva, che non erano poi così numerosi, quanto nell’alimentare il rancore dei ceti meno abbienti a causa di quelle sperequazioni sociali che la rivoluzione aveva proclamato di voler eliminare. I ceti popolari si sentivano vittime di una odiosa discriminazione perché sembrava loro di essere i soli a dover sopportare il peso della “tassa del sangue”. Tra queste pratiche c’era l’indulgenza dei medici e chirurghi incaricati delle visite presso commissioni e consigli di leva, inclini ad esentare soprattutto i giovani più abbienti. Vi era poi la strada dell’ingresso nei seminari che era stata utilizzata anche in passato ma che si era fatta più larga dopo la firma del Concordato tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede il 16 settembre 1803. L’accordo tra il ministro della guerra e quello del culto stabiliva che andassero dispensati dalla requisizione i giovani ammessi nei seminari, e quelli che, in mancanza di seminari o dei mezzi per aprirli, fossero stati educati fuori dagli stessi seminari dai loro presidi o da maestri nominati dai vescovi.
La fanteria del Regno d’Italia era così composta: 1° di linea mantovani e veronesi; 2° ferraresi e modenesi; 3° novaresi e milanesi; 4° reggiani e pavesi; 5° bolognesi e romagnoli; 1° leggero bresciani e bergamaschi; 2° valtellinesi e comaschi. Ad ogni corpo erano inoltre aggregati 2 battaglioni cantonali, inquadrati da 14 capitani, 34 tenenti e 213 sottufficiali e formati dai contingenti di riserva. La cavalleria era inquadrata nel 1° reggimento di nuova formazione, che doveva essere insignito del nome di Dragoni di Napoleone. In realtà il nuovo reggimento non fu costituito e il nome fu attribuito invece, con ordine del giorno del 4 febbraio 1805, al 2° ussari rientrato da Cambrai, probabilmente perché era l’unico reggimento di cavalleria italiano ad aver ricevuto lo stendardo dalle stesse mani di Napoleone. Per simmetria con il nome dato all’ex 2° ussari, si propose di dare all’ex 1° quello di “Giuseppina”: ma con decreto del 19 giugno 1805 Napoleone lo chiamò invece “Regina” commentando che fosse ridicolo che un corpo militare portasse un nome di donna. Si noti che il referente restava nel vago, perché Giuseppina era soltanto imperatrice e non anche regina d’Italia: mentre il titolo di viceregina era dato alla giovane sposa del principe Eugenio, principessa Augusta Amalia di Baviera, che nel marzo 1807 donò i suoi nastri agli stendardi degli squadroni in partenza per la Germania. Benché i nomi dati ai due reggimenti suggerissero un’inversione di rango, in realtà venne mantenuta la vecchia precedenza tra 1° e 2° ussari, dandola ai dragoni Regina sui dragoni Napoleone. L’artiglieria fu inquadrata con uno Stato Maggiore di 18 (1 colonnello, 2 capisquadrone, 2 aiutanti maggiori, 1 quartiermastro, 3 chirurghi, 2 aiutanti sottufficiali, 1 brigadiere, 1 veterinario e 5 maestri: un sellaio, uno stivalaio, un sarto, uno speronaio e un armaiolo) con 22 cavalli; 2 compagnie cannonieri con 5 ufficiali, 98 uomini (armati di sciabola e pistola) e 103 cavalli; 4 compagnie del treno con 2 ufficiali, 98 uomini (armati di fucile e sciabola) e 180 cavalli. Dispersa nelle piazzeforti e nel blocco di Venezia, l’artiglieria non fu impiegata sul campo di battaglia, tranne la mezza compagnia a cavallo della Brigata Ottavi rientrata da Rimini, che si distinse nella battaglia di Castelfranco del 24 novembre. La compagnia a cavallo della Guardia Reale, comandata interinalmente da tenente Giuseppe Fortis, seguì invece l’avanzata della Grande Armée e il 2 dicembre si batté ad Austerlitz.
La novità fu la creazione della Guardia Reale con una Guardia d’Onore composta da quattro compagnie, denominate la prima di Milano, la seconda di Bologna, la terza di Brescia e la quarta della Romagna, ciascuna composta di 100 uomini, di cui 60 a cavallo e 40 a piedi. Inoltre, facevano parte della Guardia Reale due battaglioni di Veliti, ciascuno di 800 uomini, uniti uno ai Granatieri a piedi della Guardia e l’altro ai Cacciatori a piedi della Guardia. Il 20 settembre 1805 furono poi istituiti due squadroni di Veliti a cavallo, anche questi uniti ai Granatieri ed ai Cacciatori a cavallo della Guardia. Nel 1806, dopo un reclutamento di 2.000 nuovi veliti di fanteria, furono formati due nuovi reggimenti della Guardia. Il termine latino velites fu scelto al posto della denominazione di cadetti, troppo legata all’ancien régime per poter essere ripristinata nel gennaio 1804, quando Bonaparte non era ancora Imperatore. Il decreto sull’organizzazione della Guardia Reale che Napoleone firmò a Mantova il 20 giugno 1805 prevedeva, dopo il corpo delle Guardie d’Onore e il corpo dei Veliti Reali, un Corpo di Guardie della Linea composto di un reggimento di due battaglioni (il primo di cinque compagnie di Granatieri e il secondo di cinque compagnie di Cacciatori, ogni compagnia di 100 uomini), di uno squadrone di Dragoni su quattro compagnie e di una compagnia di Artiglieria leggera.
Esercito del Regno D’Italia (1805 – 1813). Da sinistra in alto: Dragone del 2° Rgt.; Cacciatore a cavallo, 2° Rgt.; Dragone della Guardia d’Onore; da sinistra in basso: Fanteria della Guardia; Velite dei Cacciatori della Guardia; Fuciliere di linea del 4° Rgt.; Granatiere della Guardia; Cacciatore della Guardia; Granatiere in uniforme di marcia.
Immagine tratta dal libro: Historische Uniformen, Liliane e Fred Funcken. Orbis Verlag, Monaco, 2000.
LA CAMPAGNA DEL 1805
Dopo la pacificazione alla fine del 1800, la Russia aveva iniziato a nutrire sospetti sulle intenzioni dei francesi rispetto ai Balcani e al Mediterraneo, pertanto, lo zar iniziò a prepararsi ad una nuova guerra avviando i contatti con Vienna e offrendole la sua disponibilità ad allearsi. Mettendo da parte i dissensi con l’Inghilterra riguardo Malta e la Turchia, i diplomatici di Alessandro fecero le stesse proposte a William Pitt, primo ministro della Gran Bretagna, che fu felice di ricambiare; a questi colloqui seguì la Convenzione di San Pietroburgo, firmata l’11 aprile 1805. Gli statisti della Terza Coalizione cominciarono quindi ad elaborare un piano grandioso, che prevedeva quattro offensive diverse con uno spiegamento di quasi mezzo milione di uomini. Si teorizzava per prima cosa la liberazione di Hannover e la sua restituzione al suo Elettore, Giorgio III d’Inghilterra. Con questo obiettivo 15.000 inglesi sarebbero sbarcati a Cuxhaven, ricevendo l’appoggio di 12.000 svedesi e 20.000 russi. Più avanti a queste forze avrebbero potuto unirsi altri 50.000 russi del generale Bennigsen. Le truppe russe sarebbero servite anche per esercitare pressione sul re di Prussia: la sua partecipazione all’alleanza avrebbe portato un’ulteriore forza di 200.000 uomini. Gli alleati avrebbero poi piegato sulla Baviera occupandola con 85.000 austriaci sotto il comando del quartiermastro generale Mack e dell’arciduca Ferdinando, che sarebbero stati affiancati al momento opportuno dal generale Kutuzov a capo di 85.000 russi. Insieme sarebbero avanzati sul Reno da Ulm. Come punto di unione fra il fronte a sud della Germania e il nord Italia, l’arciduca Giovanni con 25.000 austriaci avrebbe occupato il Tirolo e i passi alpini circostanti, preparandosi ad agire a nord verso Ulm o a sud in Italia a seconda delle circostanze. Visti e considerati gli eventi del 1796 – 97 e del 1800, e il fatto che Napoleone si era incoronato re d’Italia, gli alleati consideravano l’Italia settentrionale il luogo più probabile del suo contrattacco, se così fosse stato, l’arciduca Carlo, al comando di 100.000 uomini avrebbe dovuto espellere il viceré Eugenio e riconquistare la Lombardia. Ancora più a sud, una forza composta da soldati britannici proveniente da Malta, 17.000 russi e 36.000 napoletani dovevano attaccare Eugenio dal basso e unirsi a Carlo. Infine, la Gran Bretagna si impegnò a formare una forza anfibia per irrompere sulle coste francesi e olandesi e per aiutare a istigare una nuova rivolta in Bretagna e nella Vandea a favore dei Borboni.
Inevitabilmente, le spie francesi sparse per tutta Europa intuirono che cosa stava succedendo. Il quadro generale era certamente scoraggiante: gran parte delle truppe francesi erano spiegate nei campi lungo la costa settentrionale della Francia, a 730 miglia di distanza dalla Baviera, l’alleato minacciato. Erano disponibili meno di 100.000 uomini per proteggere le frontiere della Francia e dei suoi alleati contro la minaccia rappresentata da almeno 400.000 uomini della coalizione. Il 10 settembre 1805 il generale Mack invase la Baviera e occupò la città di Ulm. Quest’azione, mirata a punire i sostenitori dei francesi e a bloccare qualsiasi tentativo della Francia di avanzare dal Reno attraverso la Selva Nera, spinse definitivamente la Baviera nelle braccia della Francia e offrì a Napoleone sia un casus belli che un bersaglio idoneo. Mack sostò a ovest di Ulm aspettando Kutuzov, inconsapevole del fatto che i russi usavano ancora il calendario giuliano. Gli alleati nel preparare il loro piano avevano dimenticato di “sincronizzare” i calendari e quello russo era posticipato di 12 giorni rispetto a quello degli altri membri della coalizione, infatti Kutuzov stava iniziando solo in quel momento ad entrare in Moravia. Gli austriaci erano convinti che il grosso delle truppe francesi fosse ancora lontano, sulla costa della Manica. Napoleone invece aveva messo in moto la più grande offensiva strategica della storia sotto forma di una grande ruota concentrica di 200.000 uomini divisi in sette corpi d’armata che, avanzando separatamente, confluirono gradualmente sul Danubio fra Munster, Donauworth e Ingolstadt, accerchiando l’esercito di Mack prima che i suoi alleati russi potessero arrivare a rinforzo.
La battaglia di Caldiero.
Il piano di Napoleone riservava al teatro italiano una parte secondaria. Il compito dell’Armée d’Italie, comandata dal maresciallo Masséna, era tenere bloccato l’esercito austriaco dell’arciduca Carlo, un compito difficile visto che, agli oltre 60.000 austriaci, non ne poteva opporre che circa 35.000. Malgrado questo, gli ordini di Napoleone erano di condurre una campagna aggressiva in modo da tenere duramente impegnato l’esercito austriaco. Il Maresciallo ricevette le istruzioni dell’imperatore il 20 settembre: avrebbe dovuto agire offensivamente fra il 5 e l’8 ottobre, occupare in un primo tempo la sinistra dell’Adige, muovendo le proprie truppe attraverso il ponte di Castelvecchio, quindi prendere le alture. Il 23 Bonaparte rivide in parte le istruzioni precedenti e rendendosi conto dell’inferiorità numerica dell’esercito franco – italiano, ordinò a Masséna di attaccare solo se il nemico avesse avuto 30.000 uomini sulle alture, in caso contrario avrebbe dovuto combinare una tregua. Fu dunque del tutto legittima la decisione di Masséna di accettare la tregua fino al 18 ottobre propostagli dall’arciduca Carlo.
In quel lasso di tempo il maresciallo di Francia pianificò al meglio il successivo sforzo offensivo, attese l’arrivo di rinforzi, portò l’artiglieria di Castelvecchio a 15 pezzi e salì con un pallone aerostatico fino a 120 metri di altezza per ispezionare il terreno. Scaduto l’armistizio, Masséna decise di aprire le ostilità, la notte del 18 ottobre un gruppo di 40 zappatori italiani, comandati dal capitano Delmas e sotto la supervisione del generale Lacombe, comandante dell’artiglieria del Regno d’Italia, pose una mina alla base del muro di terra e legno che chiudeva l’accesso al ponte di Castelvecchio. Poco prima dell’alba, alle 4 del mattino le cariche esplosero, le artiglierie aprirono il fuoco ed un distaccamento di 25 volteggiatori italiani attraversò su barche l’Adige sbarcando sulla riva opposta. L’avamposto austriaco venne colto di sorpresa e 24 compagnie di volteggiatori e granatieri coperti dal fuoco dell’artiglieria attraversarono il ponte prendendo la riva opposta. Il primo scontro importante avvenne nel piccolo sobborgo di San Giorgio, appena fuori le mura di Castelvecchio: dopo due ore di combattimento, i franco – italiani respinsero gli austriaci fin dentro il sobborgo. Alle 10 del mattino il borgo era saldamente nelle mani dei francesi mentre la brigata comandata dal generale Gardanne avanzò verso la cresta di S. Leonardo che domina il quartiere di Veronetta. Alle 17 i franco – italiani avevano occupato quasi tutte le alture a nord di Veronetta e Masséna poteva ritenersi abbastanza soddisfatto: non era in pieno possesso delle alture dietro Verona, ma aveva comunque stabilito una testa di ponte di due divisioni ed occupava in forze la cresta di San Leonardo.
Nella notte del 24 ottobre l’arciduca venne a conoscenza che Napoleone aveva costretto alla resa ben 25.000 austriaci ad Ulm e la mattina successiva informò tutti i comandanti della sorte dell’esercito di Germania e spiegò che ci si doveva preparare a ritirarsi dall’Italia perché la posizione francese sul Danubio minacciava la linea di comunicazione con Vienna. L’esercito austriaco si sarebbe dunque ritirato fino alla fortezza di Palmanova per poi continuare oltre l’Isonzo fino in Austria. prima però Carlo voleva attaccare i francesi allo scopo di indebolirli e scoraggiarli dal condurre un inseguimento troppo vigoroso. Masséna ricevette la comunicazione ufficiale della vittoria di Ulm il 26 ottobre e decise di attaccare gli austriaci sulle alture attorno a Veronetta per spingerli su Caldiero. L’offensiva doveva iniziare alle ore 5 del 29 ottobre. Gli austriaci, in evidente inferiorità numerica locale, evitarono il combattimento e si ritirarono su San Michele, dove subirono un breve ma intenso bombardamento dell’artiglieria prima di essere attaccati dai granatieri francesi. La nuova posizione di Masséna era abbastanza forte: le colline a nord di Vago erano nelle sue mani ed il terreno a sud del paese, all’incirca mezzo miglio, era paludoso; il centro, inoltre, era coperto dalla posizione avanzata di Calmierino. Masséna, soddisfatto, si ritirò con il suo quartier generale a Verona dove trascorse la notte e preparò la battaglia del giorno seguente.
Nella battaglia di Caldiero del 30 ottobre 1805 gli italiani non parteciparono agli scontri, tranne che per l’artiglieria che appoggiò l’attacco della divisione Verdier al Cavecchio del Cristo. La battaglia si risolse con un nulla di fatto, l’Arciduca non riuscì a respingere i francesi su Veronetta e Masséna non ottenne lo sfondamento che sperava. Strategicamente era stato comunque Masséna a raggiungere i risultati più lusinghieri: aveva difeso l’Italia di fronte ad un esercito di gran lunga superiore al suo e aveva impedito all’esercito austriaco di intralciare le operazioni sul fronte danubiano, tanto che ad Austerlitz l’Arciduca non poté essere presente. Il 1° novembre l’Arciduca Carlo comandò la ritirata generale inseguito da Masséna. Il mattino del 4, granatieri italiani e francesi cercarono di conquistare Vicenza senza però riuscirci; essa però fu evacuata dal nemico il 6. La ritirata dell’Arciduca proseguì fino a Cilli e Marburg mentre Masséna si spinse fino a Gorizia e Trieste. A metà di novembre il Corpo di Saint – Cyr era giunto a Padova con le due divisioni Lechi e Reynier. La prima, tutta italiana, con 6.500 fanti e 500 cavalli (3°, 4° e 5° reggimento di fanteria, 5 squadroni del 1° cacciatori, 2 compagnie d’artiglieria a piedi, una di zappatori); la seconda, francese, aveva comunque 900 uomini inquadrati nel reggimento ligure. Masséna incaricò Saint – Cyr di bloccare Venezia, sorvegliare la costa da Venezia alla foce dell’Adige ed opporsi ad eventuali sbarchi russi ed inglesi. A tal uopo inviò a Saint – Cyr di rinforzo, il 2° di linea italiano, la legione corsa e una divisione francese. Il Corpo austriaco Rohan forte di circa 10.000 uomini passando per Bolzano e Lavis scese in Val Brenta a Bassano e puntò su Castelfranco, minacciando alle spalle lo schieramento di Saint – Cyr che accortosi in tempo del pericolo attaccò riportando una brillante vittoria il 23 novembre. Nella battaglia di Castelfranco, nella quale cadde prigioniero lo stesso principe di Rohan, contribuirono alla vittoria, reparti distaccati della divisione Lechi (5° di linea e 4 pezzi di artiglieria). Intanto, il viceré Eugenio, ricevette l’ordine da Napoleone di occupare Trento e Bolzano con quattro battaglioni, un reggimento di cavalleria e sei pezzi d’artiglieria italiani e di nominare un generale a governatore di Trento. Tali compiti furono affidati al generale Giovanni Fiorella che li espletò con lode. Nell’Italia meridionale, come ripercussione della battaglia di Trafalgar, sbarcarono a Napoli e a Castellammare 11.000 russi e 2.000 albanesi provenienti da Corfù, e 5.600 inglesi provenienti da Malta. Re Ferdinando aveva promesso un concorso di 30.000 napoletani, ridotti poi a 12.000 fanti e 2.000 cavalli. L’obiettivo di questa forza nel meridione era quello di portarsi nell’Italia settentrionale alle spalle di Masséna. Il viceré Eugenio provvide a proteggere la frontiera del Regno Italico sulla destra del Po, ordinando la costituzione di campi di Guardia Nazionale a Bologna, Modena e Reggio, sotto il comando del generale Pino, ministro della guerra. Si concentrarono così 25.000 uomini a cui si aggiunsero i 10.000 regolari della divisione di riserva Fontanelli.
Austerlitz.
In Moravia, il 2 dicembre il sipario si alzò su una delle più grandi battaglie della storia, considerata da tutti gli esperti di storia militare il capolavoro di Napoleone e gli italiani per la prima volta affrontarono gli avversari nell’Europa continentale, dunque fuori da quelli che erano considerati i confini naturali della penisola, a servizio non solo della Francia, ma anche in nome del Regno Italico.
Nella divisione Friant, facente parte del Corpo di Soult, si trovava il 111° reggimento, composto interamente da piemontesi; nella riserva dell’Imperatore erano presenti due battaglioni della Guardia Reale italiana e sei pezzi serviti da italiani.
L’imperatore aveva volutamente lasciato agli avversari le ottime posizioni sulle alture del Pratzen per indurre il nemico ad attaccare e il complicato piano del generale austriaco Weyrother favorì la strategia napoleonica. Per l’attacco principale, il piano degli alleati prevedeva che cinque grandi formazioni di truppe (59.300 uomini) sarebbero dovuti scendere a valle per colpire l’ala destra francese, piegare ad angolo retto il fronte nemico e colpire alla giuntura della linea francese mentre la cavalleria avrebbe tagliato la strada alla ritirata. Il disegno strategico austro – russo poteva sembrare geniale ma in realtà il movimento contemporaneo di tutti quegli uomini non sufficientemente coordinato determinò una congestione che fece perdere tempo prezioso all’esercito alleato. Proprio gli italiani furono i primi ad essere attaccati. A Telnitz, i bersaglieri del Po e i cacciatori corsi subirono l’offensiva dell’avanguardia di Keinmayer e la compagnia carabinieri dei bersaglieri del Po compì dei prodigi di valore riconosciuti anche dallo stesso Napoleone, che affermò “i bersaglieri corsi e del Po si sono condotti eroicamente”.
Illudendosi che tutto stesse andando per il meglio, gli Alleati iniziarono a passare sulla riva sinistra del Goldbach, il fiumiciattolo che di fatto rappresentava la linea di divisione fra i due eserciti rivali. Lì si trovarono improvvisamente attaccati da sei reggimenti di dragoni del generale Bourcier, seguito a poca distanza dalla fanteria di Davout. Senza perdere un istante, Friant condusse il 48° reggimento sostenuto dal 111° all’attacco del villaggio di Sokolnitz conquistandolo. In questo tratto della battaglia la Grande Armée dimostrò tutto il suo potere combattivo, solo 10.300 francesi avevano contenuto, respinto e poi sconfitto non meno di 50.000 alleati. Alle 10 del mattino, quindi sia Telnitz e Sokolnitz, sia la linea del Goldbach erano tornati sotto il controllo dei francesi. Il piano di accerchiamento di Weyrother era fallito, e l’iniziativa era ritornata in mano all’esercito di Napoleone.
Come Bonaparte aveva pianificato esattamente, gli Alleati svuotarono il proprio centro per mettere in atto il loro gigantesco accerchiamento contro la destra francese. Il combattimento si intensificò con l’arrivo della III colonna di Przbyswski a Sokolnitz, dove Legrand resisteva con efficacia agli attacchi. La divisione di Legrand, aveva seco una brigata di cavalleria leggera formata dal 26° e 11° cacciatori italiani. Il 26° nella giornata si ridusse a soli 184 uomini comandati dal capitano Piola. In un momento critico per quelle truppe, giunse in loro soccorso da Goding il colonnello Franceschi comandante l’8° ussari che, grazie ad una brillante carica contro 3.000 russi, coadiuvata da un attacco dei valorosi di Piola, costrinse il nemico ad arrendersi. Alle nove Napoleone ordinò a Soult di prendere il Pratzen. Il maresciallo che lo stesso imperatore aveva definito “il miglior stratega d’Europa” guidò personalmente la carica. Quando il comandante russo Kutuzov si rese conto del disastro era ormai troppo tardi. Cercò di richiamare le truppe che stavano scendendo a valle, ma l’artiglieria leggera della Guardia Reale Italiana ricevette l’ordine diretto dell’Imperatore di portarsi sul fianco del nemico per dare appoggio all’attacco frontale del Corpo di Soult. Alle 12 Soult portò a termine l’occupazione dell’altopiano di Pratzen, mentre il V Corpo di Lannes e la cavalleria di Murat respinsero i russi di Bagration e gli austriaci del principe Lichtenstein sulla sinistra francese. Alle 13 la Guardia Imperiale russa contrattaccò il IV corpo di Soult. La situazione venne ripresa in mano dai francesi grazie all’intervento della Guardia Imperiale che prima difese le alture del Pratzen, quindi mosse verso sud spingendo la sinistra nemica verso i laghi ghiacciati di Satschan. Napoleone fece portare 25 cannoni sul versante sud del Pratzen, che dominava la via di fuga del nemico, e ordinò di bombardare i laghi per spezzarne il ghiaccio. Si ipotizza che finirono nelle acque gelide 2.000 Alleati e 38 squadre di artiglieria. La battaglia era terminata e con essa la guerra della Terza Coalizione.
Il 37° Bollettino della Grande Armata del 3 dicembre 1805 e le numerose ricompense date a italiani, provano l’efficacissimo contributo dato dalle truppe italiane alla vittoria. A sette ufficiali, fra generali, colonnelli e superiori vennero date promozioni nei gradi della Legion d’Onore: i colonnelli Franceschi e Sebastiani furono promossi generali, il principe Borghese colonnello. Furono concesse a italiani 7 croci della Legion d’Onore dello Stato Maggiore, 11 nei bersaglieri del Po, 23 nell’11° reggimento, 6 nel 20° leggero, 12 nel 21° leggero, 4 negli ussari, 11 nel 21° dragoni, 14 nel 26° cacciatori.
L’esercito napoletano.
Il 16 febbraio 1806, Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone, entrò a Napoli alla testa di un corpo di spedizione franco – italiano che dopo aver battuto a Campotenese le truppe borboniche in ritirata, si impadronì di tuta la parte continentale del Regno di Napoli. Giuseppe cominciò a dotarsi di un proprio esercito, con reparti composti in prevalenza dai suoi nuovi sudditi, esercito da affiancare all’Armée de Naples che ancora per qualche anno rimase il più solido puntello del dominio napoleonico nell’Italia Meridionale. Oltre che per una certa sfiducia nell’elemento locale, che andò poi via via scemando, l’esercito napoletano si accrebbe lentamente per motivi politici e, soprattutto, di natura contingente: non si può accrescere l’esercito se non si ricorre alla leva, e la leva è avversata tenacemente da tutta la popolazione; neppure i Borboni erano riusciti ad applicarla con risultati soddisfacenti. È così che i primi due reggimenti di fanteria di linea, organizzati sulla base del decreto del 13 giugno 1806, rimasero i soli di tale specialità fino all’avvento al trono di Gioacchino Murat ed alla sua ristrutturazione dell’esercito. L’organizzazione di questi due reggimenti ricalcava quella francese. A formarli dovevano concorrere napoletani o tutti coloro che erano al soldo del Regno di Napoli, in pratica quanti tra i prigionieri borbonici, napoletani o stranieri, accettarono, più o meno di buon grado, di servire il nuovo regime, cui si affiancò un certo numero, abbastanza modesto, di volontari attratti dai dieci ducati del premio d’ingaggio. Gli ufficiali davano maggior affidamento, sia quelli provenienti dal servizio borbonico, sia, soprattutto, quelli esiliati nel 1799, che tornarono in patria dopo aver servito nell’esercito francese o italico. Si provvide anche all’organizzazione di una marina da guerra, utilizzando le due navi catturate a Castellammare ed armando alcune cannoniere per il servizio costiero.
In aprile navi britanniche si affacciarono nel golfo, destando allarme nei francesi e curiosità nella popolazione. Al comando del contrammiraglio Sidney Smith, la flotta compì varie incursioni lungo le coste di Napoli, spingendosi fino a Gaeta e partecipando dal mare alla difesa della piazza. Al ritorno della flotta inglese verso Napoli i francesi provvidero a fortificare la costa ma Smith non era intenzionato a sbarcare sul continente. Il suo obiettivo era Capri, davanti alla quale si presentò il 13 intimando la resa alla guarnigione composta da alcune compagnie del 22° leggero. Al rifiuto della resa, gli inglesi sbarcarono, seguì una breve scaramuccia di un’ora che costa ai francesi la morte di soli quattro uomini. Ma la bandiera britannica sventolava a poche miglia da Napoli e per assicurarsi il possesso dell’isola l’ammiraglio Smith mantenne una piccola flotta ancorata nel golfo.
Visto che Gaeta ancora resisteva e che Maratea ed Amantea erano insorte contro i francesi e visto che la costa tirrenica era messa sul chi vive dalla flotta di Smith, sembrò giunto il momento di rinnovare le gesta di sette anni prima del Cardinale Ruffo per riconquistare, come allora, la terra ferma. Infatti, mentre i siciliani appoggiati dalla flotta inglese sbarcarono a Reggio, investendo il castello di Scilla e, gli inglesi del generale Stuart sbarcarono a Sant’Eufemia e batterono i francesi a Maida. Questo movimento a sud fece riprendere il mare alla flotta di Smith, non solo per proteggere gli sbarchi e sostenere con le artiglierie delle navi le truppe di Stuart, ma anche per dare fuoco alle polveri della rivolta. Durante tutto il 1806, dunque il Regno di Napoli si reggeva su delle fondamenta molto fragili, unica buona nuova fu la caduta di Gaeta, avvenuta il 18 luglio.
[1] La prima parte è stata pubblicata su questa Rivista, Anno LXXXI ,Supplemento XIX, n. 2, 2021, 19° della Rivista
[2] Particolare curioso, sempre il 17 marzo, cinquantasei anni dopo (1861) Vittorio Emanuele II assunse per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia, data che oggi celebra la nascita dello Stato Italiano.