Luigi Barzini. Corriere della Sera/CSIR.
Gli Italiani nella Campagna di Russia. La Battaglia di Pawlograd. IV Fronte del Don Novembre
GLI ITALIANI NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA
LA BATTAGLIA DI PAWLOGRAD
IV
Fronte del Don. Novembre
Mosca, massimo centro strategico dal quale tutte le comunicazioni dipendono e si irradiano, come i raggi dal mozzo di una ruota, sarebbe stata conquistata dai tedeschi al quarto mese di guerra se il clima autunnale del 1941 fosse stato così mite come questo del 1942.
Il destino umano può alle volte dipendere dalle correnti atmosferiche. Vi sono momenti in cui il corso della storia può essere indicato dal barometro e dal termometro. Se l’anno scorso la Russia non fosse stata, dall’agosto in avanti, il centro quasi permanente di una eccezionale depressione anticiclonica, che attirava i venti artici il cui soffio gelido produceva piogge torrenziali, e poi nevicate seppellitrici, e freddi spaventosi, la guerra antibolscevica sarebbe finita prima dell’inverno.
Le intemperie causarono il ritardo di un mese. L’offensiva germanica non era che a 25 km. da Mosca quando il gelo la inchiodò.
Per degli eserciti europei in terra russa, il freddo invernale è come il tocco di una campana che segnala la fine di un tempo nel pugilato. Bisogna fermarsi, e ricominciare più tardi. Il fatale rintocco suonò per gli alleati quando l’avversario tempestato di colpi, nessuno dei quali aveva potuto parare o rendere, furente ma sopraffatto, era già sul tappeto e si contavano i secondi che lo separavano dalla sconfitta.
Suonando l’”alt”, il freddo lo ha salvato. Egli si è rialzato e si è preparato alla ripresa successiva. Il pugilato continua.
Ricordiamo la situazione sul fronte russo nell’ottobre dell’anno passato, quando ad onta delle piogge incessanti e del fango, che rallentavano le marce e ostacolavano i rifornimenti sugli immensi spazi senza strade, la guerra pareva precipitare irresistibilmente verso una soluzione vittoriosa.
Quattro eserciti russi erano stati annientati; il numero dei prigionieri nemici passava i tre milioni; trentamila carri, ventimila cannoni, quindicimila aeroplani sovietici erano stati presi o distrutti. Pietroburgo era virtualmente assediata. Mosca era minacciata dalla marcia concentrica di tre armate corazzate. Il Governo bolscevico si era ritirato a Samara.
La disfatta russa di Kiew, nella quale seicentomila sovietici erano stati catturati, aveva creato nello schieramento nemico un vuoto che separava da Mosca le forze russe del settore meridionale. Queste combattevano in ritirata, per guadagnar tempo mentre alle loro spalle la devastazione preparava la “terra bruciata”.
Ai tedeschi e agli italiani che operavano ora al di là del Dnisper si imponeva il problema della velocità. Bisognava far presto, avanzare in fretta, ad ogni costo, sfruttare subito e al massimo il successo del passaggio del Dnisper a Dnjepropetrowsk e a Krementsciung. Urgeva irradiare poderose colonne corazzate al nord, all’est, al sud, impadronirsi delle grandi linee di comunicazione, delle ferrovie, dei ponti, assicurarsi le future arterie di rifornimento, piombare più lontano che fosse possibile sui capisaldi nemici, penetrate, avvolgere, sgretolare, distruggere ogni dispositivo della difesa quando questa era ancora disorientata e impreparata.
Ai primi primi giorni di ottobre, due corpi corazzati tedeschi, concentrati a Nowomoskowsk – una trentina di chilometri al nord di Dnjepropetrowsk -, sono partiti verso il sud, piombando per Saporoscie giù giù fino al Melitopol, sul mare di Azow, con la irresistibile pesantezza di una massa di acciaio che cada. A proteggere la sinistra scoperta di questa formidabile colonna ha concorso il corpo italiano, che è andato a schierarsi a levante, lungo il fiume Woltscia.
Lo schieramento era a cavallo della importante ferrovia Dnjepropetrowsk – Stalino, di fronte alla città di Pawlograd, dove i russi sbarravano il passaggio per Stalino con una forte testa di ponte. Il terreno era impervio, nudo, screziato da acquitrini, solcato per ogni verso da rivoli e fossi. Perché questi fiumi russi, non guidati da monti e da valli, indugiano in mille giri sulla sterminata pianura, riposano in vaste stagnazioni, si scompongono in ramificazioni capricciose, mutano direzione a ogni passo.
Per impedire ai nostri soldati di lavorare ai trinceramenti, i russi sferravano attacchi su attacchi, bombardavano e mitragliavano senza soste, spingevano avanti sulla ferrovia trni blindati a rovesciare bordate di fuoco, tentavano colpi di mano. Gli italiani rispondevano colpo su colpo contrassaltando alla baionetta e a bombe a mano.
Bisognava eliminare presto quella testa di ponte urgendo passare il Voltscia e marciare su Stalino, massimo centro industriale del Bacino del Donez. Ci è voluta una grossa battaglia durata tre giorni, dal 9 all’11 ottobre.
Italiani e Tedeschi hanno attaccato insieme. Il C.S.I.R. aveva costituito un raggruppamento motorizzato, formato di CC.NN. motociclisti, e alcune batterie di medi calibri, per proteggere la sinistra delle forze che attaccavano la testa di ponte. Il grosso di queste forze era germanico, con la divisione italiana “Pasubio” alla sua sinistra.
CC.NN. e motociclisti, appoggiati dai medi calibri nella mattina del 10 si sono gettati, in un movimento aggirante, con tale impeto sulla destra dei russi, in un movimento aggirante, con tale impeto sulla destra dei russi, che questi hanno ceduti. Il loro schieramento è stato sfondato dall’assalto italiano.
La lotta è stata accanita, sanguinosa, con frequenti corpo a corpo, ma prima di mezzogiorno il villaggio fortificato di Misciritsh, importante caposaldo russo, era espugnato. Contrattacchi nemici venivano respinti, i nostri avanzavano. Superavano profondi fossati anticarro, reticolati, campi di mine. Prima di sera la penetrazione del raggruppamento arrivava a minacciare alle spalle i russi, che principiarono a ritirarsi dalla testa di ponte, abbandonando il terreno costellato di morti e lasciando nelle nostre mani centinaia di prigionieri e gran bottino di armi.
La battaglia continuò il giorno dopo. I russi furono ricacciati al di là del fiume. Gli italiani arrivarono al ponte della ferrovia, a ponente della città, e i tedeschi raggiunsero il ponte rotabile dal quale si accede a Pawlograd. Ma questo ponte era saltato. I pontieri italiani gettarono rapidamente un ponte di barche e un forte gruppo corazzato germanico passò, con un fragore da uragano. Attraversò l’abitato e continuò veloce verso nord-est su Losowja diretto a Charkow.
Era quello il momento vertiginoso della guerra in cui le colonne corazzate tedesche, scattando impetuose dai varchi aperti su obiettivi lointani, pareva stessero sezionando la Russia come una torta. Le forze russe tagliate fuori da queste scorribande sparivano divorate da attacchi concentrici. Ogni sacca che si formava era come uno stomaco che digeriva eserciti.
Le perdite dei bolscevichi in uomini, armi e risorse erano così enormi, che non si credeva che i russi possedessero riserve e mezzi sufficienti per ricostruire un solido fronte difensivo. Il nemico era in grave crisi evidente, e i tedeschi intendevano sfruttarla a fondo e subito, dentro il mese di ottobre, prima del freddo.
Ma il freddo arrivava in anticipo. All’inizio di ottobre già cadeva la neve. L’investimento di Pietroburgo e di Mosca avveniva nelle prime tormente. La paralisi del gelo era imminente. Bisognava non perdere un giorno, non perdere un’ora. Alle nevicate succedevano riprese di pioggia, ghiaccio e fango si alternavano per ostacolare i movimenti delle truppe e l’afflusso dei rifornimenti.
La lotta era immensamente drammatica. I tedeschi avevano la vittoria nel pugno, quasi, quando all’istante di afferrarla si sentivano a poco a poco fermati dall’inverno artico, al quale non erano completamente preparati. Ma nell’ottobre si aveva ancora la certezza di una rapida conclusione vittoriosa e decisiva della campagna.
Nel settore meridionale del fronte russo, meno colpito dal rigore della stagione, la guerra di movimento continuava attiva, impetuosa, fortunata. Obbiettivo immediato dopo la battaglia di Pawlograd era la conquista del bacino industriale del Donez. Intanto l’armata al sud su Melitopol al Mare di Azow, vedeva aprirsi davanti a se vaste possibilità.
In armonia all’avanzata nel bacino del Donez, l’Armata corazzata da Melitopol poteva tentare di spingerli verso il Caucaso, se si riusciva, passato il Donez, a forzare il grande ostacolo del Don, a nord-est di Rostow. Il progetto era grandioso, ma non vi è vastità di disegni che l’iniziativa germanica non sappia affrontare.
Stalino, Tganrog, Rostow, – cioè il Bacino del Donez, la foce del Don e la prima soglia del Caucaso – erano dunque gli obiettivi immediati dell’offensiva germano-italiana.
Il Corpo Italiano fermava l’ala settentrionale dello schieramento alleato del quale proteggeva il fianco sinistro da possibili attacchi provenienti dal nord, e aveva il compito di investire la zona industriale di Stalino, cuore del Bacino del Donez.
Comincia una nuova fase di intenso movimento, di marcie forzate, di accaniti combattimenti. Dallo schieramento, lungo 150 chilometri, sul Woltscia, gl’italiani vanno a concentrarsi su punti di passaggio obbligato, cioè sulle sponde dei fiumi ai quali le piste conducono e dove erano ponti che non esistono più. Bisogna costruirne dei nuovi, forzare il varco, avanzare. Tre divisioni russe sbarcano la strada di Stalino con violente resistenze di retroguardia, da fiume a fiume. Di tanto in tanto si incappa in campi di mine, di cui i russi fanno larghissimo uso, disposti a cavallo delle strade.
Le piogge e le nevicate che si alternano, rendono le piste orribili. I rifornimenti rimangono spesso fermati dal pantano.
La marcia nel fango è faticosa e lenta. I soldati sono coperti di melma. Sembrano statue di creta. Gli autocarri affondano fino ai mozzi.
I fiumi che attraversano la strada per Stalino offrono forti appigli alla difesa. Ma verso il nord il terreno è più aperto, più facile. Si espande in vastità nude e steppose sulla quale i fiumi secondari, tributari del Dnieper e del Donez, si assottigliano e svaniscono. Viene allora deciso di aggirarci per il nord gli sbarramenti bolscevichi.
È questa una manovra audace, su vastissimo fronte, in cui le colonne di attacco debbono operare a grande distanza l’una dall’altra, con la possibilità che sullo spazio aperto il nemico possa lanciare corpi corazzati. Non vi sono strade, ma si può passare per tutto. Vien fatto di ricordare la guerra nel deserto, dove pure non esistono limiti di visibilità e dove le unità combattenti possono muoversi in qualsiasi direzione nella uniforme immensità.
Con l’attacco su Stalino il Corpo italiano si addentrava sempre più in un modo sinistro di testre grandiosità e di abbiette miserie, di macchine giganti e di formicai umani: il mondo delle nuove immense industrie estrattive e siderurgiche sovietiche, vasto regno della fatica nera, moderno e barbarico, del quale Dnjepropetrowsk e Saporosce erano le poderose avanguardie.
LUIGI BARZINI