Valentina Trogu 8 settembre 1943 – la società italiana dopo l’armistizio

  

 

L’Italia dell’8 settembre 1943 è un Paese allo sbando, abbandonato da quella stessa classe dirigente che appoggiando il Fascismo ha costretto gli italiani ad affrontare una seconda Guerra Mondiale sotto una dittatura cinica e incurante delle conseguenze di un evento terribile. La fuga del re e di tanti generali da Roma, l’esercito lasciato senza direttive, le ferite profonde inferte in venti anni di fascismo hanno contribuito a segnare una pagina nera della storia dell’Italia che, ancora oggi, è piena di dilemmi e incongruenze.

Nel giorno della vergogna, con l’annuncio dell’armistizio con gli Alleati si apre, però, la possibilità per gli italiani di dimostrare la volontà di prendere in mano il proprio destino cancellando venti anni di persecuzioni, violenza psicologica e autoritarismo. La popolazione è divisa in due; da una parte gli antifascisti decisi a smantellare le fondamenta dell’edificio fascista distruggendo l’intero sistema di valori e dall’altra parte gli italiani fascisti che faticano a scrollarsi di dosso la scuola della violenza, della sopraffazione e dell’intolleranza. Crescere tra incitazioni all’odio per il diverso, criminalizzazione del nemico, lealtà nei valori guida del culto della potenza significa interiorizzare una cultura di ostilità e di vendetta.

 

La confusione dilagante caratterizzerà i due anni successivi all’armistizio dell’8 settembre mentre il vuoto lasciato dalla fuga del re e dall’assenza di una guida politica e morale è alla base della guerra fratricida che durerà fino al 1945. La mancanza di ideali condivisi e delle regole civili di riferimento è deleteria per la società e l’unico strumento individuato come possibile via di fuga da questo dilagante senso di impotenza, di vergogna e di sbandamento è la lotta armata. La perdita di morale ossia di valori e ideali condivisi, infatti, crea il caos nel sistema sociale di riferimento.

La morale è alla base delle scelte dei comportamenti degli individui e viene stabilita partendo dalla realtà sociale e politica, dall’organizzazione economica e giuridica e dalle tradizioni di un Paese. Far propria una morale significa avvicinarsi agli altri, accettare le dinamiche che consentono ad una società di trovarsi in equilibrio e di evolversi perché l’agire è condiviso, accettabile e vincolante.

Il sociologo polacco Bauman parla del concetto di “persona” esprimendolo nell’ambito dell’interazionismo simbolico e sottolineando la presenza di una maschera che ogni individuo indossa nel momento in cui ricopre un ruolo per essere accettato dal gruppo.  L’insieme di tutte le maschere forma l’identità della persona stessa ma cosa accade quando i ruoli non sono definiti, quando non ci sono regole o valori specifici a definire l’azione?

La responsabilità morale verso il prossimo viene meno e per ritrovare sé stessi e il proprio Paese può essere necessario trasferire la ricerca della moralità in una guerra civile com’è accaduto quell’8 settembre 1943. Italiani fascisti e antifascisti si sono ritrovati ad interrogarsi sulle basi del contratto sociale mentre intorno aleggiava la tragicità di un conflitto visto come l’unico modo per scuotere tutta la popolazione e risvegliarla dal sogno fascista ormai naufragato spronandola ad affrontare le proprie responsabilità e a compiere scelte che avrebbero delineato il percorso futuro.

La definizione “contratto sociale” è stata suggerita da Jean Jacques Rousseau nel trattato filosofico e politico del 1762 come risposta all’esigenza di definire un modello politico di società che, nell’impossibilità di ritornare allo stato di natura primigenio e constatata la crisi in cui versa l’uomo moderno, garantisca la costituzione di uno Stato democratico e assicuri la tutela della libertà individuale di ciascuno.

Tutto nasce secondo Rousseau da due aspetti tra loro strettamente collegati; l’individualismo dei cittadini, da cui deriva l’origine del potere politico, e il contrattualismo inteso come l’idea che l’associazionismo politico non possa esistere senza la sussistenza di un accordo razionale e convenzionale in grado di superare la legge del più forte definita dal filosofo come “patto leonino”. Rousseau parla di un Io comune garante dei diritti e delle libertà individuali come collante del contratto sociale la cui natura associativa tende a risolvere la condizione di ineguaglianza instaurata tra gli uomini. Di conseguenza la possibilità di raggiungere un ordine sociale è in Rousseau strettamente collegata alla giustizia politica e ha un valore spiccatamente morale.

Dove manca la morale regna il caos e se, in più, si aggiungono venti anni di dittatura, di rinuncia ai sogni, di constatazione che l’annunciata fine della guerra in realtà non si tradurrà in fatti la società si dirige verso lo sbando più totale. Non è possibile alienarsi, distaccarsi dalle vicende e far finta che il compito di risolvere la questione sia degli altri. L’8 settembre segna l’inizio di un maggior coinvolgimento degli italiani nella definizione del futuro del Paese e nella ricostruzione di quella Patria che secondo lo storico Carlo Greppi era morta da un pezzo. Volenti o nolenti, tutti i cittadini sono stati chiamati a scegliere se combattere il nazifascismo oppure no, se abbracciare l’idea di una violenza difensiva considerata giusta per accelerare la fine del conflitto o attendere un’involuzione naturale che presto o tardi sarebbe arrivata.

Decisioni da prendere velocemente, decisioni da prendere in autonomia per i tanti soldati rimasti privi di una guida e di indicazioni su chi fosse il nemico da combattere; giovani uomini con armi in mano chiamati ad affrontare una guerra mettendo a repentaglio la propria vita per difendere i compagni, gli italiani e l’onore di una Patria che, alla fine, è stato calpestato da una classe dirigente che pensava unicamente agli interessi personali.

Con l’8 settembre abbiamo assistito alla perdita dell’onore politico ma non dell’onore militare; le scelte sbagliate non sono partite dai soldati che hanno accolto seppur con reticenza il ruolo di difensori dell’Italia assegnato loro ma dall’incapacità della classe dirigente di prendere le giuste decisioni a causa di una totale assenza di conoscenza della cultura militare. Le terribili conseguenze della Prima Guerra Mondiale non sono state sufficienti per non far ripetere l’errore di iniziare un conflitto senza gli strumenti idonei per affrontarlo limitando al massimo i devastanti effetti sul Paese e sui cittadini.

La storia, ancora una volta, non è riuscita ad essere un esempio per la classe politica italiana e, purtroppo, vicende di un recente passato sembrano identificare questa incapacità di comprensione degli errori per evitare di ripeterli come una caratteristica intrinseca della nostra nazione.