di Alfonso Licata *
La spedizione dei navigatori genovesi Vadino e Ugolino Vivaldi ha rappresentato un episodio mitico e ammantato di grande mistero, intrapresa nella primavera dell’anno 1291 con l’intento transoceanico di raggiungere le Indie attraverso la circumnavigazione dell’Africa. La notizia dell’impresa di viaggio dei fratelli Vivaldi ci era giunta, fino ad oggi, soltanto attraverso gli Annales di Genova scritti dal cronista Jacopo Doria,articolata nel seguente passo:
“In quell’anno, Tedisio Doria, Ugolino de’ Vivaldi e suo fratello, con alcuni altri cittadini di Genova, intrapresero un viaggio che nessuno mai fino ad allora aveva tentato. Armarono di tutto punto due galee, vi caricarono cibo, acqua e quanto altro serviva, e nel mese di Maggio le misero in mare dirette allo stretto di Ceuta: volevano raggiungere l’India navigando per l’Oceano, per riportare da lì prodotti utili. Su queste galee partirono i due fratelli Vivaldi in persona e due francescani. L’impresa parve un evento straordinario non solo a chi la vide, ma anche a chi ne sentì parlare. Passarono dalla località di Gozora; ma da lì in poi non abbiamo più saputo nulla di loro. Dio li protegga e li riporti a casa sani e salvi.
Ebbene, una nuova fonte recentemente venuta alla luce, ci rende nota una diversa sorte dei fratelli Vivaldi: essi, contrariamente a quanto si è sempre pensato, non sarebbero naufragati e dispersi con le loro galee durante la traversata oceanica al di là delle Colonne d’Ercole, ma non avrebbero fatto mai ritorno in patria volontariamente, a causa del grande pericolo che incombeva per affrontare il viaggio di ritorno. Si tratta della Cronica Generalis sive universalis del frate domenicano Galvano Fiamma, un’opera manoscritta incompiuta, scritta pare verso il 1340, che rappresenta, nelle intenzioni dell’autore, una storia del mondo fin dalla sua origine – la Creazione – e attualmente si trova in possesso di un privato collezionista negli Stati Uniti .
Da dove attinge il frate domenicano le sue notizie, tra cui quella sulla sorte dei fratelli Vivaldi? Egli stesso ci svela la fonte della sua narrazione come è nel suo abitudinario modo di scrivere: un Tractatus de mappa Ianuensi quam composuit sacerdos Sancti Marchi de Ianua scritto da un altro frate domenicano, Giovanni da Carignano, illustrissimo pioniere della storia della cartografia medievale, Rettore della Chiesa di San Marco in Molo, ubicata all’interno del porto di Genova fino alla sua morte, avvenuta nel 1329 . Quest’opera di Giovanni da Carignano, ancorchè conosciuta per il fatto di essere menzionata dal Supplementum cronicarum di Giacomo Filippo Floresti (a sua volta probabile fonte del Galvano Fiamma ) sembrava essere perduta. Galvano , pertanto, prende le sue notizie dal Tractatus de mappa di Giovanni da Carignano, che costituisce uno scritto aggiuntivo ed integrativo di mappe o planisferi, ove sono contenute informazioni che, per la loro estensione e numero, non potevano essere riportate sulle mappe , carte nautiche , portolani o mappamondi.
Ma l’illustre cartografo, a sua volta, da chi attinse le notizie? E qui Galvano Fiamma ci rivela, con circa cento anni di anticipo, che nell’anno domini MCCC ( anno 1300, da intendersi però indicativamente ) vi fu il primo contatto diplomatico fra la denominata “Etiopia” dell’epoca medievale e l’Europa occidentale, per mezzo di una lettera dell’Imperatore di Etiopia diretta al Re di Spagna, affidata a ben trenta ambasciatori, contenente una proposta di alleanza militare contro i musulmani, lettera che, a causa del decesso del Re di Spagna, (identificato senza dubbio con Ferdinando IV di Castiglia e Lèon, regnante dal 1295 al 1312) fu consegnata ad Avignone al Papa Clemente V (in carica dal 1307 fino alla sua morte avvenuta nel 1314).
Nel racconto di Galvano Fiamma riferentesi alla spedizione dei fratelli Vivaldi compare un comandante dal nome sconosciuto, tale Uberto di Savignone e si riporta il racconto degli ambasciatori, come anzidetto,i quali dissero che i Genovesi fratelli Vivaldi erano giunti nella loro terra, ma avevano rinunciato a tornare in patria per le difficoltà del viaggio. Riporto di seguito il passo, tradotto dal latino:
“Non furono soltanto quegli ambasciatori etiopi a venire da noi, ma una volta anche alcuni dei nostri andarono da loro; lo raccontarono quei trenta ambasciatori nella città di Genova. Si sa che nell’anno 1290 due galee genovesi, con imbarcati più di 600 cristiani e alcuni chierici ; i comandanti erano Uberto di Savignone e [ ]. Essi oltrepassarono lo stretto di Spagna e, navigando per il mare Atlantico, giunsero nell’Etiopia, a sud dell’Equatore. Non avevano più viveri; scesero a terra e si misero a razziare tutto ciò che trovavano, perché morivano di fame. Furono catturati e portati dall’imperatore che si è detto, e questi, saputo che erano cristiani e sudditi della Chiesa romana, li incontrò volentieri, li onorò molto e conferì loro grandi dignità. Non rientrarono più a Genova: non se la sentirono di tornare per mare, per i pericoli che vanno oltre ogni immaginazione, e non poterono tornare per terra, perché in mezzo stanno i musulmani, che cercano di impedire con tutte le loro forze che i cristiani vadano in Etiopia e che gli Etiopi vengano da noi, perché temono che si alleino contro di loro, cosa che sarebbe la loro fine. Tutto questo lo narrarono gli ambasciatori dell’imperatore di Etiopia che furono a Genova, e che videro quei Genovesi in Etiopia.”
Non vi è dubbio che la spedizione di cui parla Galvano Fiamma sia quella di cui parla Iacopo Doria nei suoi Annales.
Vi sono alcuni punti in cui non vi è perfetta coincidenza nei particolari ( l’anno riportato nel manoscritto è il 1290, e non il 1291; i componenti dell’equipaggio vengono indicati in numero di 600, un po’ troppi; il comandante non è un Vivaldi, ma tale Uberto di Savignone (località vicino a Genova).
La cosa piu’ interessante risiede però in quel che Galvano Fiamma dice della sorte dei naviganti: essi non scomparvero nell’oceano facendo naufragio, ma approdarono in una terra chiamata “Etiopia”, dove vennero bene accolti. I marinai dell’equipaggio, finite le vettovaglie, sbarcarono, si diedero al saccheggio e furono catturati dai soldati dell’Imperatore di Etiopia; questi, accertato che erano cristiani, li accolse con molti onori e concesse loro di rimanere nel suo regno. Non tornarono indietro perché non se la sentirono di affrontare di nuovo, a ritroso, un così pericoloso viaggio.
Un altro aspetto importante ai fini della ricostruzione storica, in ordine alla notizia riportata da Giovanni di Carignano sull’esito della spedizione dei fratelli Vivaldi, è dato dal fatto che gli eventi riferiti sembrano ben conciliarsi con alcune notizie provenienti da altre fonti considerate fantasiose e non affidabili dagli studiosi, che del pari accennano alla sopravvivenza dei navigatori Vivaldi in Africa e ai grandi pericoli della navigazione.
In proposito giova qui ricordare che Il Libro del conosçimiento de todos los reynos….., (un insieme di relazioni di viaggi immaginari) scritto verso il 1375 da un religioso anonimo, parla del viaggio intrapreso anni dopo da un genovese di nome Sorleone, imbarcatosi alla ricerca del padre Ugolino Vivaldi: ecco la traduzione del passo:
“A quanto mi dissero nella città di Graçiona, lì erano stati portati i genovesi che erano scampati al naufragio della loro galea ad Amenuan; dell’altra galea, che si era salvata, non conoscevano la sorte… Nell’altra città di Magdasor mi raccontarono di un genovese, di nome – dicevano – Sorleone, che era andato lì in cerca di suo padre, che era partito con le galee di cui si è parlato. Gli avevano tributato tutti gli onori; Sorleone voleva passare nell’impero di Graçiona per cercarlo, ma l’imperatore di Magdasor glielo impedì perché il viaggio era troppo incerto, per i pericoli lungo la via.”
Ancora: nell’anno 1453 il cosiddetto Itinerario di Antoniotto Usodimare accenna alla spedizione dei Vivaldi, evidenziando la sopravvivenza in Africa di gente che faceva parte dell’equipaggio:
“Nell’anno 1290 partirono da Genova due galee, armate dai fratelli Vadino e Guido de’ Vivaldi, che volevano andare in Oriente, nelle regioni dell’India. Le galee fecero una lunga navigazione; ma quando arrivarono nel mare dell’Etiopia, una delle due si incagliò in una secca, e non riuscì più a proseguire. L’altra continuò il viaggio e attraversò quel mare fino a giungere a una città dell’Etiopia chiamata Mena. Lì furono catturati e tenuti prigionieri dagli abitanti, che sono cristiani dell’Etiopia, sottomessi al Prete Gianni. Quella città si trova sul mare, presso il fiume Sion. La loro prigionia fu tale che nessuno di loro poté poi ritornare da lì. Tutto questo fu raccontato da mercanti etiopi nella città del Cairo.”
Concludendo , possiamo oggi ritenere che, con ogni probabilità, queste notizie già da tempo conosciute risalgono alla conoscenza del Tractatus de mappa di Giovanni da Carignano: il manoscritto di Galvano Fiamma, che da questo attinge, apre quindi un’altra finestra sulla conoscenza storica e, all’esito degli approfondimenti delle ricerche in corso, potrebbe riservarci altre clamorose rivelazioni.