Memorie dalla S. A. U. S. A. – FOLIGNO
Caserma Gen. Ferrante Gonzaga del Vodice
97° Corso 1979 – 1980
Ten. Cpl Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta
Al mattino presto di un autunnale giorno di fine ottobre del 1979 con alcuni giorni di ritardo, concessi per un esame universitario, partii per Foligno.
Mia madre si alzò presto per preparare la colazione e darmi gli ultimi indumenti, mentre mio padre finiva di vestirsi perché voleva accompagnarmi nel viaggio fino all’ingresso della Caserma.
Fatta colazione e controllata la valigia la mamma mi seguì fino al pianerottolo, mi abbracciò forte, seguendoci con lo sguardo mentre scendevamo le scale, poi si affacciò al balcone e ci salutò.
Il viaggio in ferrovia con la cartolina precetto seguì la via più breve, anche se più scomoda, con vari cambi che andavano da Genova a Pisa, da Pisa a Firenze, da Firenze via Arezzo a Foligno, lungo il viaggio non furono fatti lunghi discorsi, si guardava il panorama.
Giunti a Foligno, la caserma era lungo il viale della stazione, con l’ingresso a poche decine di metri, ci avviammo verso di essa e al portone di ingresso mio padre si fermò, mi diede la valigia e ci salutammo, io giunto alla soglia del portone mi girai e prima di entrare lo guardai, lui alzò la mano in segno di saluto, mentre la sentinella mi salutava sull’attenti sibilando un “Son tutti…..tuoi!”.
Dopo essere stato alloggiato come ospite per la notte nella batteria alpina, nel giorno dopo fui condotto al comando e dopo breve colloquio assegnato alla pesante.
Mi trasferii presso la 3^Btr. dove mi fu assegnata la branda, venni portato al magazzino per la vestizione e consegnati i manuali di studio per le materie.
La caserma, con un ampio cortile costeggiato da un alto porticato, era stata costruita negli anni ’70 dell’ ‘800 ed era stata sede di un reggimento di artiglieria ippotrainato.
Le camerate, con un alto tetto a capanna, erano prive di riscaldamento, così come per i servizi dell’acqua calda, durante l’inverno le temperature scendevano a pochi gradi sopra lo zero.
Si dormiva con guanti e passamontagna, la tuta da ginnastica sopra mutandoni e guanti di lana, con doppia coperta, nelle camerate si vedeva d’inverno l’alito condensare.
L’acqua gelata al mattino dava una notevole scossa e l’idea di lavarsi il viso e fare la barba non attirava, poi una volta alla settimana venivamo portati di corsa in tuta da ginnastica, con asciugamano e sapone appresso, alle docce calde in fondo alla caserma; l’attraversare il cortile al freddo, soprattutto umidi al ritorno, non era piacevole e il correre era il solo sistema per scaldarsi, si capiva bene che il corso invernale era quello più temuto.
Anche l’accesso alla mensa, nella parte più interna, avveniva attraverso due file sul cortile, l’una con tettoia per i “vecchi”, corso anziano, l’altro allo scoperto per i “pistri”, il corso nuovo, d’inverno si battevano i piedi e si alitava sulle mani, per non parlare se pioveva, allora tutti addossati al muro.
Lo studio avveniva in camerata e nelle aule, tutte senza riscaldamento, l’unico posto riscaldato era lo spaccio in cui ci si rifugiava e si indugiava, magari con la dispensa in mano, ma lo spazio era piccolo e più di tanto non si poteva.
Vi era tuttavia una convenzione per noi allievi ufficiali con una società culturale folignate dotata di biblioteca, sala per la televisione e bar, ambienti riscaldati, vi era affollamento alla libera uscita con i libri per leggere al caldo, altro punto caldo era fare cena presso qualche pizzeria.
Una di queste era poco lontana sia dalla caserma che dalla stazione, frequentata da ferrovieri, era piccola e si aspettava in fila fuori per entrare, si mangiava appollaiati su sgabelli con viso al muro ma vi era il caminetto per la cottura di pizze, focacce, uova strapazzate e salsicce.
Mentre la fiamma allegramente scoppiettava alimentata da legna, noi si osservava bevendo un bicchiere di vino umbro e aspettando la cottura, il proprietario nel frattempo mentre infornava scherzava con due donne sue parenti, mantenendo allegra l’atmosfera, talvolta per non uscire si ordinava due volte, fuori era gelato e rientrare in caserma prima del dovuto rattristava.
I servizi erano di vari tipi e andavano dalla pulizia delle camerate, alla pulizia dei cortili e della mensa, al servizio di piantone, caporale e sergente di giornata.
Il più noioso era la pulizia dei cortili in autunno, durante la caduta delle foglie dei platani, di cui erano ricco il cortile e le sue adiacenze, ogni folata di vento portava per il cielo e per tutta la caserma una miriade di foglie gialle e marroni che dovevano immediatamente essere raccolte.
Era un continuo correre con un carretto e due scope di saggina da un punto all’altro della caserma, mentre gli ufficiali di giornata continuavano ad indicare i vari accumuli che si formavano, una vera ossessione senza fine.
Una cosa del tutto diversa le guardie che si dividevano in due tipi, in caserma ed esterne, presso la polveriera di Uppello e il deposito NBC di Scansano, a parte era la ronda che usciva dalla Caserma insieme con gli allievi e gli artiglieri della Batteria Comando Servizi nella libera uscita, per rientrare con loro.
La guardia in caserma era quella più stretta e consisteva sia nella guardia in altana che la ronda interna, la prima era la più sgradevole in quanto durante l’inverno si doveva stare fermi al vento, ma era nota una leggenda, che passava di corso in corso, secondo cui di notte da una delle altane si poteva vedere dalle finestre dei caseggiati di fronte una bella donna che si spogliava prima di andare a letto. E’ inutile dire che nessuno l’aveva mai vista ma ad ogni corso c’era chi giurava di averla ammirata, circostanza che spingeva gli allievi a salire in altana nel freddo della notte invernale, speranzosi e vigili per il premio promesso.
Tuttavia le guardie preferite erano il deposito NBC di Scansano e la polveriera di Uppello. Il deposito di NBC erano dei capannoni non molto grandi su cui si vigilava la notte, essendovi di giorno delle guardie giurate, mediante delle ronde, durante le quali si parlava della vita di caserma, dei colleghi, dei superiori, ma molto della famiglia e della propria terra, per finire talvolta a guardare la volta celeste, scura ma piena di stelle, chiedendoci chi vi fosse lassù, cercando di individuare le costellazioni e la scia della Via Lattea, sognando di andare verso l’infinito.
Ancora più solitaria la guardia alla polveriera di Uppello, una valletta vicino a Foligno circondata da boschi di basso arbusto, con un torrentello su un lato le cui bianche acque mormoravano tenendo compagnia nelle lunghe solitarie ore notturne di guardia, quando si girava avanti e indietro all’interno della doppia recinzione su scoscesi sentieri di pietra.
Tirava un gelido vento dai monti circostanti che si infila ululando nella valletta, si sentivano talvolta il fruscio di volpi o cinghiali e, immediatamente, si impugnava il fucile nervosamente, aspettando nella penombra delle luci gialle dei fari illuminanti la recinzione chissà quali assalitori, era il tempo del terrorismo.
In lontananza sul monte, oltre il torrente una misteriosa luce, era l’Abbazia di Sassovivo avvolta nell’oscurità del bosco, con sopra una corona di stelle, si cercava di leggere lo sciame della Via Lattea, mentre si immaginava la vita di coloro che vivevano nell’Abbazia.
La guardia alla polveriera aveva il pregio per noi allievi di rimanere isolati per un giorno intero, da sera a sera, senza superiori se non il comandante della guardia e di essere riforniti in cucina di ogni bene, arrivavano ceste di pane e arance, bottiglie di rosso di Montefalco, gallette, salumi e biscotti.
Più noiosa la ronda, costituita da un caporale e due allievi, doveva girare per le strade della città per tutta la sera con possibilità di accesso ai locali pubblici per controllo, finiva spesso per riposarsi, con la scusa di un controllo, al cinema dove si sedeva nell’ultima fila al buio, si guardava parte del film e prima che si accendessero le luci usciva.
Le lezioni dal lunedì al venerdì erano generalmente di 45 minuti per diciotto materie teorico-pratiche, il sabato mattina pulizia del pezzo o delle armi, in alternativa educazione fisica.
Gli artiglieri alpini avevano in aggiunta la guardia ai muli, dovevano pulire controllare e dare da mangiare ai muli della batteria, un servizio che veniva talora affibbiato per punizione. Un giorno vedemmo un mulo, con una coperta sulla groppa, girare per il cortile accompagnato dal conduttore, alla nostra meraviglia ci fu risposto che aveva una polmonite e il veterinario aveva suggerito di farlo muovere per superare la costipazione polmonare, pochi giorni dopo venimmo a sapere che era morto.
Le materie formative generali erano le seguenti:
Arte Militare;
Tiro – Armi;
Lezioni di tiro;
Addestramento NBC;
LCB – Mine;
Topografia;
Formazione del Comandante;
Regolamenti;
Scuola Comando;
Addestramento individuale al combattimento;
Addestramento di Pattuglia.
Le specifiche d’Arma erano:
Tiro;
Trasmissioni;
Impiego di Artiglieria;
Materiale di Artiglieria;
Servizio al pezzo;
Esercitazioni applicative di tiro e di trasmissioni;
Esercitazioni topografiche, esterne e a fuoco.
Ogni sei settimane eravamo sottoposti ad accertamenti scritti ed orali, nel caso di esame orale nel cortile, ai piedi della camerata, venivamo inquadrati e marciando condotti al comando posto sopra l’ingresso della caserma.
Giunti al comando si rompevano le righe e, salite le scale, attendevamo in riga sul corridoio la chiamata nominativa, al che si entrava e messi sull’attenti ci si presentava, l’ufficiale esaminatore seduto dietro la scrivania, mentre compilava la nostra scheda poneva le domande, noi, messi a riposo, ad ogni domanda scattavamo sull’attenti e con lo sguardo fisso in avanti si rispondeva.
Quando tutti eravamo stati esaminati, nuovamente inquadrati sul cortile, si tornava marciando alle camerate.
Il fine settimana era il momento o delle 48 ore di licenza breve o delle lunghe libere uscite, che ci permettevano di visitare le località umbre del distretto militare, senza uscire dai confini indicati.
Assisi, Spello, Trevi, Le fonti del Clitumno, Spoleto, Perugia e Gubbio erano visitate la Domenica, mentre viaggi notturni venivano affrontati per usufruire al massimo della licenza breve.
La prima licenza concessami fu imprevista, lo seppi il venerdì mattina e partii senza poter avvertire i miei genitori, non vi erano cellulari allora, viaggiai tutta la notte e al mattino presto mi presentai alla porta di casa. Erano passate solo tre settimane, mio padre, carabiniere in congedo, si spaventò pensando che mi fossi allontanato senza permesso, mia madre mi abbracciò felice.
Nell’appoggiare la valigetta in camera notai il letto sfatto, senza coperte e lenzuola, con il solo materasso e cuscino senza federa, mi diede un senso di abbandono, come se non dovessi più ritornare, la mamma, classe 1918, cresciuta nei primi trent’anni della sua vita in un clima di continua guerra, riviveva la mia partenza come un richiamo preparatorio per una possibile nuova guerra.
Passava le giornate, come le avrebbe passate durante il mio servizio di prima nomina ad Elvas (Brixen), zone della Grande Guerra, a cucire e fare la maglia di lana seduta presso il telefono, aspettando le mie chiamate o l’eventuale scampanellata del postino.
Durante la breve licenza mi portai la dispensa sulle Trasmissioni, materia su cui ci sarebbe stata l’esercitazione al mio rientro, che studiavo nelle ore di viaggio e nella sera tra sabato e domenica.
Nel viaggio di ritorno, con nella valigia gli indumenti invernali, visto il clima continentale, partendo il pomeriggio di domenica, arrivato verso le 24,00 a Torontola in Umbria, non vi era fino alla mattina alle 6,00 un locale per Foligno, tuttavia davanti alla stazione abitava una signora che affittava le camere per la notte, mi fu indicata la casa dai ferrovieri.
Suonai e mi fu aperto da una signora anziana, dai capelli tutti bianchi, mi presentai e lei mi condusse ad una piccola stanza disadorna, nel pagare le chiesi per la sveglia e lei gentilmente mi rispose che mi avrebbe chiamato verso le 5,00, come puntualmente avvenne, quando sentii bussare alla porta.
Il treno locale arrivava verso le 7,00, giusto in tempo per entrare in Caserma, depositare la valigia in camerata, indossare la mimetica e rispondere all’appello.
Venne il giorno del giuramento, provammo per settimane tutti i pomeriggi, compreso il sabato mattina, la marcia e le manovre perché lo stile fosse perfetto, arrivarono le autorità e i familiari, tutti dovevano rimanere soddisfatti e ammirati dall’ordine e dalla disciplina.
I miei genitori partirono la sera prima e alla mattina erano all’ingresso della Caserma e dal palco dei familiari, con le autorità, assistettero orgogliosi alle manovre, alla lettura della formula del giuramento e al grido di risposta degli allievi.
La mamma era emozionata, papà, quale ex militare, orgoglioso del figlio che, con il filetto d’oro da allievo ufficiale e guanti bianchi, aveva sfilato davanti alle autorità e giurato, ancor più quando alla mensa durante il pranzo di ricevimento il Colonnello Comandante la caserma si era seduto al nostro tavolo pranzando e conversando con noi. Per papà abituato ad obbedire agli ordini e al distacco dei superiori, era come una promozione sociale dopo 40 anni di servizio.
Quattro mesi dopo, quando assistemmo al giuramento del nuovo corso, partecipai alla sfilata come corsista anziano, purtroppo avevo la febbre per un ascesso ma, non volevo marcare visita, marciai e rimasi inquadrato sul cortile durante tutta la cerimonia, finché mi sentii svenire e prima di cadere uscii dalla fila da dietro per andare verso la camionetta del medico militare che mi ricoverò in infermeria, fui ripreso per la mia testardaggine.
Arrivò il giorno, nel dicembre del ’79, che fummo invitati per la guardia al Quirinale, dopo le esercitazioni, il controllo degli equipaggiamenti e le raccomandazioni varie, al mattino partimmo verso Roma dove al pomeriggio venimmo inquadrati nel cortile di servizio in due sezioni, la prima destinata alla Guardia del Quirinale, la seconda come Guardia d’Onore in caso di visite di autorità straniere, fui inquadrato nella seconda sezione.
Con la bandiera in testa uscimmo marciando al suono della fanfara dal portone di servizio, risalendo la strada, tra i passanti incuriositi, entrammo dalla parte delle scuderie del Quirinale sulla piazza antistante al Palazzo e per il portone principale entrammo nel Cortile d’Onore, dove ci aspettava la guardia smontante.
Da dietro le finestre sul cortile si vedevano delle ombre che ci osservavano , erano gli ufficiali aiutanti di campo e di Stato Maggiore che controllavano le corrette modalità del cambio della guardia, il nostro comandante Capitano Arteritano, ci aveva avvertito prima della parata.
Noi, della seconda sezione, finita la cerimonia del cambio della guardia, salutati dalla Guardia Presidenziale, ci allontanammo attraverso uno stretto corridoio verso il cortile di servizio, da cui un pullman ci portò alla Cecchignola, a disposizione.
Il pomeriggio del giorno seguente la cerimonia si invertì, vennero a darci il cambio i cadetti dell’Accademia della Marina Militare di Livorno.
Entrarono vestiti di blu, con guanti, cinturoni e copri scarponi bianchi, a passo lento e ben distanziati, si udiva il ticchettio sul selciato dei loro tacchi ferrati, noi uscimmo stretti, nelle nostre divise grigio-verdi, in formazione serrata dal portone principale con la bandiera della Scuola di Artiglieria, davanti ad una piccola folla radunata in piazza sotto i Dioscuri.
Finalmente, superate le varie prove, venne il giorno dell’esame finale di tiro, arrivammo con l’obice da 203 a Monte Romano e noi della Pesante preparammo la piazzola e i falsi scopi, mettemmo il carro comando per il giorno successivo, il Vice Comandante S. Ten. Cesaretti, ci ordinò di portare sempre l’elmetto durante i tiri, solo lui avrebbe portato il basco quale gesto scaramantico, in quanto non indossava l’elmetto il giorno in cui aveva per la prima volta aperto il fuoco di artiglieria, ma tra chi maneggia esplosivi tali gesti sono comuni.
Fui assegnato alla II^ tavola di tiro per il controllo dei dati calcolati dai colleghi preposti alla tavola principale di tiro, prima che questi venissero trasmessi al pezzo per il loro inserimento e tiro, alla mattina prima di aprire il fuoco ciascuno scrisse su una granata con il gesso un nome di donna.
Finiti i tiri e abilitati all’acquisizione del brevetto da ufficiale, andammo alla sera in paese dove presso una trattoria festeggiammo e il padre di un nostro collega, venuto appositamente da Roma, pagò il vino dei castelli per tutti, tanto che allegri intonammo all’arrivo dei nostri ufficiali la canzone degli artiglieri, “Caro pistrino”.
Rientrati a Foligno venne il momento della nomina e dell’assegnazione, il giorno stabilito fummo radunati davanti al comando ed uno alla volta chiamati per la consegna dei documenti.
Solo il primo decimo della graduatoria poteva scegliere, gli altri erano assegnati d’ufficio, la sede più temuta per noi della Pesante era Elvas, 1° Gr.A.Pe. – 3^ Brig. Missili, su un altopiano a 600 m. sopra Brixen, in territorio Sud Tirolese di madre lingua tedesca, a 30 Km. dal confine austriaco, in zona operativa al confine con la cortina di ferro, vicino alla “soglia di Gorizia”.
Prima di salire il Vice Comandante, S. Ten. Cesaretti, mi apostrofò “Sabetta, non se lo meritava proprio, ma non si preoccupi è in buona compagnia”, salito, entrai nella stanza e sull’attenti mi fu consegnata la destinazione: “Elvas”, la nomina sarebbe arrivata dopo.
Sceso i colleghi, informati, mi guardavano tra lo stupore, la commiserazione e la soddisfazione per il mancato pericolo, seppi che con me era stato assegnato l’allievo De Gregorio di Catania, ci fu anche chi avvicinatomi e data una pacca sulle spalle con fierezza mi disse “Siamo tutti fieri di te!”.
L’ultimo giorno, salutati tutti, con lo zaino sulle spalle e lo zaino-valigia, dove era legata la sciabola, in mano presi il treno per Genova, avevo con me una licenza di 15 giorni, in cui sarebbe stata perfezionata la nomina e la cartolina di destinazione con il biglietto ferroviario di andata via Milano, Verona, Trento per Elvas.
All’arrivo il pomeriggio alla stazione di Genova Principe, scesi dal treno ma ero in coda e quindi mi ritrovai nella galleria, la mamma e papà che aspettavano non mi vedevano scendere, finché uscii dalla galleria, la mamma mi corse incontro a braccia tese e mi abbracciò, forse pensava e ricordava i tempi della guerra, quando le donne e i padri aspettavano il ritorno dei reduci.