Ai primi di luglio, lasciato Michelangelo Chiapparini a dirigere la sede centrale dell’Associazione, presi il treno, con Vincenzo Bavaro, per visitare le organizzazioni combattentistiche della Calabria e delle Puglie.
Alla stazione di Paola, sulla nostra automobile presero posto, con nostra sorpresa, due funzionari di pubblica sicurezza. Ciononostante, lungo la rotabile Paola-Cosenza fummo fermati da un gruppo di squadristi aventi anch’essi un’automobile a disposizione; e furono costoro, e non la polizia – con atteggiamento minaccioso – a opinare, a pretendere, a disporre. .
Dopo lunghe trattative fu convenuto che non ci saremmo trattenuti nella città di Cosenza, che avremmo pernottato sulla Sila, che saremmo ripartiti nella mattinata successiva alla volta di Taranto; e così fu fatto realmente.
La sera del 6 luglio, dopo le peripezie di Cosenza e un lungo e scomodo viaggio, stavamo tranquillamente cenando a Taranto, in un ristorante all’aperto, quando vedemmo passare dinanzi a noi un deputato fascista del luogo, di nome Colucci, se ben ricordo; e un quarto d’ora più tardi incominciammo a veder stazionare gente sempre più numerosa sull’ampia strada prospiciente.
A un certo punto i teppisti si misero a gridare: « Traditori, venduti, morte a Viola, morte a Bavaro! » e nello stesso tempo si avvicinavano sempre più a noi.
Reagimmo protestando e prima di soccombere tentammo di lanciare contro di loro bottiglie e bicchieri, ma invece di respingerli quello fu il segnale della battaglia.
Assalito e materialmente spinto, a forza di calci e di pugni, da una porta e da una stanza all’altra, mii ritrovai, dopo una violenta zuffa, tra le botti di una cantina di cui, per fortuna, il trattore riuscì a sbarrare l’accesso.
Le avevo prese, ma ne avevo anche date.
Verso l’una di notte – eravamo appena riusciti a stendere le gambe e a rimetterci un poco dai colpi ricevuti quando udimmo la voce di un Commissario di pubblica sicurezza che ci ingiungeva di ripartire.
Protestiamo, diciamo che le nostre condizioni di salute non ce lo consentono, ma il Commissario resta inflessibile.
« Dovete partire subito; vestitevi! ».
« E con quale mezzo? ».
« Non preoccupatevi, due funzionari vi accompagneranno ».
Un’ora dopo prendevamo posto in una macchina della questura.
I teppisti tentarono di assalirci ma, trattenuti dalla polizia, dovettero accontentarsi di lanciare qualche sasso contro la vettura.
L’apoteosi doveva però esserci riservata a Bari, città natale di Bavaro.
Prendendo alloggio in un albergo del centro, notiamo che tutti sono preoccupati, dal direttore al portiere, ai camerieri.
Si trattava, per noi, anche se eravamo in pieno giorno, di toglierci gli abiti di dosso e di stenderci sul letto, perché eravamo troppo stanchi; ma quella non poteva rimanere che una nostra aspirazione.
Gruppi di dimostranti, nella impossibilità di invadere l’albergo perché trattenuti dalla polizia, cominciarono a urlare il loro insensato livore contro di noi; e qualcuno si arrampicò perfino sui muri esterni dell’edificio per poter raggiungere le nostre abitazioni.
A una determinata ora si presentò il questore.
« Dovete ripartire subito », disse.
« Non è possibile, le forze non ce lo consentono; non dormiamo da due notti ».
« Dovete subito ripartire, per ragioni di ordine pubblico e anche perché non potrei più rispondere della vostra incolumità personale.
Anche qui non ci fu verso: dovemmo obbedire.
Effettivamente, se non fossimo ripartiti nell’ora fissata dalla polizia, povero questore! Contro chi avrebbe egli potuto utilizzare tutta quella gentaglia convocata per fare la commedia?
Lo spettacolo fu veramente degno dell’antica tradizione: « Feste, farina e forca ». Per noi due, che avevamo rinunciato volontariamente alla farina, e la festa riguardava gli altri, non poteva esserci che la forca. Bisognava perciò intrattenere, divertire la gentaglia fascista: dal punto di vista scenografico e coreografico, fu veramente, per essa, una bella festa.
Le finestre, ai due lati della strada che dall’albergo conduce alla stazione, erano colme di spettatori tutt’altro che pacifici e indifferenti. Ognuno di essi, infatti, possedeva un’arma o qualche altro arnese da usarsi per lo spettacolo, e nell’assordante clamore era difficile distinguere gli spari veri dal fragore delle bombe di carta.
Io dovevo procedere in testa a un lungo corteo in mezzo a una ventina di poliziotti disposti a guisa di ghirlanda perché, per ordine superiore, mi si doveva fare la maggiore paura senza torcermi un capello.
Accadeva perciò che le randellate dei più scalmanati, invece di colpire me che, per difendermi abbassavo e spostavo il capo a seconda del caso, rompevano, se non le teste, almeno le pagliette di quei disgraziati.
Il trattamento fatto al collega Bavaro fu invece diverso; prima di tutto perché non gli perdonavano di avermi condotto a Bari, e secondariamente perché sapevano che, per ragioni ovvie, un qualsiasi incidente toccato a lui soltanto non avrebbe avuto conseguenze catastrofiche.
Più indietro di qualche passo e al di fuori della mia « ghirlanda protettrice », egli aveva pure a sua disposizione qualche poliziotto, ma ciò non impediva che lo colpissero facendogli scoppiare sul viso delle assordanti bombe di carta.
Alla stazione di Bari, tra gli schiamazzi e le imprecazioni della folla, potemmo finalmente prender posto sul treno che ci doveva ricondurre a Roma.
« Traditori, venduti! », ci gridavano sul viso e, rivolti a me: « Mussolini ti ha dato la medaglia d’oro e tu lo ricompensi in questo modo, brutto sporcaccione ».
Povero Mussolini! Quand’io ebbi la medaglia d’oro egli aveva più bisogno di me che io di lui. Quei fascisti mi avevano forse scambiato per Mario Ponzio di San Sebastiano che ebbe la medaglia d’oro in epoca fascista, cioè il 24 maggio 1923, quando insieme con Arangio Ruiz, premiato con il grado Caporale d’Onore della Milizia, aveva il secondo posto alla direzione dell’Associazione Nazionale Combattenti.
A Foggia ci fu il tentativo di invadere la nostra vettura.
Arrivammo a Roma stanchi morti.
Per i fatti accaduti presentammo subito, alla Camera, delle interrogazioni, e nell’ultima decade del mese ci recammo a visitare Giovanni Amendola il quale, a letto e bendato per le recenti ferite, ci accolse nella sua casa di Porta Pinciana con grande e commovente cordialità.
Era l’epoca delle intimidazioni e delle aggressioni, di cui non può non rispondere, dinanzi alla storia, Luigi Federzoni, Ministro dell’Interno; e Giovanni Amendola, alquanto più anziano di noi, ne fu, dopo Matteotti, la vittima più illustre.
Alle nostre interrogazioni, che qui di seguito trascrivo, non fu mai risposto; esse furono lette da un segretario della Camera soltanto il 19 novembre 1925, a bassissima voce, tra l’indifferenza della maggioranza parlamentare.
La prima interrogazione era così concepita:
« Al Ministero dell’Interno, per sapere se fra le leggi fascistissime approvate dalla Camera e dal Senato ve ne sia già una che autorizza gli squadristi di Cosenza a sequestrare in piena campagna e per circa due ore i deputati di opposizione, come è accaduto stamane ai sottoscritti (5 luglio 1925) lungo la rotabile Paola-Cosenza, benché scortati da due agenti di pubblica sicurezza. Viola-Bavaro ».
La seconda:
« Al Ministero dell’Interno per sapere quali provvedimenti intende adottare per assicurare ai cittadini che dissentono dal partito dominante e ai deputati oppositori del Governo quel minimo di sicurezza indispensabile per adempiere alle proprie pubbliche e private mansioni, senza correre il rischio di essere aggrediti e colpiti come, ad opera di un centinaio di fascisti è accaduto a Taranto, la sera del 6 corrente, ai sottoscritti, mentre stavano tranquillamente pranzando in un ristorante della città. Viola-Bavaro ».
E la terza diceva:
« I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’Interno per sapere se sia da considerarsi annullato per gli oppositori del Governo il diritto statutario di libera circolazione nel territorio nazionale mentre si consente, come è avvenuto ieri 7 luglio a Bari, a facinorosi di ogni risma ed a noti pregiudicati iscritti al partito fascista – conniventi le autorità politiche e di pubblica sicurezza del luogo – di tutto impunemente osare: dallo sparo di numerosi colpi di rivoltella e di bombe di carta, agli insulti e alle minacce più volgari per impedire ai sottoscritti di fermarsi e circolare liberamente nella nobile città adriatica, che per ben tre ore è stata teatro della più oscena gazzarra e del più indegno vilipendio delle leggi e dell’autorità dello Stato. Viola-Bavaro ».
Per noi l’aria di Roma non poteva essere respirabile. Decidemmo perciò di rifugiarci in Lunigiana, se non che la polizia fascista fu più svelta del treno. Alla stazione di Carrara un gruppo di fascisti era già pronto per salutarci con chiassate, insulti e tentativi di strapparci dal treno; e a La Spezia, ove in quel tempo abitava la mia famiglia, una ciurma di facinorosi, al comando del locale capo della Milizia fascista, ci attendeva con atteggiamenti miserevoli ma pericolosi.
Ce la cavammo alla bell’e meglio attraversando i binari ubicati in senso contrario all’uscita della stazione per nasconderci nelle alture prospicienti e a tarda notte potemmo raggiungere l’abitazione di mio padre.
Due giorni dopo, con mezzi di fortuna, riuscimmo a raggiungere Camogli, ove un Maresciallo delle Guardie di Finanza, lunigianese e un amico della mia famiglia, poté tenerci nascosti nella sua modesta casa per una quindicina di giorni.
Domande e risposte a Livio Pivano
Dopo i citati episodi di violenza e la ripresa padronanza di Mussolini, in ciò particolarmente sostenuto dal Ministro dell’Interno Federzoni, da Farinacci, da Augusto Turati e da Starace, l’opposizione in Aula si limitò ad attendere gli annunciati « provvedimenti per la difesa dello Stato » con il ripristino della pena di morte, il decadimento dal mandato parlamentare dei Deputati Aventiniani, etc.
La Camera non fu sciolta che nel 1929, ciononostante, dopo l’approvazione di detti provvedimenti, nessuno dei nostri osò riaprir bocca per contrastare il dittatore.
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A questo punto comincerò a sfogliare il libro di Pivano partendo dalle pagine 61 e 62: « Chi scrive – disse il Nostro – non intende certo non riconoscere il suo errore [N. B. – L’errore di aver partecipato al listone fascista per essere eletto deputato] o, meglio, la sua illusione, ma vuole soltanto richiamare una situazione che non permetteva molte vie di salvezza …; in fondo bisognava sopportare uno scomodo alleato, forte e già vittorioso, per legittima difesa, e perché diventa inevitabilmente amico il nemico dei propri nemici. Di questo stato d’animo è prova la dichiarazione dell’On. Savelli, che fu alla vigilia non tanto facilmente concordata tra le intransigenze fasciste di Viola e le opposte intransigenze di Pivano, che voleva dare subito una caratterizzazione, se non antifascista, almeno non fascista alla Associazione Combattenti ».
A me non interessa conoscere la dichiarazione del Savelli fatta alla Camera dei Deputati, ma mi preme precisare che Viola, cioè chi scrive, in quei tempi non faceva neppur parte dell’Associazione Nazionale Combattenti essendo entrato in essa, per la prima volta e per puro caso, soltanto alla fine del luglio 1924 in occasione del Congresso di Assisi. Ritengo, conseguentemente, che non si possa perdonare al Pivano una simile mancanza di memoria ai danni del Viola .
Proseguendo, dirò che il Congresso di Assisi dell’Associazione Nazionale Combattenti del luglio 1924, si concluse in bellezza con Viola alla Presidenza dell’Associazione, ma non per questo il Pivano dedica all’avvenimento più di due paginette, la 64ª e la 65ª, per dire che il nostro ordine del giorno non esprimeva il linguaggio più intransigente del Congresso, di Bergmann, Savelli, Perazzolo, Pivano, Vialli, Galante e altri, ormai schierati con l ‘antifascismo… ma si trattò piuttosto di una manipolazione Rossini-Viola, idonea a tutte le interpretazioni e concessioni al fascismo ed al combattente che reggeva le sorti della Nazione ».
Egregio signore,
La manipolazione non fu di Rossini e tanto meno di Viola, cioè di colui che non si adattò mai a « tutte le interpretazioni e concessioni al fascismo e a Mussolini ». Tutt’altro: due giorni dopo la conclusione del Congresso, cioè il 2 agosto 1924, il Viola aveva già liberato l’Associazione dalla schiavitù fascista, resistendo a Mussolini e a tutti i suoi servitori nella più volte nominata storica Assemblea di Palazzo Venezia.
Nessuno, dico nessuno, diede una mano a chi scrive, in quell’occasione, né prese posto al suo fianco; eppure gli altri due presenti nell’Assemblea, cioè Bavaro e Ponzio di San Sebastiano, fascisti come il sottoscritto, avrebbero dovuto sentire uguali doveri.
Non aveva bisogno di ricorrere al libro di Codignola, il Pivano, per sapere che Mussolini, riferendosi al nostro ordine del giorno, disse: « non mi piace »; non ne aveva proprio bisogno perché quella frase fu pronunciata dal « Duce » nell’Assemblea di Palazzo Venezia, rispondendo al mio discorso – io presente – e alla mia presa di posizione inconciliabile con le pretese fasciste.
La stampa di opposizione incensò allora il mio operato e Soleri si compiacque di comunicarmi che in quei giorni Giolitti mi aveva giudicato con queste parole: « Viola è un giovane solido »; ma di quel giudizio non mi sono mai vantato.
Il Pivano si è arrampicato sugli specchi nella illusione di poter spiegare il perché della sua entrata nel listone fascista del 6 aprile 1924.
Un paio di mesi prima del 6 aprile, chi scrive si batteva invece a duello con Renato Ricci perché riteneva intollerabile la sua condotta nella provincia di Massa Carrara, e nel successivo mese di giugno, già deputato, si batteva ancora a duello, ma stavolta con l’alter ego dello stesso Ricci, per i medesimi motivi.
Ciò significa che, invece di pensare alle elezioni politiche, il Viola si mostrava già maturo per associarsi ai revisionisti della politica mussoliniana, guidati allora da Massimo Rocca; ma poiché si potrebbe diffidare di quanto affermo ne darò la prova.
La Camera, come si sa, fu sciolta il 25 gennaio 1924 e chi scrive, alla fine di febbraio si batteva a duello, come ho già detto, con Renato Ricci, il noto « Ras » della provincia di Massa Carrara. Il fatto dimostra, quanto meno, che non si interessava della candidatura e delle elezioni.
Ciononostante veniva anch’egli eletto deputato 6 aprile, perché un numeroso gruppo di Lunigianesi si era recato a Roma, di propria iniziativa, per sollecitarne la candidatura.
Ma già « il 18 luglio – scrive lo storico Renzo De Felice a pag. 664 del suo libro intitolato Mussolini il fascista– prendendo spunto da alcune dichiarazioni dei deputati combattenti Ponzio di San Sebastiano e Viola, Farinacci aveva scritto che certi individui « inquieti » era meglio perderli perché la normalizzazione « non si patteggia ma si impone ».
Perché questa presa di posizione di Farinacci?
Perché il 10 giugno era stato assassinato Matteotti e Ponzio di San Sebastiano nonché Viola, senza che l’uno fosse in contatto con l’altro, deplorarono con scritti e interviste i responsabili del regime
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Il 18 luglio ero lontanissimo dal pensare che dieci giorni dopo mi sarei trovato ad Assisi per partecipare ai lavori di quel Congresso e che dai Congressisti sarei stato pressoché « catturato » perché con una maggioranza fascista che strepitava i nuovi improvvisati antifascisti non riuscivano a prevalere.
Viola li salvò con il suo ordine del giorno « manipolato » – come scrive Pivano – anche da Rossini; e poi, di fronte alla reazione violenta di Mussolini, lo stesso Viola seppe resistere da solo, come forse nessun altro avrebbe saputo fare.
Che fecero in quei momenti e fino al 15 novembre 1924 i miei detrattori?
Ritornando all’Assemblea fascista del 2 agosto, il giornale « Il Mondo », diretto da Amendola, pubblicò, tra l’altro, quanto segue: « Sull’argomento hanno interloquito nel senso della più devota ortodossia fascista, la Med. d’Oro Gemelli, l’Avv. Marghinotti e la Med. d’Oro Ponzio di San Sebastiano il quale ha detto che col Viola presentò ad Assisi il bersagliato ordine del giorno per evitare lo smembramento dell’Associazione ed ha affermato di voler porre tutto se stesso al servizio del Duce ».
Tuttavia alla riapertura della Camera, e fino al 16 gennaio 1925, pur non prendendo mai la parola in Aula, il collega Ponzio di San Sebastiano votò sempre con noi e come noi.
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Il Congresso di Napoli dell’11-12 febbraio 1923, precedette il Congresso di Assisi. Perché invece di chiarire il presunto equivoco sorto tra l’Associazione Nazionale Combattenti e il fascismo, in riferimento all’indirizzo politico, si discusse invece, a Napoli, il proclama del 10 febbraio rivolto agli associati secondo cui l’«Associazione Nazionale Combattenti salutava nel Governo Nazionale, che era governo di combattenti, l’espressione diretta della nuova coscienza italiana » e dichiarava « la propria devota adesione e la propria volontà di collaborazione fattiva nell’immane compito della ricostruzione nazionale »?
Che atteggiamento assunse il mio maggiore denigratore in quell’occasione? Era quella, forse, la maniera più indicata per « mettere l’Associazione al di sopra di tutte le parti politiche per essere una delle forze più vive e pulsanti dell’attività italiana » ?
A Mussolini non parve vero di poter interpretare a suo modo quella adesione, e il suo compiacimento lo condusse a nominare il Presidente dell ‘Associazione, Vittorio Arangio Ruiz, Caporale d’Onore della Milizia Nazionale e Ponzio di San Sebastiano addetto ai contatti con lui stesso in omaggio alla sua rettitudine.
Che fece in quei giorni il mio maggiore denigratore?
Che fece dal 12 febbraio 1923 al 6 aprile 1924, epoca in cui entrò alla Camera dei Deputati trainato dal listone fascista?
Perché ora, alla distanza di cinquant’anni, vuole attenuare la sua responsabilità conglobandola con quella degli Orlando, dei Salandra, dei Gasparotto, dei Giovannini, entrati anch’essi nel listone ma senza aver prima sbandierato, come lui, e come fa ancora oggi, la sua antica e inalterabile fede repubblicana e mazziniana?
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a Taranto, nel maggio 1974, il Congresso di Assisi, dissi testualmente: « Signori, bisogna convenirne: Assisi ha dato lustro all’Associazione, ma in gran parte soltanto perché il dopo Assisi, pieno di scontri cruenti e di resistenze tenaci, fu all’altezza delle aspettative dei combattenti e del Paese ».
Per merito di chi? Non tocca a me di precisarlo. Sta di fatto che il Comitato direttivo eletto ad Assisi non ebbe mai bisogno di spronare il suo Presidente, motivo per cui tutto l’odio fascista si sprigionò contro di lui, come fu dimostrato anche il 4 novembre 1924 ricorrendo l’anniversario della vittoria, alla cui celebrazione partecipò, e con lui i suoi combattenti nonché gli amici di « Italia Libera » i quali, tutti insieme, dovettero ingaggiare una « battaglia campale » con la ciurma mussoliniana protetta dalla polizia.
Quanto alle continue minacce di Farinacci e alle quotidiane diffamazioni del giornale « Il Tevere » non vorrei ripetermi. ‘
Tutto questo – credo – non valse meno di taluni discorsi anche forbiti, ma a proposito di ciò non mi pentirò di aver detto recentemente a Taranto, in piena Assemblea, quanto segue:
« Guardando retrospettivamente devo riconoscere che gli oratori e oppositori al fascismo più efficaci e rettilinei furono, nell’ordine, Pivano, Bavaro, Gasparotto, Lanza di Trabia ».
Al contrario, Pivano non è stato neppure capace di dire, nel suo libro, che anche il Presidente dell’Associazione Combattenti fece qualche cosa di buono nella Camera. Ha riprodotto, invece, a pag. 180, tutto il mio discorso del 18 dicembre 1926, con l’intenzione di farmi fare una brutta figura, la figura che fece Rossini il 27 novembre 1925 uscendo dalle nostre file per passare in quelle di Mussolini. Ma di questo riparleremo in seguito.
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A pag. 70 il « nostro storico » mette in risalto che il gruppo di oppositori in Aula comprendeva, insieme con noi e tanti altri, anche Giolitti e Orlando; che il gruppo dei combattenti diventò un centro di coalizione e di intesa (questo l’ho sempre detto anch’io) e che « nelle riunioni con Giolitti lui, Pivano, fu designato a presiedere ».
Più avanti, ma nella stessa pagina, riprendendo l’argomento dice ancora: «Il gruppo comprendeva particolarmente i combattenti e i giolittiani », e ripete che « fu lo stesso On. Giolitti a proporre che le riunioni fossero presiedute dall’On. Pivano, il più giovane, col collega Ponzio di San Sebastiano ».
La storiella del più giovane la ripete ad ogni piè sospinto come dovesse rappresentare un gran titolo d’onore, ma il fatto diventa invece ridicolo quando si pensi che con la stessa età del Pivano c’erano altri due deputati del Gruppo Assisiano, cioè Viola e Bavaro con una differenza di neppure un mese e mezzo tra l’età dell’uno e l’età degli altri (Ponzio di San Sebastiano, per esempio, era invece nato cinque anni dopo di noi); e diventa ridicolo anche perché l’On. Giolitti, proponendo uno di noi – e non specificatamente Pivano – alla presidenza di qualche riunione, rivelava un altro scopo, cioè quello di non porre in situazioni di disagio sia Orlando sia Salandra, sia se stesso, essendo tutti e tre ex presidenti del Consiglio e non troppo in buona armonia tra di loro.
Ma poi, quali riunioni plenarie ci sono state? Una o due, non di più, e soltanto la prima con la presenza dei tre personaggi perché nella seconda riunione Salandra non si fece vivo.
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Nel suo libro Pivano mi ha citato rarissime volte. La prima per dire soltanto quanto segue (vedi pag. 162): « Particolarmente aspra la discussione provocata dall’On. Viola sulle elezioni di Pratella (Salerno) per le violenze subìte dal Presidente della Federazione, De Donato, che provocò violente e ingiuriose reazioni da parte di Bottai e tumulti nell’Aula »; e la seconda volta per dire (pag. 166) : « Gli On.li Gasparotto e Viola intervennero con valide argomentazioni sulla ” discussione del disegno di Legge per la dispensa dal servizio di funzionari dello Stato ” ».
Al discorso di Gasparotto dedicò nove righe e a quello di Viola tre. Le altre quattro citazioni riguardavano interrogazioni firmate anche da altri colleghi.
Il mio censore si è sempre compiaciuto dei suoi discorsi. Niente di male, alla condizione però che non molesti gli altri.
Nel mio caso, per esempio, ammesso e non concesso che in sede parlamentare avessi fatto meno degli altri colleghi combattenti, avrebbe dovuto considerare che dall’agosto 1924 al marzo 1925 nella mia qualità di Presidente dell’Associazione dovetti pronunciare discorsi dappertutto sia nelle sedi comunali e provinciali dei Combattenti, sia nelle piazze, e che altrettanto dovetti fare dopo l’arbitrario scioglimento del Comitato Centrale disposto da Mussolini e la organizzazione da parte nostra di una nuova Associazione Nazionale Combattenti e Reduci Indipendenti anch’essa da me presieduta fino al 9 novembre 1926.
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Il più volte nominato « storico » non tocca nel libro il suo amico Verecondo Paoletti, che parlò una sola volta sul bilancio della Economia Nazionale e il 9 novembre 1926 non si presentò alla Camera per votare contro le « leggi per la difesa dello Stato »; non tocca il mio carissimo amico Ponzio di San Sebastiano purtroppo ora defunto, che non prese mai la parola alla Camera e non si presentò a votare contro le « leggi per la difesa dello Stato ». Non tocca il bravo Pellanda, che fece alla Camera un bel discorso ma poi seguì il suo amico Rossini accettando con un « sì » le leggi per la difesa dello Stato; ed è blando con Savelli che il 9 novembre 1926 non si presentò a votare contro le più volte citate leggi, mentre il 28 marzo 1928, con esplicite dichiarazioni, fece alla Camera il tentativo di inserirsi nuovamente nella maggioranza fascista, pronunciando il seguente discorso:
« Ieri era stato domandato l’appello nominale, sul disegno di legge « Riforma della rappresentanza politica », poi non se ne fece nulla; non ho potuto quindi spiegare il significato preciso che dò al mio voto favorevole alla nuova legge elettorale.
« Certamente l’osservazione dell’On. Giolitti è per me precisa, anzi ovvia; però l’On. Giolitti non tiene conto che oggi in Italia c’è una rivoluzione in corso; non ne tiene conto, quindi la nega.
« Ma chi riconosce l’importanza della rivoluzione non può disconoscere la necessità di mezzi eccezionali, e a mio giudizio la nuova legge elettorale politica ha un valore temporaneo, cioè vuole liquidare un passato e assicurare il compiersi di un grande esperimento. Votare la legge è come votare altri cinque anni di fiducia e di pieni poteri al Capo del Governo ».
A questo proposito lo « storico » aggiunge soltanto il seguente commento: « Gli amici di Savelli furono i più sorpresi di questa dichiarazione che rappresentava l’ultimo crollo del Combattentismo di fronte al fascismo.
« I fedeli ne furono addolorati – specie nella sua Liguria – dove si spegneva quella che era stata, col giornale « Il Combattente », la voce più autorevole ed ascoltata della resistenza antifascista ».
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Vedremo ora come si comportò con il suo ex Presidente Nazionale dell’Associazione Combattenti On. Ettore Viola.
A pagina 82 sotto il titolo: « I combattenti a San Rossore » riproduce per intero la seguente versione di Mario Zino, suo grande amico:
« Venne il giorno della visita al Re.
« Ombrelli di pini, spiazzi da grande fattoria, case basse, sentore del mare; il Generale Cittadini, qualche ufficiale di servizio.
« Il re [erre minuscolo per volere dello « storico »] un signore ben piccolo, con un vestito a quadrettini, uno strano verso tra il fischio ed il gorgheggio del naso, ridendo.
« Presentazioni. Tutti seduti ora in un salotto al pianterreno, su poltrone e seggiole basse, che parevano tutte costruite per le gambe del Re, perché i piedi toccassero terra.
« Parlò Viola, presidente del Comitato e parlarono a poco a poco tutti, impegnando il Re in un gioco a rimpiattino, incalzando noi tutti per mettere a fuoco l’argomento, attorno all’ordine di Assisi, perché il Re sapesse e prendesse buona nota di quella che era l’assoluta volontà dei combattenti.
« Il Re sgusciava di continuo e parlava di tutto con tutti, preoccupato di scivolare sul solo argomento che ci stava a cuore, di non sentire, di non fissare la questione, di non dare grattacapi, sovrano costituzionale, al Governo responsabile, (Matteotti da qualche giorno, scoperto il cadavere alla Quartarella, era stato seppellito presso la sua casa a Fratta Polesine: e Mussolini, doveva pensare di aver superato la curva più pericolosa). Il Re gradì le copie che gli offrimmo di una nostra rivista « Problemi d’Italia », parlò dell’Opera Nazionale Combattenti, delle bonifiche di Coltano, dello sviluppo degli impianti idroelettrici in Italia, di economia di vari problemi regionali con i rappresentanti delle varie Province, della guerra, di San Rossore, della pesca, della caccia, degli uccelletti (erano quaglie?) uccisi quel mattino dalla Regina, gli altri uccelletti (erano fringuelli?) abbattuti da Jolanda; mia moglie, la Regina; mia figlia, la Principessa.
« Quaranta, forse cinquanta minuti di conversazione veloce, cordiale, apparentemente così aperta, in realtà così chiusa, così controllata, e noi sempre dietro col nostro inseguimento mascherato, affannato, che non guadagnava un solo palmo di terreno.
« In un momento di stanchezza, il commiato.
« Comparvero il Generale Cittadini e un Ufficiale di Marina di servizio. Strette di mano. Un’occhiata intorno, e via, nelle nostre macchine, a Pisa.
« Gran senso di vuoto. Il Re fuggiva; il nostro unanime sentimento di commilitoni non gli diceva nulla; egli non era con noi, non viveva il dramma del suo popolo, respingeva il suggerimento dei suoi compagni d’arme che volevano un Italia unita e pulita.
« La questione per lui, a torto, era di pura tecnica costituzionale, e le vie normali dell’opposizione attraverso il Senato e la Camera dei Deputati erano storicamente aperte, se pure praticamente, per avversa volontà di Mussolini, non erano in grado di funzionare.
« Assente in quel momento cruciale, il Re sanzionava la sua responsabilità, preparando la sua prigionia, la disfatta del Paese e la sua rovina ».
Questo racconto, in buona parte inventato, volgare, e di pessimo gusto, fu sollecitato a Mario Zino per opporlo a una mia relazione sullo stesso argomento, che non avevo mai negato a nessuno.
Ecco perché al « capolavoro » di Zino segue il mio scritto, con il seguente titolo:
L’On. Viola scrive
e con questa premessa :
« Più recentemente, da me interpellato, Ettore Viola, allora Presidente del Comitato Centrale (eletto ad Assisi e scelto come trait-d’union tra i fascisti e l’opposizione, al fine di evitare una inevitabile frattura dell’Associazione) cosi mi espose in sintesi l’episodio:
« Il Sovrano ebbe ad accordare un’udienza al Comitato Centrale dell’Associazione Nazionale Combattenti una decina di giorni dopo il Congresso di Assisi. Furono presenti Viola, Presidente; Russo, Vice Presidente; Savelli, Rossini, Zino, Bruni, Bavaro, Ciucci, Fulli, Orlando, ed altri membri del Comitato Centrale; Cacciò, Caputo, ed altri sindaci.
« Il colloquio ebbe luogo a San Rossore nella residenza estiva del Re. ·
« Io feci al Sovrano una succinta relazione sui lavori del Congresso, dopo di che il Sovrano ci invitò a sedere.
« Nella conversazione che ne seguì nessuno, dico nessuno, pose in imbarazzo il Re con domande indiscrete di carattere politico e associativo, né il Re ci diede qualche spunto per ritornare sull’argomento di Assisi; sicché tra una parola e l’altra all’indirizzo di Tizio e di Caio, il Re disse anche che a San Rossore c’era molta selvaggina e che la figlia Mafalda aveva ucciso nella mattinata varie quaglie.
« Per la cronaca di quei giorni aggiungerò che nella primavera del 1925, allorché Mussolini disciolse con atto arbitrario il Comitato Centrale nominando al nostro posto i tre noti Commissari, io chiesi ed ottenni di essere subito ricevuto dal Re al Quirinale.
« Il Capo dello Stato in quel caso non tacque, ma alle mie parole di protesta contro Mussolini disse testualmente: « Io non ho firmato il decreto di scioglimento del Comitato Centrale della vostra Associazione ».
« I triumviri, Rossi, Russo e Sansanelli, allarmati, chiesero anch’essi di essere ricevuti e furono accontentati.
« Il resto è noto, ma ritengo non sia questa la sede per parlarne o riparlarne ».
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Questa fu la mia risposta e nessuno può accusarmi di aver detto alcunché di diverso in altre occasioni.
I due amici, Pivano e Zino, quest’ultimo eliminato da me dall’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, dopo l’ultima guerra, perché, tra l’altro, si era tenacemente opposto alla necessità di trasformare il nome di Associazione Nazionale Combattenti con quello di Associazione Nazionale Combattenti e Reduci (in omaggio ai combattenti della seconda guerra mondiale), non solo hanno pubblicato lo scorrettissimo documento, ma il Pivano ha voluto integrarlo e condividerlo con la seguente nota: « Tra il testo di Zino e quello di Viola vi sono differenze che non sono soltanto sfumature e che possiamo giustificare, tenendo conto del successivo atteggiamento del Presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti che, dopo il 3 gennaio ” presi ordini dalla sua coscienza ” – cosi si espresse alla Camera – abbandonò l’opposizione e si sottomise al fascismo ».
Terminò, lo « storico », con queste parole:
« Le sicure testimonianze danno certo valore al testo di Zino, storico e uomo della Resistenza ».