Stefano Valente. Intervista a Lapo Mazzei, protagonista della Guerra di Liberazione

  

Progetto Storia In Laboratorio. Sezione Studenti e Cultori della Materia.

Progetto: interviste ai Protagonisti della Guerra di Liberazione

 

INTERVISTA A LAPO MAZZEI

 La guerra di liberazione ha rappresentato certamente una fase cruciale nella storia italiana: il nostro intento è quello di vedere proprio come il singolo si è rapportato con tali vicissitudini. A volte dietro un piccolo contributo, nelle impressioni e nelle semplici vicende personali si celano quelle indispensabili sfumature che rendono comprensibile un evento e tutto ciò che esso ha rappresentato

 

In questa intervista vorrei approfondire alcuni aspetti della sua esperienza personale soffermandomi in particolare sui suoi ricordi e soprattutto sulle sue impressioni. Innanzitutto vorrei chiederle quali sono state le direttrici della sua formazione.

Devo dire che il mio percorso di formazione è stato contrassegnato da una vivacità culturale che mi ha fornito strumenti adatti per contestualizzare e interpretare la realtà che ho dovuto affrontare durante la mia vita. In particolare ricordo con affetto gli insegnamenti che ho ricevuto alle scuole elementari e al ginnasio. È stata senza dubbio una fase cruciale per la mia formazione. Presso il liceo che frequentai, il “Michelangelo “ di Firenze, riscontrai nei miei insegnamenti una vivacità culturale e un approccio critico alla realtà piuttosto marcati. Ad esempio ricordo bene come non ci fosse mai un costante incitamento verso i soldati in guerra. Eppure era vivo e ben presente un forte patriottismo. L’approccio critico della storia e della filosofia, l’occhio vigile della filosofia idealista furono senza dubbio aspetti cruciali nella mia formazione.

 

Quali sono i suoi ricordi ulteriori durante questa fase della sua vita?

Ricordo il duro addestramento, la grande disciplina nella mia educazione: devo ammettere che proprio in quel frangente emerse la mia passione per i cavalli e per le attività sportive.

 

 

Cosa ricorda dell’entrata in Guerra contro l’Etiopia?

È vivo nella mia memoria il ricordo del fervore popolare dopo la decisione di entrare in guerra, fu un trionfo a livello di eccitazione generalizzata. Erano grandi le speranze.

 

Veniamo a temi certamente più complessi da trattare, cosa può dirci sulla Seconda Guerra mondiale? Come visse quella fase cruciale?

Ricordo in particolare il rapporto contraddittorio di odio-amore con la Francia, fu un periodo confuso, dove gli insegnamenti di mio padre si sarebbero rivelati indispensabili per capire e interpretare nel modo giusto quegli eventi. D’altro canto ero molto giovane. Seguii la guerra con interesse, attenzione e speranza. Ricordo in particolare il primo anno del conflitto, l’attesa e la prima vera delusione per l’immobilità della campagna di Libia, l’eccessiva prudenza di Graziani. Ad essere sbagliata era soprattutto la concezione che si aveva della guerra. Anche il Duce in realtà non aveva capito la nostra inadeguata preparazione al conflitto. Mi spiego meglio: era una guerra di movimento, una guerra nuova, una guerra industriale fatta da mezzi meccanici. L’uomo aveva ancora un valore primario ma il contadino italiano non aveva i mezzi ne gli strumenti per affrontarla da vero protagonista. Non vi erano soldi: la società rurale italiana era povera, non aveva mezzi adeguati a disposizione. Ad esempio i mitragliatori Breda avevano un corto raggio d’azione e dunque un difetto molto significativo. Non vi era stata una pianificazione e una preparazione alla guerra. Per alcuni aspetti molto era improvvisato e tutto ciò strideva a confronto della specializzazione industriale tedesca così razionalizzata, dove ognuno aveva un compito e poteva raggiungere l’efficienza operativa.

 

E sulla campagna di Grecia?

La campagna di Grecia fu una profonda delusione. Emersero con evidenza l’impreparazione operativa e le carenze strutturali. I vertici dello Stato rispecchiavano una società incapace di capire l’essenza della guerra moderna: era piuttosto evidente la mancanza di collaborazione.

 

 

Quali furono le successive evoluzioni?

Devo ammettere che il crollo totale ci fu con la disfatta in Africa e gli errori strategici successivi. L’invasione della Sicilia, a torto dipinta come una fuga. Di certo non mancò la confusione, come a Cefalonia, ma anche le azioni di veri uomini di valore. Le carenze erano in particolare la mancanza di ordini che provenivano da Roma che non facevano altro che aumentare un generale clima di disorganizzazione.

 

Qual è il suo parere su Badoglio?

Mi limito a dire che non lo reputai un uomo dal carisma necessario per la fase storica che l’Italia stava attraversando. Non era un de Gaulle, non vedevo in lui un uomo dalla visione politica di ampio respiro.

 

Cosa può dirci sulla repentina caduta di un regime come quello fascista che aveva cercato in tutti i modi di mettere radici profonde nella società italiana?

Furono il sollievo, il senso di liberazione dalla guerra ad essere più forti del fascismo. Il fascismo ha formato molti uomini nel rispetto della Patria, nel servizio dello Stato. Da Moro a Fanfani, tutti in un certo senso erano stati formati dal fascismo nella dignità e nella lealtà. Sia chiaro per formazione non intendo dire adesione a quel tipo di ideologia, parlo piuttosto di un “sottofondo culturale”. Riguardo alle cause, anzi a quelle dinamiche che portarono alla repentina caduta del fascismo i movimenti culturali furono senza dubbio elementi che vanno necessariamente tenuti in considerazione. Mi riferisco in particolare ai socialisti e alla loro preparazione che emerse con evidenza nel dopoguerra e allo stesso tempo a tutti i movimenti legati alla Chiesa cattolica.

 

Quale fu la reazione del popolo italiano in questa delicata fase storica?

In quei momenti così difficili, dove regnava sovrana la totale confusione, il popolo italiano mostrò una grandissima dote: quella di riuscire a contenersi e a salvarsi. Diverse forze politiche riuscivano con strumenti diversi a dare uno stimolo concreto alla vita politica del paese. Non bisogna mai dimenticare l’imperante fanatismo presente nel XX secolo.

 

Quale è il suo parere sulla Repubblica di Salò, come può contestualizzarla con ciò che ha appena affermato?

Le adesioni alla repubblica di Salò furono ad ogni modo significative: molti credevano che sarebbe stato possibile conciliare un regime autoritario con una maggiore libertà. La realtà poi diede risposte diverse e anche chi aveva iniziato a simpatizzare per la Repubblica dovette ricredersi. Ben presto con la Repubblica Sociale nacque in tutti noi un forte senso di rivolta per tali forme di fanatismo, si capiva la pesante mano tedesca.

 

Personalmente come passò quei momenti così delicati?

Ricordo la mia esperienza personale: per riuscire ad uscire da una situazione così intricata trovai rifugio in un ospedale. Grazie ad un amico di mio padre, il prof. Valdoni, riuscii ad ottenere un certificato medico per un ricovero d’urgenza in quanto ero stato richiamato. Passavo le mie giornate osservando le diverse attività dell’ospedale, uno sorta di infermiere non qualificato. Nonostante i controlli dell’ospedale militare ottenni, sempre grazie a Valdoni, sei mesi di licenza. Tuttavia ci fu un imprevisto, dovuto ad una mia leggerezza: una domenica pomeriggio uscii scioccamente dall’ospedale e fui catturato in una retata. Solo il decisivo intervento di mio padre mi permise di tornare all’ospedale, mi salvai di nuovo.

 

 

Quale fu il suo primo contatto con gli alleati?

Incontrai per primi i francesi, ricordo bene quella scena. Tuttavia i miei pensieri vanno soprattutto alla forte differenza tra la situazione in cui versava l’esercito italiano e la grande efficienza alleata. Dopo l’8 settembre l’esercito italiano visse  in un contesto di marcata confusione, era lampante la superiorità militare degli alleati e l’impreparazione dei vertici nel cercare di mantenere la situazione in ordine. Tuttavia non bisogna dimenticare anche i tedeschi: sarebbe un errore dare un resoconto di totale efficienza da parte della Wehrmacht. Mi spiego meglio: era molto alta l’efficienza e il senso del dovere, eppure era palpabili anche alcune carenze strutturali e soprattutto le voci discordanti rispetto alle volontà del fuhrer. Una voce critica interna era ben presente, il problema era la rete di informatori così capillare da rendere pressoché impossibile la possibilità di parlare liberamente.  Ad ogni modo la loro efficienza non venne mai meno, riuscirono a resistere a lungo e a difendersi nonostante le significative differenze numeriche e logistiche tra i loro reparti e quelli degli alleati. Tornando al mio primo impatto con gli alleati i le truppe francesi in particolare ricordo i reparti marocchini, non posso scendere nei particolari ma il loro comportamento non fu certamente privo di macchie. Molte violenze, disorganizzazione, caos. Anche gli ufficiali francesi non avevano una buona opinione del loro comportamento.

 

Quale fu il suo ruolo in una fase così delicata?

Agli alleati servivano dei riferimenti, persone in grado di tradurre e avere in tal modo la possibilità di un contatto con i partigiani. Personalmente sapevo sia l’inglese che il francese, non potevo nascondermi in una fase così importante. Fui destinato alla 19° Brigata, 8° divisione indiana. Ricordo alcuni miei colleghi come Rufo Ruffo e Ugo Contini presenti nella mia stessa divisione.

La mia prima esperienza al fronte fu a Camaiore, mi fu impartito l’ordine di accompagnare sulla cima della montagna un reparto scozzese. Rimanemmo per due giorni. Con i colleghi inglesi il rapporti erano molto cordiali, c’era una stima e un rispetto reciproco. In particolare il generale Doply si dimostrò un uomo di grande intelligenza, con lui ho mantenuti i contatti anche dopo la fine della guerra. Le operazioni belliche mi portarono poi sul Senio. In questa fase ricordo un simpatico aneddoto: a Cervia il generale scoprì di aver preso il suo gatto, così mi mobilitai per cercarlo. Alla fine ne recuperai uno simile.. il generale si accorse della differenza, ma mi ringraziò ugualmente. Tornando invece alle vicende belliche devo dire che l’inverno sul Senio fu caratterizzato da una relativa calma. Mi furono affidati venti partigiani per proteggere alcuni ponti e alcune strade, controllare i partigiani spesso non era semplice. Inoltre spesso mi trovai ad accompagnare alcuni reparti che avevano il compito di monitorare i movimenti delle truppe tedesche in alcuni avamposti: venivamo periodicamente fatti bersaglio di cannonate e raffiche di mitragliatrice.

 

 

Una curiosità, ha detto precedentemente che era stato incluso in un reparto indiano, che rapporto intercorreva tra britannici e indiani?

Ricordo in particolare un maggiore sikh. Era un uomo curioso, con cui mi trovai bene, simpatico a molti perché leggeva la mano. Ma a parte queste piccole curiosità devo dire che godeva di grande considerazione e rispetto.

 

I tedeschi in quella fase cercavano di avanzare?

Non ne erano in grado, come ho detto precedentemente l’inverno sul Senio fu relativamente tranquillo, permise ad esempio anche dei piccoli scambi con i nostri nemici, sigarette, whisky ecc..

Ben presto gli alleati furono pronti all’offensiva, ricordo a riguardo di essere invitato ad assistere alle operazioni, fu un gesto di grande cortesia. La concentrazione di cannoni era enorme, così come il numero dei colpi sparati. I colpi di mortaio erano praticamente costanti, come le numerose  incursioni delle fortezze volanti. L’avanzata fu grandiosa, erano così numerosi i mezzi che si congestionarono creando perfino una certa confusione. Il fronte era stato aperto e le difese tedesche ormai scalzate, superato il Po fu la volta di liberare Venezia.

 

Logisticamente come erano organizzate le truppe?

Vi era una grande organizzazione, grandi mezzi, tutto era curato nei minimi particolari, certo non era semplice garantire rifornimenti ad un numero così cospicui di uomini e mezzi. Per i sikh e i loro lunghi capelli ad esempio l’acqua era una priorità. La disciplina militare inglese era straordinaria.

 

In precedenza ha parlato dei sui contatti con i partigiani, può approfondire maggiormente questo aspetto?

Il ruolo dei partigiani fu senza dubbio significativo, ma sarebbe improprio definirli un movimento monolitico, al contrario erano molto frammentati e politicamente diversificati. Non mi mescolo volentieri con i partigiani per una semplice ragione, è vero alcuni combatterono per liberare l’Italia, ma numerosi gruppi inquadrati politicamente furono protagonisti di episodi di violenza, delitti e uccisioni sommarie che non posso condividere.

 

L’Intervista è stata raccolta nel 2012  da Stefano Valente per un progetto dedicato ai protagonisti della Guerra di Liberazione voluto dal gen. Luigi Poli, che non si è potuto realizzare per la scomparsa del Senatore nel febbraio 2013. Come contributo alla conoscenza riportiamo questa intervista nell’azione volta alla pubblicazione di inediti posseduti per il non realizzarsi di progetti avviati e mai completati per dare possibilità a coloro che vi erano impegnati di vedere pubblicata l’opera loro.