Maria Luisa Suprani Querzoli. Sulle vere origini degli Arditi

  

 

 

Sulle vere origini degli Arditi

 

La presente ricostruzione delle origini del fenomeno degli Arditi ha tratto stimolo da una notizia di cronaca piuttosto recente: la ricorrenza dell’istituzione dei Riparti d’Assalto[1], quest’anno, è stata funestata da un atto vandalico che, se da un lato ha destato scalpore, dall’altro ha indirettamente contribuito ad accrescere la confusione in merito all’esatta identità di questi Combattenti. La discussione che è sorta intorno a tali deplorevoli gesti, al di là dello sdegno, non è infatti andata oltre nozioni storiche di superficie, senza indagare più a fondo circa sia le ragioni sottese a tale bravata, sia – soprattutto – la vera origine dei Riparti.

Un breve riepilogo su quanto accaduto a fine luglio 2022: la targa commemorativa dell’istituzione[2] posta a Sdricca di Manzano è stata frantumata e i muri del Monumento della Federazione Nazionale Arditi d’Italia, sito a Capriva, sono stati imbrattati da scritte in vernice rossa. Tali manifestazioni di dissenso ideologico – peraltro unanimemente condannate per la manifesta impropria modalità di espressione – hanno rappresentato il punto culminante di un crescendo di tensioni venutosi a creare (per l’ambiguità che aleggiava intorno a scelte inerenti alla celebrazione della ricorrenza) fra alcune forze politiche locali e gli organizzatori della commemorazione.

Risulta curiosa (e, ai fini di contribuire a chiarire le motivazioni circa quanto accaduto, forsanche indicativa) la coincidenza fra data di istituzione dei Riparti d’Assalto e genetliaco di Benito Mussolini: il giorno è lo stesso, 29 luglio.

Appare palese che si tratta di pura casualità (il capo del Fascismo nacque nel 1883, trentaquattro anni prima che i Riparti venissero istituiti). A volte, però, si tende a sottostimare che il regime fece propria buona parte della tradizione più gloriosa della guerra senza andare troppo per il sottile[3]: durante l’intero ventennio le celebrazioni della ricorrenza dell’istituzione degli Arditi si trovarono quindi a coincidere con il compleanno del Duce, data significativa in un contesto teso ad enfatizzare il culto della persona del Capo[4].

Forse le recenti tensioni ideologiche sono state amplificate, seppur  inconsapevolmente, dall’eco dei fasti legati a tale data polisemantica (sedimentata nella memoria collettiva): questo intreccio di concause, probabilmente, ha sospinto pochi  sconsiderati a far d’ogni erba un fascio, increspando per un certo tempo la bonaccia della cronaca locale tipica del periodo estivo.

Come anticipato, la ragione storica alla base di tale reazione incivile a tensioni da risolversi in altra sede e con altri mezzi è da ricercarsi proprio nel Fascismo che, per fornire di fondamenta salde la propria repentina nonché violenta affermazione, fece proprio – mitizzandolo[5] – il patrimonio di eroismo della Grande Guerra, Arditi in primis[6].

Del valore militare della Grande Guerra giunto ai giorni nostri serba memoria concreta soprattutto la toponomastica: circa le figure dei Comandanti della vittoria (e quindi fuori discussione: se la figura del generale Cadorna – in una prospettiva rivelatasi coriacea di fronte all’analisi approfondita della verità storica – continua ad essere capro espiatorio delle durezze della guerra[7], quella del generale Capello è addirittura colpita da una damnatio memoriae capace di rimuoverne ogni traccia e non solo dalla toponomastica) si può affermare che furono le stesse enfatizzate, seppure con fini strumentali tutt’altro che storici, dal Fascismo.

Tale eredità gravosa ha tacitamente contribuito a circondare il ricordo (e, di conserva, le ricorrenze) di figure e di fatti d’arme relativi alla Prima guerra mondiale di un manto di retorica disfunzionale alla costruzione di una memoria storica condivisa, capace di influire indirettamente sulla percezione del presente[8].

Gli Arditi appartengono al patrimonio morale e tecnico della Grande Guerra e a tale contesto richiedono di essere ricondotti, liberi da strumentalizzazioni politiche le quali, nel tempo, si sono inspessite in misura tale da costituire addirittura un filtro capace di alterare la verità dei fatti, contribuendo ad una percezione fondamentalmente distorta della realtà.

Una volta riconosciuta l’azione di siffatto filtro, sarà interessante ripercorrere l’iter compiuto dagli Arditi per poterlo restituire (seppure in modo essenziale) nella sua complessità, distinguendone il compito prettamente militare dall’aura non sempre adamantina da cui la fama di tali Combattenti è tuttora circondata.

Lo stesso termine ‘ardito’[9] rimanda in primis al coraggio, ma anche all’assetto spregiudicato di chi arrischia troppo: il denominatore comune che lega le due accezioni è riconducibile al concetto di ‘sprezzo del pericolo’, dote encomiabile in ambito bellico (e pertanto ricorrente fra le motivazioni di molte Medaglie al Valore).

Nel margine di coesistenza fra i concetti di ‘coraggio’ e ‘azzardo’ si colloca l’origine degli Arditi: le singole figure rispecchiarono, in diversa misura, entrambi gli aspetti, dando luogo ad aree dove si può tuttora annidare legittimamente un sospetto di ambiguità. Nell’ambito delle discipline psicologiche, è noto che una percentuale – seppur assai esigua – di persone risulta incapace della ben minima empatia di fronte alla vista del dolore altrui. Nemmeno arretra di fronte alla possibilità di infliggere dolore, in assenza di percezione delle conseguenze gravi del proprio gesto. Non è escluso che tale profilo (considerato socialmente pericoloso in tempo di pace), nel contesto bellico contrassegnato da esigenze urgenti, sia confluito facilmente nella categoria degli ardimentosi: «guerra, guerra/ all’austriaco invasore/ sono Ardito, Ardito e fiero/ con la bomba e col pugnale guai per l’orrido straniero/ che mi attende e che mi assal!»[10].

Nella eterogenea composizione delle Fiamme Nere[11] è compresente anche il versante diametralmente opposto, espressione di chi decise di dedicarsi integralmente al bene della Patria, incanalando principalmente nel coraggio e nel sacrificio di sé l’ardore necessario a sì temibili imprese: «Se vuoi trovar l’Arcangelo da fante travestito,/ ricercalo a Manzano e troverai l’ardito!»[12]. Fra gli Arditi figurarono infatti personalità di uno spessore morale non comune: valga d’esempio la figura del pluridecorato  Umberto Visetti il cui spericolato percorso esistenziale e militare attraversa le due guerre per poi confluire nella sfera religiosa, dove, abbandonato il secolo, diventerà Frate (missionario) Agostino di Cristo Re. Anche Antonio Mugetti (Padre Angelico) può vantare diverse Medaglie al Valore, combattendo proprio nella Brigata Lambro a cui – come si vedrà – molto dovette l’istituzione vera e propria dei Riparti d’Assalto[13].

Una volta considerate le tendenze contrassegnate da polarità opposta, si può tornare ad analizzare la psicologia dell’Ardito sotto una luce meno estrema e lo si farà partendo dalla testimonianza del generale bersagliere Eugenio De Rossi in una rara descrizione dell’alterazione a cui è soggetta la psiche del Combattente valoroso in momenti di estrema tensione:

 

Domande angosciose che contribuivano a farmi un quadro assai fosco della situazione [il riferimento è all’attacco al Merzly nel giugno 1915]. Ma a buon punto il mio naturale [corsivo non presente nel testo] prese il sopravvento. I molti se, i molti ma, non mancano mai per sconsigliare un attacco a chi non ha la ferma volontà di aggredire, e scacciai quelle nebbie. I preparativi per l’azione furono fatti dall’altro mio io, che aveva sostituito subitamente il suo sosia tentennante. Credo non essere il solo che abbia notato lo sdoppiamento della propria individualità in circostanze più o meno gravi della vita. Non sono spiritista, non ho mai preso parte a sedute spiritiche, sono piuttosto incline a credere che il fenomeno dello sdoppiamento psichico spontaneo appartenga alla categoria degli ipnotici e, sempre, se dico male i medici mi perdonino; il fatto è che nella mia esistenza lo sdoppiamento si avverò. Come già dissi, quando generalmente il mio spirito era esaltato oltre l’ordinario, l’incosciente che sonnecchia in noi si svegliava ed appariva accanto al normale.[14]

 

La particolareggiata testimonianza di De Rossi è mirata a confutare sul nascere le obiezioni generiche circa l’impiego determinante (o, addirittura, risolutivo) di sostanze stupefacenti in contesti bellici. Esiste una letteratura specifica intorno all’argomento ma, nonostante ciò, è riduttivo ed antiscientifico escludere la naturalità originaria dell’assetto eroico.

Anche nella vita civile si possono compiere atti straordinari in situazioni di particolare eccezionalità ma ciò che per un civile rappresenta appunto un’eccezione, per il Soldato costituisce il dovere: «[l]’onor militare, derivante dalla tradizione e dell’elevatezza del sentimento nazionale, richiede come base l’onor civile, ma di questo è una sublimazione; ciò che nella morale civile può esser considerato come virtù rara ed eroismo, nella morale militare non rappresenta che il semplice compimento di un dovere»[15], sostiene il generale Capello.

Il generale De Rossi, di fronte a pericolose ed incontrollate manifestazioni di esaltazione, ricorda che «“l’eroismo non è un mestiere che si eserciti 24 ore al giorno e 365 giorni dell’anno. Gli eroi, in realtà, hanno solo dei lampi di eroismo che esplodono all’improvviso, precipitandoli irresistibilmente in avventure inattese. L’eroe, a considerarlo bene, è quasi sempre tale suo malgrado!”»[16].

Gli Arditi, per impiegare l’espressione di De Rossi, si trovarono invece ad indossare volontariamente l’abito mentale dell’eroismo pressoché 24 ore al giorno, anche se non 365 giorni all’anno: tali sforzi al limite della resistenza umana necessitavano infatti di adeguati tempi di recupero.

Questo assetto richiese, al d là della prestanza fisica di partenza, condizioni di vita adeguate allo scopo, per certi aspetti (inerenti sia al lavoro, sia al riposo) incommensurabili con la sfibrante routine propria della trincea.

Gli Arditi, anche a causa di tali privilegi (già la sottrazione dei migliori elementi finalizzata alla costituzione dei Riparti d’Assalto non aveva suscitao acceso entusiasmo fra i Comandanti), non riscossero soverchie simpatie[17].

In precedenza, però, quando i Soldati arditi non potevano ancora formalmente fregiarsi dell’appellativo, la loro presenza di supporto risultava particolarmente gradita nelle prime linee: «erano tanto contenti i compagni nostri, perché andavamo da una linea all’altra ed erano contenti che la Brigata Sassari fosse presente perché la Brigata Sassari dava un senso di tranquillità e sicurezza», ricordava il generale Musinu, Comandante della leggendaria compagine[18]. I Valorosi, infatti, erano impiegati inizialmente in compiti di particolare impegno capaci di agevolare poi l’azione delle truppe (accrescendone così l’efficacia), con un conseguente risparmio di vite umane.

Il criterio che informò la selezione degli Arditi non poteva prescindere dalla piena efficienza fisica, esaltata da doti atletiche notevoli. Tali qualità, oltre a fornire un’offerta efficace alla domanda che le istanze del momento decretavano urgente, trovavano una cassa di risonanza amplissima sia nelle fondamenta del Pensiero futurista, sia nella cultura sportiva che, repentinamente, venne declinata ad esigenze belliche[19], a partire dalla campagna di interventismo sostenuta da «La Gazzetta dello Sport».

Al Lettore di oggi appare lapalissiano che le fatiche di guerra possano essere, seppur solo in parte, alleggerite da una forma fisica in piena efficienza. Un secolo fa, questo concetto non appariva affatto cosa scontata:

 

Alla base d’ogni nostra attività (VI Battaglia dell’Isonzo) avevamo messo il più virile e il più intenso sviluppo della educazione fisica, sotto forma di violenti sports di guerra. Finalmente si era capito (e ci voleva la guerra per capirlo) che la condizione prima per essere un buon soldato, consiste nella robusta e vigorosa preparazione del corpo; perché la guerra è, soprattutto, una enorme fatica, e, sul campo, si combatte e si comanda bene, soltanto quando si è giocondamente sani e quando si riesce a dominare i propri nervi. Quanta strada, anche qui, dal tempo dei nostri primi lontani anni di carriera, quando, nei reggimenti, l’educazione fisica era considerata come qualche cosa di accessorio al confronto della pura istruzione  tecnico – militare, e questa, anziché essere, sopra tutto, un armonico e lieto addestramento del corpo e dell’anima, intristiva nei cortili delle caserme o sulle ben spianate piazze d’armi in un meccanismo secco e monotono, che non interessava seriamente nessuno![20]

 

Alla dimostrazione dell’efficacia delle azioni compiute da coloro che possono essere considerati veri e propri pionieri dei Riparti d’Assalto seguì la codificazione: la veste normativa che diede forma al fenomeno spontaneo degli Arditi costituisce la fase conclusiva di processo mirato ad integrare tale efficace contributo attraverso canoni definiti che ne permettano l’assimilazione sul piano organizzativo e, di conserva, un impiego pienamente strutturato.

Dopo aver considerato la presenza tra le file dell’Esercito avversario di Sturmtruppen di matrice germanica (Circolare n. 6230 del Comando Supremo del 14 marzo 1917) i Riparti d’Assalto vengono istituiti con la Circolare n. 111660 del 26 giugno 1917 a firma del Sottocapo di Stato Maggiore, generale Porro, diretta ai Comandi delle Armate 1ª, 2ª, 3ª, 4ª e 6ª. «La 2ª Armata del generale Capello si dimostra la più sollecita a mettere in pratica le richieste del Comando Supremo a causa dei risultati positivi ottenuti in azione dai plotoni speciali della brigata Lambro e della 48ª Divisione».

Si deve sempre allo stesso Francesco Saverio Grazioli, alla testa di tale valorosa Brigata (ai tempi della conquista di Gorizia, dipendente dal VI Corpo d’Armata comandato dal generale Capello), la descrizione della nascita di fatto degli Arditi ad un anno di distanza dalla loro istituzione ufficiale:

 

Questi nuclei muniti di armi automatiche leggerissime avrebbero dovuto trascinare la intera massa, la quale, come tutte le troppo numerose collettività, è per sé stessa pigra ed ha bisogno di gente spregiudicata e di temperamento acceso che, in ogni affare grosso, dia il via e l’esempio della decisione.

Fu per dar corpo a questa, davvero non peregrina ricetta di psicologia collettiva [di cui il generale Capello rappresenta un pioniere a tutti gli effetti], che, formai, fin da allora, scegliendo sul complesso della brigata, alcuni plotoncini speciali, armati di pistola mitragliatrice (sole armi leggere di cui allora potevamo disporre) e li feci addestrare dai più squilibrati e rompicollo giovani ufficiali che trovai nel reggimento, esaltando fino all’estremo le qualità di ardimento e sprezzo del pericolo, di cui quei ragazzi mostravano di essere dotati.

Tutto ciò avveniva nel giugno del 1916 e perciò assai prima che spuntassero quei plotoni arditi che generarono poi le truppe d’assalto di storica memoria, e a cui tanto si dovette nelle giornate gloriose di Vittorio Veneto.[21]

 

Principalmente, la vittoria di Gorizia si dovette alla preparazione alacre e puntuale posta in essere dal Comando del VI Corpo d’Armata a cui fu propedeutica – ed essenziale – un’azione di sgretolamento della spessa coltre di sfiducia e di scetticismo che affliggeva l’intera compagine, dal Fante agli Alti Comandi[22].

L’istituzione formale degli Arditi fu, nella sostanza, più legata alla dimostrazione palese di efficacia della preparazione propedeutica alla conquista di Gorizia che all’emulazione pedissequa delle Sturmtruppen.

L’allenamento dello spirito offensivo che diede i suoi frutti nell’agosto del 1916, a ben vedere, risale a tempi di molto precedenti:

 

Calcinato, 5 luglio 1915

 

Il generale Capello, che comanda la nostra Divisione (25ª: Brigata Macerata e Brigata Sassari) ha evidentemente una viva simpatia per Monte Nuvolo, piccola altura a sud di Lonato. Ne ha fatto un innocuo ma permanente teatro di finta guerra: i bianco – azzurri della Macerata contro i bianco – rossi della Sassari.[23]

 

La damnatio memorie che ha colpito il generale Capello si è ripercossa sulla chiarezza circa le vere origini degli Arditi, diventati (e, soprattutto, rimasti) nell’immaginario collettivo espressione del Fascismo: in tale protratta distorsione della verità storica è da cercarsi il germe che sollecita e conduce ad azioni sconsiderate come quella menzionata agli inizi.

Poche righe rispetto alla vastità del tema: vuole essere questo solo un contributo mirato a sgretolare la cortina di luoghi comuni stratificatisi nel tempo, incuranti della veridicità delle proprie fondamenta, che rappresentano tuttora un retaggio sottotraccia della retorica fascista: contributo vieppiù necessario ad una cultura nazionale propensa ancora oggi a vedere nella data fatidica del 24 ottobre l’immagine della sconfitta di Caporetto piuttosto che la data d’inizio della Battaglia di Vittorio Veneto, decisiva ai fini della conclusione della guerra, non solo italiana.

 

 

dott.ssa Maria Luisa Suprani Querzoli

[1] Sdricca di Manzano, 29 luglio 1917.

[2] La targa, posta a Sdricca, risale al 1938 (cfr. T. Dissegna, Il Comune di Manzano ritira il patrocinio: gli Arditi rimangono alla Sdricca, in www.messaggeroveneto.geolocal.it, 31 luglio 2022).

[3] L’espressione, riferita alla scarsa capacità di discernimento propria della gente, è dello stesso Mussolini (cfr. intervista di Enzo Saini ad Ardengo Soffici in «Settimo Giorno», 26 marzo 1959, in  D. Ascolano, Luigi Capello. Biografia militare e politica, Ravenna: Longo Editore, 1999, p. 225). Circa l’assimilazione politico – culturale operata dal Fascismo di alcune glorie celeberrime della guerra, spicca la figura del maggiore Baracca: si dimenticarono le simpatie repubblicane dell’Asso, palesi al punto da determinare – si disse – l’assenza del Re ai suoi solenni funerali (cfr. F. Bandini, Il Piave mormorava. Milano: Longanesi, 1968, p.210). Sia il monumento di Domenico Rambelli dedicato all’eroico Maggiore (inaugurato nel 1936), sia la raccolta rivisitata delle sue lettere (Memorie di guerra aerea, Roma: Ardita, 1933) tradiscono la finalità di quella che, a tutti gli effetti, fu un’operazione culturale con fini di propaganda piuttosto palesi.

[4] Anche l’astrologia concorse al mito: Mussolini era del Leone.

[5] Che il Fascismo fosse interessato al mito e non alla storia divenne esplicito fin dal 1923, quando di fronte allo studio esaustivo su Caporetto ad opera del colonnello Adriano Alberti (Direttore dell’Ufficio Storico di Stato Maggiore) vennero opposte nette resistenze. La ricostruzione storica dell’Alberti ha visto le stampe solo nel 2004.

[6] Risulta esemplare la metamorfosi subita dalla canzone Giovinezza, nata come canto goliardico nel 1909, eletta in seguito a inno degli Arditi e finita – letteralmente – sotto l’ala dell’aquila littoria. Oggi, tale canzone è bandita e nemmeno risulta riproponibile nella sua versione originaria, tanto risulta ancora forte l’eco di ricordi cupi di cui si è resa portatrice. Altro segno distintivo degli Arditi approdato poi al Fascismo è il fez, per non accennare al motto A noi!, inizialmente coniato dal maggiore Freguglia (Com’è nato il motto “A noi!”, in www.arditigrandeguerra.it).

[7] «Sono i nemici della guerra i quali vedono in me la personificazione stessa della medesima» (lettera di Luigi Cadorna a Ninetta, [s.l.] 2 luglio 1917, in L. Cadorna, Lettere famigliari, (a cura di Raffaele Cadorna), Milano: Mondadori, 1967, p. 208).

[8] «Il ricordo è un atto immaginativo il cui significato influenza la valutazione che diamo del presente» (F. Fera, Storie che curano – Dialoghi.it, in www.yumpu.com). Tale asserzione, aderente all’indirizzo dato alle scienze psicologiche da James Hillman, inerente al microcosmo dell’individuo, può essere estesa al macrocosmo della Nazione.

[9] Cfr. voce ‘ardito’, Vocabolario Treccani, www.treccani.it.

[10] Il brano della canzone è tratto Giovinezza primavera di bellezza. Le origini del Canto degli Arditi, in www.arditigrandeguerra.it. Il sentimento di esaltazione guerriera è in antitesi all’empatia provata da diversi Soldati nei riguardi dei loro avversari con i quali condividevano – a breve distanza di spazio – gli stessi forti disagi legati alla vita di trincea. Tale sentimento, seppur chiaramente comprensibile sul piano umano, risultava di fortissimo nocumento allo spirito offensivo necessario all’impegno bellico.

[11] Solitamente con l’espressione ‘Fiamme Nere’ si indicano gli Arditi. Erano altresì presenti le mostrine cremisi presso i Bersaglieri e quelle verdi presso gli Alpini.

[12] L. Freguglia, XXVII Battaglione d’Assalto. Gli Eroi del Montello (a cura di A. Mucelli), Bassano del Grappa: Itinera Progetti, 2017, p. 11.

[13] Cfr. ivi, documentazione iconografica compresa fra le pp. 80 e 81 del volume. I nessi fra religione e guerra sono indagati in J. Hilman, Un terribile amore per la guerra, Milano: Adelphi Edizioni, 2005.

[14] E. De Rossi, La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 281.

[15] L. Capello, Note di guerra, vol. I, Milano: Fratelli Treves Editori, 1921, p. 91.

[16] E. De Rossi, La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, cit., p. 275.

[17] Anche gli Aviatori subirono sorte analoga: la lontananza dal fango della trincea corrispondeva nella mentalità del Fante (circa la psicologia del Fante cfr. A. Gatti, Caporetto. Dal diario di guerra inedito (maggio – dicembre 1917) (a cura di A. Monticone), Bologna: Il Mulino, 1964, pp. 65 – 66) ad uno status degno di invidia, sentimento immediato e, come tale, inconsapevole delle altissime percentuali di rischio connesse a tali ambiti elitari.

[18] Generale Giuseppe Musinu (Thiesi, 22 marzo 1891 – ivi, 4 aprile 1992). Il brano dell’intervista televisiva rilasciata dal Generale in occasione dei suoi cento anni compare al link https://youtu.be/o_ytrMoUU9A.

[19][19] Risulta indicativo, al pari di una sintesi di tale declinazione, l’iter compiuto dall’Aviazione: da sport per eccentrici (guardato inizialmente con scetticismo ed estrema diffidenza) ad arma del futuro, nell’arco di pochissimi anni.

[20] F. S. Grazioli, In guerra coi Fanti  d’Italia, Roma: Libreria del Littorio, 1930, p. 60.

[21] Ivi, p. 66.

[22] Dell’azione propedeutica (morale e pratica)  necessaria alla vittoria importante di Gorizia si trova ampia trattazione in Note di guerra (vol. I), memoria difensiva del generale Capello, pubblicata pressoché a ridosso dell’uscita della Relazione della Commissione d’inchiesta su Caporetto. La memoria del Generale confuta le accuse rivoltegli da una Commissione – come divenne presto palese – non informata da criteri di obiettività nel proprio operare. Anche il testo citato di Grazioli, seppur scritto quando, per motivi politici, oramai Capello era caduto definitivamente in disgrazia, si dimostra concorde con quanto sostenuto dal Generale in Note di guerra.

[23] G. Tommasi, Brigata Sassari. Note di guerra, Roma: Tipografia Sociale, 1925, p. 17. «E lo sa chi vi parla, avendo presenti i ricordi che di Capello serbarono gli uomini della Brigata Sassari, per sua volontà composta esclusivamente da sardi» (A. Corona, Capello massone, in AA.VV., Luigi Capello. Un Militare nella storia d’Italia (a cura di Aldo A. Mola), Cuneo: Edizioni L’Arciere, 1987, p. 247).