Ettore Viola I Combattenti e Mussolini dopo il Congresso di Assisi Pag 73- 87

  

da pag 73 a pag  87

 

Livio Pivano, riferendosi a Rossini che il 27 novembre 1925 aveva abbandonato il nostro schieramento per passare con Mussolini,  aveva già detto a pagina 180 del suo libro che « poco dopo, si poneva nella stessa  rotta  di Rossini  l’On.  Viola… » ed ora dice che « dopo il 3  gennaio  presi  ordini dalla sua coscienza – così si espresse alla Camera – Viola abbandonò l’opposizione e si sottomise al fascismo ».

Anche la cattiveria  dovrebbe  avere un limite.

Prima  di tutto non  si può  dire « poco  dopo » quando tra il caso Rossini, del 27 novembre 1925, e il caso Viola del 18 dicembre 1926 trascorse più di un anno saturo -possiamo ben dirlo -di avvenimenti non ancora mai visti dopo l’unità d’Italia; e tra il 3 gennaio 1925 e il 18 dicembre 1926 trascorsero poco meno di due anni, anch’essi da ricordare tra i peggiori della nostra storia patria .

C’è inoltre da tener presente che l’ « Opposizione in Aula » durò in tutto due anni, cioè dal novembre  1924 al novembre  1926.

Il lettore potrà presto conoscere le ragioni per cui, mio malgrado e per forza maggiore, dovetti fare la dichiarazione del 18 dicembre 1926.

A  pagina   190  l’autore  del  libro  dice  ancora:

« Il nostro  tema  può  considerarsi  esaurito  con  la seduta del 9 novembre 1926 che ha approvato la mozione del deputato Augusto Turati per  dichiarare decaduti dal mandato parlamentare 123 deputati dell’Aventino ». Non mi rendo conto del perché non citi anche il disegno di legge sui « provvedimenti  per  la  difesa dello  Stato ».

Il Pivano,  comunque, conclude  così:

« Al termine della discussione, ed approvati gli articoli del disegno  di  legge  a  scrutinio  segreto, fu votato per appello nominale la mozione alla quale risposero ” NO ” soltanto i deputati: Bavaro, Fazio, Gasparotto, Giovannini, Lanza di Trabia, Musotto, Pasqualino Vassallo, Pivano, Poggi, Scotti, Soleri ».

E di Viola che ne ha fatto lo scrittore obiettivo?

Tra i « NO » non c’era anche il voto del Presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti che fu, poi, dopo il 4 marzo 1924, Presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti Indipendenti, quindi l’uomo che più di ogni altro si era sacrificato dal Congresso di Assisi fino al 9 novembre  1926?

Dell’Associazione non si presentarono a votare, come si sa, Savelli, Paoletti e Ponzio di San Sebastiano.

Dell’Associazione votarono « SI », cioè a favore di Mussolini,  Rossini e Pellanda. Votarono  invece « NO »: Bavaro, Musotto, Pivano, Viola (soltanto quattro deputati perché Gasparotto e Lanza di Trabia., pur essendosi inquadrati con noi alla Camera’ non facevano parte della nostra  Associazione).

Si è dunque commesso un falso eliminandomi  il 9 novembre  1926, dal gruppetto  di coloro che votarono « NO » alla Camera e si è commessa una vigliaccheria insinuando che « dopo il 3 gennaio del l 925 avevo abbandonato l’opposizione per sottomettermi al fascismo » invece di dire, caso mai, che avevo abbandonato l’opposizione dopo il 18 dicembre   1926.

Sempre a pagina 190 lo scrittore aveva già detto:

« Il nostro tema può considerarsi esaurito con la seduta del 9 novembre 1926… ». A nome di chi parlava? Certamente a nome dei quattro Deputati che avevano votato per l’ultima volta contro il fascismo, tra cui era lui ma anche chi scrive. Infatti per il testo della Legislatura, fino all’anno 1929, nessuno dei quattro aprì bocca alla Camera. Di Savelli non parlerò perché  egli si era già riconciliato con Mussolini.

 

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Analizziamo ora i motivi che mi condussero alla dichiarazione del  18 dicembre  1926.

Erano già trascorsi 39 giorni dal 9 novembre. Nessuno aveva più vincoli associativi o parlamentari. Quando nella città di Roma qualcuno intravvedeva l’amico da lontano e sullo stesso marciapiede, faceva finta di non vederlo o cambiava rotta per non incontrarlo.

Dico tutto questo non per discolparmi ma per far capire semplicemente che la mia strada era già stata ostruita dai miei stessi compagni. Tutti, infatti, si attendevano una parola o un atto che li svincolasse dall’impegno associativo, fors’anche il Sig. Livio Pivano, sia pure con il suo eloquente silenzio; e allorché il 18 dicembre feci la censurata dichiarazione, nessuno mi criticò ma, al contrario, il comportamento di ciascuno rivestì l’inequivocabile carattere di fatalità.

 

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Anche nel suo libro, Pivano accenna a una Associazione Nazionale Combattenti  Indipendenti costituita in Roma dopo aver dovuto cedere l’Associazione-madre ai tre citati Commissari, ma non dice che l’iniziativa fu di chi scrive e di pochi altri commilitoni, e non dice neppure che a tutte le conseguenti spese dovette provvedere lo stesso presidente dell’Associazione: all’affitto di un ufficio in Piazza Fontanella Borghese, allo stipendio di una dattilografa, alle piccole spese del bravo Chiapparini che per un anno funzionò da segretario abbandonando la sua dimora di Viareggio, a tante altre necessità minori.

Soltanto il Senatore Luigi Albertini, direttore del « Corriere della Sera », che avevo occasione di vedere perché simpatizzava con me per le responsabilità che stavo assumendo, mi chiese di sapere con quali mezzi riuscivo a tirare avanti. La mia risposta lo sorprese per cui, dopo un momento di riflessione, mi disse: « venga a trovarmi a Milano nel mio ufficio  del  ” Corriere  della  Sera “.

Qualche giorno dopo ero nel suo ufficio insieme con il collega Vincenzo Bavaro. Il gentiluomo fece una telefonata all’On. Giacinto Motta, Presidente della « Edison » e qualche cosa si concluse.

Uscimmo dall’Ufficio di Motta con quindicimila lire ma, purtroppo, anche con l’avvertimento che non avrebbe potuto  ripetere  l’operazione, benché a malincuore. Capimmo che il simpatico Motta era già sul punto di non potersi più interessare dei lavori di Montecitorio.

Le quindicimila lire finirono presto e perciò dovetti ricorrere  ai prestiti  personali.  Mi vennero  incontro alcuni amici della Lunigiana, benestanti, che fino allora avevano solidarizzato con me non approvando gli atteggiamenti  di Renato Ricci.

Ancora oggi mi piace ricordarli, quei gentiluomini, anche per soddisfazione dei superstiti loro familiari. Si trattava dell’Avv. Rossi e del Dott. Gagliardi di Aulla e dell’Avv. Cavagnada di Pontremoli,  tutti di oltre trent’anni  più  anziani  di me.

Le cifre che misero a mia disposizione nel corso di vari mesi raggiunsero le 300.000 lire, somma enorme in quell’epoca,  quando  si pensi  che anche l’ « onorario » dei deputati non superava allora le 1500  lire mensili.

Il mio debito fu garantito da cambiali, che mi furono rinnovate varie volte e anche volentieri, ma non potevo adattarmi all’idea di poterli deludere venendo  meno  alla  parola  data.

A un certo punto la mia situazione si rivelò angosciosa . Avrei dato l’anima al diavolo pur di uscirne  in qualche modo.

D’altra parte la partita con Mussolini  era  ormai perduta e ognuno pensava ai fatti propri senza curarsi di coloro che avevano combattuto nella stessa trincea non importa se sacrificandosi più degli altri.

Fuggendo  all’estero  come  un  comune  pregiudicato o un fuoruscito politico non avrei risolto il problema, e per fare quel che mi era improvvisamente venuto in mente avevo assolutamente bisogno di un regolare passaporto.

Mi recai perciò al Viminale, ma il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, On. Suardo, mi disse subito brutalmente: « Caro Viola, Mussolini non ti darà mai il passaporto se non farai un atto di contrizione » e prima di licenziarmi mi indicò pressappoco quel che avrei dovuto dire alla Camera.

« Perché  alla Camera  e non in una lettera? », risposi.

« No,  alla Camera ».

Salii le scale del Viminale altre tre volte. Il documento che avrei dovuto leggere in una  seduta della Camera alla presenza di  Mussolini non  era mai  di loro  gradimento.

Finalmente cedetti, ed ecco qui la mia  condanna… specie per chi rimase in acque torbide ma tranquille per i propri  fini.

 

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Dal resoconto parlamentare:

Viola: « Chiedo di parlare ».

Presidente: « Ne ha  facoltà ».

Viola: « Onorevoli colleghi, la discussione sul prestito del Littorio, chiusasi con rapidità,  mi  ha fatto perdere l’occasione di fare dichiarazioni di varia natura, che faccio ora, prima  che si chiudano  i lavori  dell’annata.

« Parlerò non per accompagnare una goccia d’acqua al mare, bensì per sottoscrivere lealmente l’atto di abbandono della  linea  che altrettanto  lealmente ho tenuto negli ultimi tre anni. Le mie dichiarazioni saranno strettamente personali, cioè prescinderanno dal pensiero degli amici, che per altro non sono più da me ufficialmente rappresentati.  E non si proporranno di giustificare la mia condotta, sia perché questa non è la sede più opportuna, sia perché sulla infallibilità degli uomini (mi pongo in primissima linea) non c’è mai da dormire sonni troppo tranquilli.

« Potrò non di meno precisare che tanto nel gennaio 1924, parlando in pubblico comizio come nel luglio dello stesso anno, presentando ad Assisi il noto ordine del giorno io, fascista e generale della Milizia, credetti bene di servire il mio Paese ma anche il mio Partito che, largamente rappresentato al Congresso dei Combattenti, fiancheggiò la mia opera intesa a conciliare le opposte tendenze.

« Le vicende successive – mi riferisco a quelle che mi riguardano personalmente, ed impersonalmente – sono pure note, egregi colleghi, ma oggi la situazione è quella che è. Ed io, che ho combattuto taluni sistemi provinciali, del tutto smessi dopo l’avvenuto mutamento al Ministero degli Interni, e non ho votato molte leggi del regime, al punto in cui siamo, sento di dover prendere atto degli ottimi risultati ottenuti dal Fascismo in ogni campo. Ond’è che presi gli ordini dalla mia coscienza, che non si condanna ma si ritempra invitandomi a guardare più in alto e più oltre, e tenuto conto del periodo rivoluzionario e perciò transitorio, che viviamo... [Interruzioni – Commenti] ».

Una  voce:  « Non  transitorio! ».

Viola: « Il periodo rivoluzionario è transitorio… e tenuto conto, dicevo, del periodo  rivoluzionario che attraversiamo, aderisco alla formula: il fine giustifica i mezzi, sicuro che il fascismo,  assecondato da tutto un popolo di lavoratori e sapientemente guidato dal suo Capo, saprà giungere a ben più  alte e sicure  mete.

« Ora è sovrattutto per  le  mete  ultime, le  quali già s’intravedono all’orizzonte dell’Italia che marcia, che io sento la fierezza di mettere il mio modesto braccio di soldato a disposizione dell’Uomo che tiene  incontrastabilmente  in pugno  l’avvenire  della Patria   [Commenti] ».

Il lettore obiettivo non si meraviglierà troppo. Tutt’al più potrà pensare che potevo evitare di aggiungere  le ultime  quattro o cinque  righe.

Il lettore malevolo potrà dire invece che non avrei mai dovuto fare quell’atto di contrizione.

Rispondo che senza quell’olocausto mi sarei addirittura rovinato moralmente.

 

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Tre mesi dopo, provvisto dei necessari documenti, mi imbarcavo a Napoli su una nave della Società di Navigazione Italia, diretto nel Cile, e nella stiva scendeva contemporaneamente un mio rilevante carico di opere d’arte, quasi tutte di pittori italiani dell’Ottocento e del primo Novecento, raccolte da me stesso a Roma e in altre città: Napoli, Firenze,  Milano,  Venezia.

Nella raccolta ebbi quale esperto e consigliere una perla di uomo, il Prof. Carlo Siviero, già direttore dell’Accademia di Belle Arti di Napoli e, al tempo di cui parlo, direttore dell’Accademia di  Roma. Era, il Siviero, anche un eccellente pittore.

L’amico Siviero era quasi ogni giorno in Via del Babuino  e in  Via  Margutta,  quartieri  degli  artisti e dei commercianti d’arte, che io frequentavo  forse con maggiore interesse in quel momento, per la ragione che, appassionato dell’arte pittorica, già pensavo di potermene avvalere in qualche modo per superare le mie  difficoltà  contingenti.

Il Prof. Siviero mi assecondò e aiutò particolarmente quando gli dissi che aspiravo a fare qualche esposizione d’arte moderna all’estero ma che, purtroppo, non  disponevo di mezzi  finanziari sufficienti  per  cui  avrei  sperato  di poter  ottenere  le opere d’arte in consegna fiduciaria, rimandando i rispettivi pagamenti allorché avessi potuto venderle.

Per le vendite mancate – dissi – mi sarei invece impegnato a restituire le opere in buone condizioni di manutenzione e senza alcun carico di spese  da parte  dei  proprietari  delusi.

Fui fortunato. Tutti gli artisti, ad eccezione di Ettore Tito e di qualche commerciante, accettarono di buon  grado la  mia  proposta.

Oggi, dopo quasi cinquant’anni, mi meraviglio ancora di aver trovato l’Italia di quei tempi con uomini e gentiluomini di quello stampo i quali, d’altra parte,  non poterono che essere soddisfatti di me a lavoro concluso.

Ecco perché avevo bisogno del passaporto.

 

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Nel Cile l’esposizione ebbe un buon successo di critica ma quel che ricavai mi bastò appena per pagare le spese di viaggio e di soggiorno, nonché  il professore  che mi operò di appendicite.

A proposito di questo  inconveniente  un’Agenzia fece giungere in Italia la notizia che ero morto sotto l’operazione. I miei nemici furono i primi a correre nella casa paterna in Lunigiana, per le condoglianze di rito: « Eppure era una  brava  persona, un galantuomo! », questa era la voce corrente, e il Parlamento era già pronto per farmi la commemorazione,  quando giunse la smentita.

Ergo: i nemici rimasero nemici più che mai ed io, dopo una breve convalescenza, decisi di recarmi con armi e bagagli a San Francisco di California, via Pacifico.

Il Console italiano che vi trovai, simpatico ed ospitale, vagliate le possibilità mi suggerì di proseguire per il Giappone, non prevedendo alcun successo in San Francisco.

Telegrafai perciò all’Ambasciatore d’Italia a Tokio,  che  mi  rispose  affermativamente,  se non  che a Honolulu  mi giunse un  suo secondo telegramma così concepito: « Prese maggiori informazioni la consiglio di non proseguire il viaggio ».

A questo punto mi considerai perduto e le peggiori reazioni mi turbarono paurosamente. Ebbi paura  di me  stesso.

Il vapore intanto stava per levare le ancore ed allora, benché  stravolto,  decisi  di continuare.

A Yokohama, porto di Tokioe, era ad attendermi Leone Waischot, incaricato d’Affari. L’Ambasciatore, nativo di La Spezia, era partito nel frattempo per l’Italia, in vacanza.

Il bravo Waischot mi venne incontro con queste parole: « Ha fatto bene a  venire.  L’Ambasciatore era male informato. Vedrà che le cose andranno bene. Le presenterò varie persone tra cui un certo Terasaki, pittore che ha studiato per vari anni a Venezia e poiché parla benino l’italiano, le potrà servire  anche come  interprete ».

A mia volta gli dissi che in Italia nel 1920 avevo avuto l’onore di essere presentato a S. M. Hirohito, allora Principe ereditario. Mi aveva presentato a tale alto personaggio Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III in occasione  di un  convegno  familiare al Quirinale.

« A maggior ragione le cose le andranno bene ».

Infatti la mia esposizione d’arte  ebbe un  grande successo. In quindici giorni si registrarono non meno di centomila visitatori, sicché tra le opere vendute nei giorni dell’esposizione e quelle vendute privatamente a personalità alle quali fui presentato da Waischot e dall’interprete  Terasaki,  vendetti quasi  tutte le opere.

Ne acquistarono anche i Principi imperiali; e l’Aiutante di Campo dell’Imperatore, Barone Okura, ricordandosi che anche lui mi aveva conosciuto a Roma, volle ospitarmi nel suo grande e moderno albergo al centro di Tokio, spesato di tutto.

Sua Maestà l’Imperatore, compiacendosi di ricevermi, mi accolse con queste precise parole, registrate dall’Incaricato di Affari italiano: « Sono lieto di rivederla qui in Giappone dopo averla conosciuta a Roma, e mi auguro che questo suo breve soggiorno possa esserle gradito ».

A Tokio mi fecero regali molte personalità a cominciare  dal Presidente  del Consiglio  dei Ministri e dal Principe ereditario, e molti regali mi consegnarono per Mussolini. Sicché, rientrando a Roma, anche per i regali destinati al dittatore dovetti pagare le tasse doganali.

Il mio primo dovere, rimpatriando, fu quello di consegnare ai pittori e ai commercianti che mi avevano  affidato le opere, quanto era stato convenuto e, subito dopo, di restituire ai miei generosi conterranei il denaro che mi avevano prestato .

Ciononostante mi restò denaro per poter intraprendere qualche altra attività.

Sta di fatto che nella primavera del 1929 mi trovavo già a Stoccolma con una seconda mostra pittorica finanziata questa volta in gran parte da me.

Anche questa operazione, alla cui apertura presenziò il Re Gustavo V, ebbe una buona accoglienza e, prima di rientrare a Roma, volli trasferirla a Londra, ove restò esposta al pubblico altri quindici giorni.

Nel corso di quella esposizione l’Ambasciatore d’Italia mi recapitò un telegramma il cui contenuto era il seguente: « L’Ambasciata d’Italia a Tokio desidera sapere, a richiesta dei giapponesi, se accetti di recarti a Tokio per aiutarli ad organizzare una esposizione di arte giapponese in Roma. In caso affermativo dovresti partire entro trenta giorni. Dino Grandi – Sottosegretario di Stato al Ministero degli Esteri ».

Poiché l’idea di un’esposizione d’arte giapponese in Roma era stata mia, di Terasaki e dell’Incaricato d’Affari d’Italia in Giappone, Waischot, non  ci pensai troppo prima di rispondere affermativamente.