Ettore Viola I Combattenti e Mussolini dopo il Congresso di Assisi Pag. 88 -121

  

 

Da pag. 87 – 121

Giunsi per  la  seconda  volta  in  Giappone  nella stagione  dei  crisantemi,  mentre  la  prima  volta  vi  giunsi nella stagione dei ciliegi:  due feste tradizionali,  e vi rimasi  tre mesi.

La prima volta ero giunto in Giappone facendo il giro del mondo perché  ritornai in  Italia  attraverso la Transiberiana. Sempre la prima volta, oltre alle vicende drammatiche di Honolulu, già raccontate, dovetti subìre a Tokio le conseguenze di una fortissima scossa di terremoto che mi scaraventò fuori della finestra dell’albergo in malo modo ferendomi in varie parti del corpo; e alla frontiera con la Russia dovetti soffrire le pene dell’inferno  perché quei doganieri volevano a tutti i costi vedere quel che portavo in un pacco sigillato che mi aveva consegnato l’Incaricato d’Affari dell’Ambasciata accreditandomi  come  corriere  diplomatico.

La seconda volta, invece, per non perder tempo, mi imbarcai a Venezia su una nave italiana diretta a Bombay: attraversai tutta l’India e a Ceylon trovai posto su una nave francese, la stessa che qualche mese dopo, nel viaggio di ritorno, mi sbarcò a Marsiglia.

Ritornando  al  tema  dell’esposizione  giapponese a Roma, fu da noi concluso a Tokio che « il Barone Okura, Aiutante di  Campo  dell’Imperatore,  avrebbe finanziato interamente l’operazione, ma per ragioni  attinenti  al  suo ufficio,  non  sarebbe  venuto a Roma; sarebbe invece  venuto a Roma un folto gruppo di rinomati pittori insieme con l’amico Terasaki, un segretario del Barone Okura e qualche tecnico addetto alla sistemazione dei fiori all’interno del Palazzo dell’esposizione. Inoltre nessuna opera d’arte si sarebbe venduta perché non si doveva dare l’impressione che si trattasse di una iniziativa commerciale ».

Per patrocinare l’impresa, a Roma organizzai un Comitato d’Onore con la presidenza di Boncompagni ed io accettai la presidenza del Comitato esecutivo.

Un intero treno trasportava intanto le opere da Napoli a Roma, e gli addetti alla loro sistemazione cominciarono  il lavoro.

A questo punto (si era a una quindicina di giorni dalla inaugurazione) ecco una novità: il Segretario generale del Partito, Augusto Turati, fa sapere a Mussolini che « se Viola dovesse restare alla Presidenza del Comitato Esecutivo, nessun dirigente del Partito  interverrebbe  alla  inaugurazione  dell’esposizione giapponese ».

Mussolini fa le sue osservazioni – peraltro debolissime – e poi cede.

Viola  è escluso.

I giapponesi, rimasti di stucco, chiedono le ragioni di tale cambiamento e qualcuno protesta dicendo: « Se ritenevate l’On. Viola inadatto a questo compito perché  l’avete fatto venire a Tokio? ».

La risposta fu vaga.

L’esposizione riportò comunque un grande successo: il Barone Okura, i pittori e le altre personalità del seguito furono decorati da Mussolini, ma i giapponesi ringraziarono soltanto Viola.

Ecco come mi sarei reinserito nel fascismo.

 

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Le mie successive attività riguardarono esposizioni e vendite all’asta organizzate in Italia con opere d’arte acquistate anche in Inghilterra – nella galleria Christie’s – e in Cile. Ne feci una a Napoli, nella Galleria Corona, una seconda a Milano nella Galleria Geri e una terza a Roma in una Galleria di Via del Babuino.

Avevo ormai acquisito una buona esperienza in materia; d’altra parte non avrei saputo come impiegare meglio il mio tempo.

Anche la Galleria d’Arte Moderna di Valle Giulia mi acquistò in quel periodo un bellissimo quadro di Mancini – prima maniera – da me rintracciato a Santiago del Cile.

In quest’ultima città – tradotto anche in spagnolo – scrissi un libro: America del Sud e il suo destino politico (Editorial Nascimento, Santiago del Cile, 1933) che ebbe un consenso unanime e una critica molto lusinghiera.

In Italia ne portai un migliaio di copie e alcune di esse provai a farle esporre nella Galleria Vittorio Emanuele di Milano, ma ci rimasero soltanto una decina di giorni perché la polizia fascista – così mi disse il libraio – le fece togliere dalla vetrina.

Non mi restò che depositare i libri nella Galleria Geri ove durante la seconda guerra mondiale furono distrutti, anzi bruciati nel corso di un bombardamento aereo.

Anche questa sarebbe una prova del mio nuovo inserimento nel Partito Fascista; ma di prove posso fornirne  tante  altre.

Per esempio, nell’epoca in cui Costanzo Ciano dopo aver ricevuto, il 31 ottobre  1923 in regime fascista e con cinque anni di ritardo, la medaglia d’oro al valor militare, volle anche essere nominato Presidente del Gruppo Medaglie d’Oro con dispotici poteri e, come tale, ordinò a tutti gli associati di « montare » la guardia – in divisa fascista o militare e con tanto di moschetto in spalla – davanti alla porta del Palazzo dell’Esposizione in Via Nazionale, e ciò per valorizzare i cimeli fascisti che ivi si esponevano al pubblico; in quell’occasione lo scrivente fu il solo a rifiutarsi di partecipare a quella buffonata, e ancora oggi, quando ripenso al valoroso Generale, Principe Maurizio Gonzaga, decorato con due medaglie d’oro, impalato davanti al Palazzo delle Esposizioni, con divisa e berretto fascisti e il moschetto appoggiato alle sue vecchie spalle, mi viene una indicibile tristezza.

Alcuni anni più tardi lo stesso Ciano invitò i decorati di medaglia d’oro a far domanda per partecipare alla imminente guerra contro l’Etiopia ed io fui ancora una volta l’unico, tra i convenuti, a  rifiutarsi di aderire alla richiesta dell’Ammiraglio livornese. Ma da quel momento mi sentii più che mai malsicuro in Italia, per cui feci il possibile per espatriare. D’altra parte cos’altro potevo fare se ero già catalogato tra coloro ai quali era inibito di varcare la  frontiera?

Mi venne incontro, per fortuna, il Console generale del Cile a Genova, il quale utilizzò, per raggiungere lo scopo, un suo amico funzionario di Questura, al quale disse che si trattava di un certo Viola, marito di una sua parente.

Giunto in incognito a Valparaiso col passaporto rilasciatomi a Genova invece che a Roma, non tardai a scrivere da Santiago una lettera raccomandata al dittatore,  del  seguente  tenore:

 

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« Eccellenza, da un angolo remoto dell’America un italiano vi scrive: egli crede di averne i requisiti e crede per di più di avere il diritto d’interessarsi delle sorti del proprio Paese non meno di quanto possiate averlo Voi, che per ragioni peculiari siete costretto, in questo momento, a difendere principalmente il Vostro punto di vista personale, che non è detto debba coincidere con gli interessi generali del Paese stesso.

« Del resto chi Vi scrive non ha avuto bisogno, nei quattro duri anni della vita nazionale che condussero a Vittorio Veneto, di ricevere lezioni di patriottismo da chicchessia;  e  successivamente,  per essere stato deputato al Parlamento e Presidente dell’Associazione Nazionale tra ex combattenti, dalle quali cariche non già la volontà popolare ma leggi coercitive lo hanno fatto decadere, egli  ha  acquisito il diritto di parlare non soltanto in nome suo: diritto che gli rimane intatto in quanto che, per la ragione accennata, fu costretto a ritirarsi dalla vita pubblica quando godeva più che mai della fiducia degli elementi che rappresentava. D’altra parte considero non essere la prima volta che, nonostante alcuni motivi di simpatia che possono talora avermi più o meno avvicinato alla Vostra persona, Vi faccio chiaramente intendere che dissento  dalla  Vostra politica. Di tale libertà mi onoro essermi servito durante la Vostra dittatura; tuttavia mi piace ricordarvi che già in epoca anteriore separai nettamente la mia responsabilità da quella di coloro che Vi seguivano: alludo ai giorni della famosa « pregiudiziale repubblicana », che cominciaste ad abbandonare solo allorché ebbe parlato, in virtù di un provvidenziale intervento al quale non fui estraneo, l’allora  temuto  Gabriele  D’Annunzio.

« Ciò premesso, con  lo stesso  animo  del  1921,  che mi spinse ad agire senza tener conto di aver avuto stretti contatti con Voi all’epoca di Fiume, oggi, dopo avervi creduto altre volte sebbene a intervalli e condizionatamente,  sento l’imperioso  dovere di farVi conoscere  tutto  il mio pensiero.

« A Voi, Eccellenza, nessuno osa parlare francamente. Io stesso quando risiedo in Italia prendo tutte le precauzioni per non cadere inutilmente sotto il peso di sanzioni  gravi; ma negli ultimi dieci anni avrei invano scorrazzato per il mondo e dovunque ascoltato amici e nemici della Vostra causa, se non potessi prendermi la libertà di dirVi, oggi, ciò che altri Vi tace e che l’insana prospettiva del potere a Voi stesso nasconde.

« Ebbene, Eccellenza: dopo tredici anni di governo, dopo aver privato  il popolo  italiano  delle più elementari libertà, dopo aver quasi raddoppiato il debito pubblico ed esaurito le riserve del tesoro, dopo aver umiliato i più alti valori morali della Nazione e pressoché dispersi i maggiori valori intellettuali, dopo aver impoverito le classi abbienti senza elevare il tenore di vita delle classi povere; dopo, insomma, aver fatto  inginocchiare ai Vostri piedi 43 milioni di cittadini, che il mondo oggi commisera quanto più i Vostri partigiani Vi esaltano, avete deciso di imbarcarVi in una grande avventura coloniale.

« Ricordo che già nel 1925 Vi si attribuivano, nei corridoi  di  Montecitorio,  propositi  analoghi. Pensaste, allora, sicuramente, che il popolo non era ancora sufficientemente schiavo per seguirVi ciecamente , che la  finanza  e  l’economia  non  erano  ancora completamente nelle Vostre mani, che le condizioni generali del Paese potevano consentirVi di vivere ancora alla giornata e senza rischio; così che rimandaste la partita. Che la partita fosse soltanto rimandata Voi lo sapevate perfettamente: se  così  non fosse stato non sapremmo come giudicare il Vostro prestigio di persona intelligente, già che un dittatore che si rispetti rifiuta di passare alla storia con le soddisfazioni fatue di un  semplice tiranno.

« Per compensare i duri sacrifici imposti al popolo, Vi siete dunque messo in mente di dare qualche nuovo  territorio  alla  Patria.

« Tutti  riconoscono  che l’Italia  ha  bisogno  di espansione. Lo hanno riconosciuto prima di Voi i Governi che Vi hanno preceduto, da Crispi, interessato nella prima campagna africana, a Giolitti, che ci ha dato la Libia e il Dodecaneso; lo riconosciamo noi, reduci della guerra mondiale, che sulle orme degli eroi che hanno realizzato l’unità d’Italia, abbiamo saputo affrontare i più duri sacrifici. Nulla di strano perciò che il pensiero dominante dei maggiori patrioti sia oggi anche il Vostro.

« Ma gli uomini che Vi hanno preceduto, Eccellenza, non hanno mai pensato di far giocare alla Nazione una carta estremamente pericolosa, né di legare l’esito  di una grande avventura al loro prestigio personale; per contro, son sempre entrati in azione dopo aver preso tutte le precauzioni atte a garantire il successo, accettando pacificamente di lasciare ad altri la responsabilità del potere quando s’avvedano di non riscuotere più la fiducia di un popolo libero. Voi invece, con la sola illusione di dare un valore  morale  alla  tirannia  e di  orientare la pubblica  opinione oltre i limiti delle difficoltà e dei gravami interni, trovandoVi ormai in un vicolo cieco contro il quale né la Vostra autorità personale né l’ipotetica efficacia delle Corporazioni avrebbero potuto trionfare, Vi siete buttato allo sbaraglio, dimostrando in tal modo di voler mettere l’Italia sul Vostro stesso piede, e gli italiani dinanzi alla necessità di dover difendere Voi difendendo le pericolanti sorti del Paese. Avete cioè agito come se la Vostra persona avesse l’importanza e la trascendenza della Patria stessa, come se Voi rappresentaste da solo tutto il passato, tutto il presente e tutto l’avvenire di un grande popolo, come se Voi foste un essere soprannaturale dinanzi al quale debbono inchinarsi i Parlamenti, i Re, i Papi.

 

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« Nel gennaio u.s. ero a Roma  quando V. E., dopo aver bruscamente voltato le spalle alla Germania, trattava con Laval i termini di un riavvicinamento. Ricordo che in quella circostanza un giornalista del regime ebbe a confidarmi, molto riservatamente,  che eravate sul punto  di ottenere dalla Francia mano libera in Africa nonché un cospicuo prestito. A qualche mia osservazione, il giornalista· rispose testualmente: ” Anche l’Inghilterra accetta la conquista,  da parte nostra, dell’Abissinia;  ma ciò non dovrà, per ragioni ovvie, risultare palesemente, almeno per il momento “.

« Da quei giorni, e per alcuni mesi, la maggioranza degli italiani accreditò dicerie analoghe, con il benefico risultato che anche gli oppositori dichiarati del regime si apprestarono a disarmare gli animi. Se non che, a poco a poco la verità si fece strada; a poco a poco, nonostante le Vostre solenni affermazioni secondo le quali ” dato il carattere dei rapporti esistenti tra  l’Italia, la  Francia  e l’Inghilterra, era presumibile che nessun passo sarebbe stato fatto, a Roma,  dalle Potenze  interessate  nella  questione etiopica “, gli spiriti sereni cominciarono a preoccuparsi  della  gravità  della  situazione.

« Non si trattava più ormai, dopo Stresa, dell’appoggio per la conquista dell’Etiopia, né di un prestito, ma bensì dell’ostilità decisa e inflessibile dell’Inghilterra; e tutto ciò sotto la latente minaccia tedesca; e senza poter gran che contare sulla nuova amicizia della Francia che non vi peritaste di attaccare e maltrattare fino ai giorni del Vostro famoso convegno con il dittatore tedesco.

« E poi quale credito avrebbe potuto  accordare alla Vostra amicizia, Eccellenza, una Francia alla quale deste prova di ricorrere solo perché Hitler rifiutò di prestarsi ancora al Vostro gioco politico; alla quale deste prova di doverVi attaccare disperatamente per avere qualche probabilità di successo nell’impresa africana? Quale credito poteva accordarVi ancor più recentemente la Francia, dopo il vano tentativo di riguadagnare la sponda tedesca, foato da Voi per mezzo dell’ultimo ambasciatore inviato a Berlino?

« L’errore è evidente, Eccellenza, e consiste nel non aver previsto l’atteggiamento dell’Inghilterra, o quanto meno, avendolo previsto, di non aver tempestivamente preso tutte le precauzioni che il caso richiedeva; e consiste principalmente nel non aver previsto che, in caso di difficoltà con l’Inghilterra, la Francia Vi avrebbe, nella migliore delle ipotesi, abbandonato alla Vostra sorte.

 

« Fascioda a Voi non aveva insegnato nulla; nulla Vi aveva insegnato tutta la condotta inglese, da Napoleone in poi, intesa a controllare l’Egitto, il Sudan e le acque del Nilo, a garantirsi la via delle Indie, a eliminare quindi chiunque, installandosi sull’altipiano etiopico, minacciasse l’una cosa e l’altra. Non dico con questo che bisogni rispettare ad ogni costo le esigenze dell’imperialismo  inglese; dico bensì e sostengo che, essendo la politica estera un gioco di alleanze e di interessi, non bisognava presentarsi alla prova nelle peggiori condizioni.

« Un’Italia fiancheggiata, in Europa, da un’Austria povera e disarmata, da una Ungheria che a null’altro pensa se non alla revisione dei trattati, e da una Albania instabile  e turbolenta – le sole Nazioni che il regime ha potuto conservare nell’orbita della sua politica -, un’Italia per di più impoverita e imbavagliata come non è stata mai in passato, non poteva essere la più indicata a fronteggiare il colosso inglese.

« L’errore, questo non primo errore della Vostra politica, è più che evidente, Eccellenza; ma non per questo Voi lo riconoscete: continuate, anzi, a far credere che siete una sola cosa con il popolo, con il povero popolo italiano al quale state togliendo di mano le ultime risorse per una guerra che non è sua.

« Voi insistete, e per dimostrare all’estero che tutta l’Italia è con Voi,  ordinate le grandi adunate di popolo, pubblicate lunghi  elenchi  di  volontari per l’Africa, fate votare ordini del giorno di solidarietà.

« Tutti gli italiani sono volontari; tutti  offrono oro alla Patria; tutti Vi applaudono. Anche lo scrivente, convocato a Roma dal Gruppo Medaglie d’Oro presieduto da Costanzo Ciano, per poco non accettò di presentare domanda  di arruolamento volontario!

« Al volontariato italiano, Eccellenza, nessuno crede più: è tempo perso. Tutti credono, per contro, alla imperiosa necessità di liquidare nella maniera più decorosa e conveniente per l’Italia, la pericolosissima avventura .

« Voi avevate un mezzo per riacquistare qualche simpatia, ma ad esso avete creduto di non dover ricorrere. Mi riferisco ad una amnistia politica di carattere generale, alla liberazione di migliaia di disgraziati rei di non  avere  incondizionatamente accettato il regime. Voi avete invece preferito servirVi del mezzo opposto, di quello  ormai  troppo noto dei « giri di vite »; così che un Segretario provinciale, che aveva partecipato a una riunione presieduta da Starace, poté recentemente ordinare ai propri dipendenti di « freddare  sull’istante  chiunque fosse sorpreso a vociferare  contro la guerra ».

« E veniamo alla conclusione.

« Voi, Eccellenza, avete avuto tutte le soddisfazioni alle quali un mortale dai vostri princìpi possa aspirare;  Voi avete fatto del bene e del male;  oggi però il male sovrasta già di gran lunga il bene, e domani sarà forse  troppo tardi per far ricordare agli italiani che avete pure qualche cosa al Vostro attivo. Perché dunque non vi decidete ad essere veramente un servitore fedele dell’Italia di Vittorio Veneto, un custode veramente sincero dello spirito dei 600 mila morti che la Patria hanno servito per farla più grande nella luce del lavoro e della libertà? Perché non restituite al Governo della nazione la prerogativa di affidare ad altri la liquidazione delle scottanti questioni che minacciano l’avvenire della Patria?

« Senza di Voi, potendo essere i nemici della Vostra causa più ragionevoli e arrendevoli, la Nazione potrebbe  ancora  forse  patteggiare condizioni  vantaggiose, giacché nel campo internazionale un Dittatore non può pretendere di trionfare se non con la forza delle proprie armi – e Voi siete oggi incomparabilmente il più debole -, già che c’è tuttora al mondo, fortunatamente, chi sa fare la dovuta differenza tra Voi e l’Italia.

« Accettate dunque  di andarVene, Eccellenza, e senza preoccuparVi  troppo dello  spirito  guerriero di questo nostro popolo eminentemente pacifico, parco e laborioso; di questo nostro popolo che tuttavia sa, quando occorra, marciare alla frontiera e morire in nome della Patria e del dovere.

« Santiago del Cile,  1° gennaio  1936 ».

 

Mussolini accusò ricevuta della mia lunga lettera il 28 marzo 1936, ma solo indirettamente e per mezzo di un telegramma all’Ambasciatore  d’Italia a Santiago del Cile firmato Suvich, Segretario di Stato agli Esteri.

Diceva il telegramma: « Pregasi far conoscere atteggiamento attuale dell’ex deputato Viola e se egli pensa di rientrare in Italia. Suvich ».

Non conobbi mai la vera risposta dell’Ambasciatore, ma seppi successivamente, rientrando in Patria nell’aprile del 1944 a guerra finita, quel che si proponeva di fare a mio danno il dittatore.

Infatti, da una « Rubrica segreta delle persone ricercate e sospette » edita a cura del Ministero dell’Interno, Direzione Generale della P. S. (Polizia Frontiera e  Trasporti)  1° luglio  1943,  pag.  838, si poteva leggere quanto segue:

« Ettore Viola di Pietro, nato a Villafranca in Lunigiana – Min. Int. Cas. – ARRESTARLO ».

Detta Rubrica segreta me la mostrò un funzionario della Questura di Napoli nella stessa primavera del 1944, allorché gli Alleati, d’accordo col nostro Governo, mi reintegrarono nell’ufficio di dirigente dell’Associazione  Nazionale  Combattenti.

 

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Per un vero gioco della sorte Mussolini poté fare la sua guerra.

Ho accennato a un gioco della sorte perché sarebbe bastato che l’Inghilterra bloccasse il Canale di Suez con l’affondamento di una nave, per mettere in ginocchio il dittatore.

Invece, ritenendo forse di potersi intendere con un Mussolini contento e soddisfatto per la facile conquista dell’impero del Negus, fu di altro avviso. Infatti, qualche tempo dopo la celebrazione della vittoria fascista, gli inglesi presero l’iniziativa di promuovere con il Duce un incontro chiamato, se non erro, « Convegno di gentiluomini ».

Mussolini vi aderì, ma di malavoglia, convinto, com’era, che l’Inghilterra gli avesse lasciato conquistare l’Etiopia perché non aveva i mezzi né la forza per impedirglielo; e ora era sicuro che la stessa Inghilterra volesse allearsi con lui per difendersi dall’inquieto e già pericoloso dittatore tedesco.

Gli anni successivi registrarono il grave errore del Duce, ma intanto egli aveva potuto pavoneggiarsi dei risultati ottenuti e vedere tanti italiani riconciliarsi con lui per i successi conseguiti.

Purtroppo  l’euforia  durò  soltanto  fino  al  momento  in cui, sottovalutando  la Gran Bretagna,  il dominatore del Negus si gettò nelle braccia di Hitler credendo  di  trovate in lui un  « pari-grado », un « compagnone », dopo essere stato il suo maestro. Trovò invece, senza essere  stato preventivamente informato, l’annessione dell’Austria alla Germania e, conseguentemente, una Germania  confinante con  l’Italia.

In seguito gli avvenimenti si accavallarono e complicarono perché il Führer intendeva promuovere ad ogni costo una guerra rivendicatrice e punitiva, senza perder tempo. Infatti dopo l’Austria si affrettò a invadere i Sudeti, la Boemia, la Moravia e poi aggredì la Polonia e Danzica.

Allorché venne il turno dell’Inghilterra e della Francia il Duce dichiarò la non belligeranza, ma quando vide che le truppe inglesi risalivano il Passo di Calais da Dunkerque, e la Francia era già prostrata con i Tedeschi alle porte di Versailles e di Parigi, il 10 giugno 1940, quasi un anno dopo l’inizio delle ostilità, dichiarò la guerra alla Francia e all’Inghilterra per non rimanere senza un pizzico di gloria.

Dieci giorni dopo, il 20 giugno, l’Esercito francese si dichiarò disposto a negoziare un armistizio con  l’Italia.

«L’Italia ha pugnalato alle spalle la sua sorella latina », si disse. « Mussolini è un Maramaldo » e tutti gli anatemi  furono tutti per lui e non per Hitler.

Chi scrive si trovava in quei giorni a Santiago del Cile. Gli amici dell’Italia erano furiosi e giuravano che non avrebbero più messo piede nella nostra Ambasciata. Fu allora che mi prestai volentieri, su richiesta dell’amico Sensi, allora segretario di Ambasciata ed attualmente Ambasciatore d’Italia nonché consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica, per chiarire a quei cittadini, con un opuscolo concertato insieme, quelli che erano sempre stati i nostri difficili rapporti con la Francia dall’annessione da parte sua della Corsica, di Nizza, della Savoia, agli ostacoli che frappose sulla nostra strada durante l’occupazione della Libia e alla sempre rinviata revisione dello Statuto riguardante la vita dei nostri emigrati in Tunisia.

Purtroppo la guerra  che, secondo le previsioni di Mussolini, sarebbe durata soltanto tre o quattro mesi al massimo, fu lunghissima e disgraziatissima.

Il dittatore che in Spagna,  soccorrendo Franco, e in Etiopia appagando le sue ambizioni, aveva già perduto i due terzi delle sue strombazzate baionette, non poteva più affrontare che eserciti sconfitti alla mercé dei vincitori, ed infatti così fece trattandosi della Francia nel periodo tra il 10 e il 20 giugno 1940; ma altrettanto non poté fare con la piccola Grecia senza l’umiliante aiuto dei tedeschi.

Nel caso della Francia il dittatore fu ingiuriato e nel caso della  Grecia fu deriso.

I nostri fanti, i nostri marinai, i nostri avieri, ciononostante fecero il loro dovere, tutto il loro dovere, e talora poterono anche superare in perizia e ardimento gli avversari; ma quanto dolore per chi era costretto a dover giudicare da lontano sapendo che la guerra doveva ormai finire, come è finita, specie dopo l’entrata in guerra della Russia e dell’America, dato che non si poteva aver ragione di un esercito che, ad Oriente, avrebbe potuto retrocedere, fino al momento ritenuto propizio per trattare gli aggressori come furono trattate le legioni napoleoniche, e ad Occidente, una Nazione che superava in risorse, da sola, la Germania, l’Italia e il Giappone messi insieme.

 

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Chi scrive, benché all’estero e ormai nella veste di « proscritto », si adoprò, insieme con altri connazionali, per creare un ambiente non troppo ostile all’Italia sia nel Cile, sia in Argentina. I nostri viaggi in quest’ultima Nazione furono frequenti anche perché cercammo di convincere i nostri emigrati a influire sui loro congiunti in patria affinché potessero decidersi a credere che i danni di una guerra perduta potevano essere contenuti da un armistizio richiesto tempestivamente.

Quanto a me, verso la fine del 1941, mi venne l’idea di scrivere un libro che uscì in lingua spagnola dalla casa editrice « Nascimento » (calle Ahumada 125, Santiago del Cile) con il titolo Responsabilità fascista e realtà prussiana.

Poiché fu scritto per i sudamericani, del libro non feci fare l’edizione italiana ma, finita la guerra e rientrato a Roma, il fascicolo originale, su consiglio di un amico, lo mandai in visione a Benedetto Croce.

Pochi giorni dopo – era il 2 settembre 1945 – mi giunse questa graditissima risposta :

 

« Carissimo  Signor  Viola,

« Ho letto con molto piacere l’esatto e chiaro suo libro sulla storia del fascismo. È una delle migliori, delle più succose esposizioni che io finora conosca. Non ha per me che un solo fine di non ricevere: l’atroce dolore che mi prende  a ripensare come un delinquente  abbia avuto  il potere  di distruggere secoli di storia italiana.

« Con cordiali saluti

Suo B. Croce ».

 

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Così come il giudizio di Benedetto Croce, mi fu molto gradito quello della grande poetessa Gabriella Mistral  -Premio Nobel – che in quel momento si trovava a Petropolis (Brasile). Questa fu la sua lettera:

 

« Petropolis,  novembre  1942

« Caro amico,

« La sua parola non è sospetta di menzogna, di mancanza di serietà e di rancore. È delle poche che valgono come testimonianza certa. Dio voglia che la nostra gente, in mezzo alla  quale  il fascismo ha ancora seguaci dichiarati e dissimulati, voglia udire e credere.

« Dice lei un « minimum » e lo dice in una lingua retta, salutare e onorata di cristiano.

« Il suo libro aiuta il Cile in un’ora di risanamento. Grande contributo il suo.

« Da vari anni – lei lo sa – io guardo con stupore e con spavento gli effetti che, non dissimili a quelli determinati da un’invasione di cavallette, il totalitarismo ha provocato nella mia terra e nei due estremi della razza:  nei vecchi e nei giovani. I primi cadono nella trappola per paura della rivoluzione, gli altri per un impeto di arrivismo. La classe media qui non vuole altro che potere e danaro, ciò che Mussolini e Hitler diedero ai luogotenenti e ai caporali loro. Dico la classe media salariata e politicante; l’altra va silenziosamente precipitando nella stessa miseria del popolo.

« Quale pena, amico mio, di non continuare!

« Un  abbraccio  di

Gabriella ».

 

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In un opuscolo  scritto a  Napoli  quando  ancora si combatteva  a Cassino, scrissi testualmente:

« La nostra salvezza risiede in un orientamento nuovo, in un Rinascimento italiano del XX secolo che metta sullo stesso piano di uguaglianza morale e materiale tutte le classi, dalle operaie alle contadine, alle marinare, artigiane, intellettuali, industriali; che valorizzi le doti peculiari della razza, dalle più  spontanee  alle più  retrive;  che dia ali italiche alla dottrina della solidarietà umana, all’umanitarismo, come nel XIV e nel XV secolo le diedero all’umanesimo e nel XVI alle nobili manifestazioni che ne  derivarono ».

Mi illudevo.

Conobbi invece con l’andar del tempo un’Italia peggiorata nei confronti di quella che ci educò e sostenne nella nostra giovinezza, prima del fascismo: un’Italia che non conosceva più le norme delle comunità civili ma soltanto l’egoismo dei propri figli, il sadismo nel fare il male anche se non si trattava di ottenerne un beneficio; e una classe dirigente prepotente, sostenuta da clientele onnipotenti, irremovibili.

Ne feci una vasta esperienza dirigendo l’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci e prendendo parte ai lavori della Camera dei Deputati ove dovetti combattere con individui che meritavano di essere prontamente imbalsamati per costituire esempio e sprone – benché non ne avessero bisogno – agli impazienti candidati alla loro successione.

 

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Signori, siete ancora in tempo per fare ammenda nei confronti di chi avete tanto amareggiato allorché, al servizio della pubblica Amministrazione:

1) tenne  testa  a Mussolini  come  ha  già  dimostrato;

2) quale Consultore nazionale rinunciò alla indennità che gli spettava perché – disse – bisognava pensare prima ai senzatetto che in quell’epoca erano legioni e, più tardi, quale Deputato al Parlamento, caso più unico che raro, rinunciò alla casa che Deputati e Senatori si fecero costruire a Roma sulla Via Cristoforo Colombo e altrove, continuando a vivere in un piccolo appartamento non suo.

3) nella prima Legislatura, visto quel che si stava facendo e si fece ai danni dello Stato, a nome dell’Associazioni Combattenti, che in un primo tempo approvò il suo operato, fece una campagna contro il malcostume che restò memorabile benché Governo, maggioranza e interessati lo combattessero aspramente e fosse stato anche da qualche Deputato denunziato alla Magistratura senza riuscire tuttavia a farlo condannare . Ciò fece senza tener conto che era stato eletto Deputato e Senatore contemporaneamente, nelle liste della Democrazia Cristiana e come tale invidiato da molti colleghi alcuni dei quali loconsideravano ormai in una botte di ferro e intoccabile. Lo toccò invece De Gasperi – come già lo aveva toccato duramente Mussolini – espellendolo dai rispettivi gruppi parlamentari. Per quanto concerne la Democrazia Cristiana va tenuto conto che fu Paolo Emilio Taviani, allora Vice Segretario del Partito, a pregarlo di partecipare alle elezioni nella loro lista. È notorio che in quell’epoca la D. C. temeva un successo elettorale dei Comunisti, per cui le faceva comodo il prestigioso nome del Presidente dei Combattenti;

4) ) nella  seconda  Legislatura  repubblicana allorché la Maggioranza riusci ad approvare la  cosiddetta « Legge truffa » per le imminenti  elezioni politiche, indirizzò un telegramma al  Presidente della Repubblica Einaudi per invitarlo, anche a nome degli ex combattenti che  rappresentava, a non omologare quella legge.

De Gasperi, sempre pronto a vendicarsi, con un Decreto e durante la campagna elettorale, lo fece decadere dalla carica di Presidente dei Combattenti nominando al suo posto un Commissario; ma la nuova Camera, non essendo scattata la « Legge truffa », con larga maggioranza di voti reintegrò il rieletto Deputato  al  suo  posto.

 

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Veniamo ora all’Associazione Nazionale Combattenti  e  Reduci,  edizione  1944-1958.

Nel secondo dopoguerra, subito dopo la Liberazione, il suo primo pensiero fu quello di valorizzare i combattenti di tutte le guerre e come premessa pronunciò al Teatro Quirino di Roma un discorso programmatico che destò interesse e riflessione.

L’On. Micheli di Parma, che fu presente, si congratulò vivamente con l’oratore e  l’On. Vittorio Emanuele Orlando gli scrisse queste lusinghiere parole: « Ammirando il suo bel discorso, mi congratulo ».

Fu il primo discorso pubblico che si fece in Roma dopo la Liberazione. Il secondo fu dell’On. Meuccio Ruini, nello stesso Teatro.

Nonostante il successo, certi suoi colleghi dell’epoca fascista, rivendicatori tardivi di benemerenze che tuttora non conosco, dopo esser vissuti comodamente e senza pericolo ai margini del regime fascista per molti anni, cominciarono a fargli una guerra sorda, ma tenace.

L’amico Vincenzo Bavaro, per esempio, cominciò ad agitarsi per avere il suo posto e l’On. Emilio Lussu, Ministro per l’Assistenza Post-bellica nel 1945, si prestò al suo gioco e per non umiliarlo – bontà sua – si recò personalmente nel suo ufficio di Piazza Grazioli 5, per perorare la causa dello stesso Bavaro.

Non riuscì nel suo intento.

Nel 1946 fu Ministro  dell’Assistenza  Postbellica l’On.  Emilio  Sereni, comunista..

Organizzato dalla Federazione Combattenti di Napoli pronunciò un discorso dinanzi a una folla che gremiva il Teatro.

Dai consensi e dagli applausi gli parve di aver riportato  un  lusinghiero  successo.

L’On. Francesco Saverio Nitti gli scrisse in proposito  questa  lettera:

« Ho letto il suo discorso di Napoli, denso di verità, e dell’argomento che ne forma oggetto mi occuperò volentieri. La ringrazio sentitamente. Le invio una copia del mio discorso del 14 novembre al Teatro Lirico di Milano, e l’opuscolo contenente le Prospettive e lo Statuto dell’Unione per la Ricostruzione Nazionale.  Saluti cordiali.  Nitti ».

Il Ministro Emilio Sereni, sobillato dai soliti rivali, propose invece al Presidente provvisorio della Repubblica, De Nicola, di destituirlo dalla Presidenza dell’Associazione, ma l’On. De Nicola rifiutò  di farlo.

I Partiti, intanto, nei quali erano già entrati molti esponenti dell’Associazione, gli fecero un altro tiro mancino: sollecitarono l’On. Gasparotto a rientrare dalla Svizzera per occuparsi dell’Assistenza Post-bellica, ma soprattutto per sostituire lo scrivente alla Direzione dell’Associazione Nazionale Combattenti.

La reazione di chi scrive raggiunse soltanto il risultato di vedere Gasparotto in Piazza Grazioli n. 5 nella veste di Commissario dell’Associazione e Viola in quella di Commissario aggiunto con gli stessi poteri.

Gli amici concorrenti si tranquillizzarono, ma pochi mesi dopo dovettero rivedere e sopportare il Viola nella veste di Presidente Nazionale dell’Associazione.

I delusi, di nome Fermariello, Gazzoni, Bergmann, Pivano, Bruni, non cessarono tuttavia di molestarlo e negli ultimi tempi della sua Presidenza la bandiera dell’opposizione  la tennero, come ho già detto, i « tre moschettieri », cioè Pivano, Gazzoni e Bruni.

 

La mia opera, intesa ad amalgamare nell’Associazione gli ex combattenti della prima guerra mondiale con quelli della  seconda, e a non umiliare i « forzati »  volontari  della guerra  di Spagna, durò lunghi anni, ma alla fine fu coronata dal successo. Non è il caso di elencare il successivo immane lavoro svolto da  me e dai miei collaboratori. Dirò soltanto che per quattordici anni rimasi inchiodato alla mia poltrona di Piazza Grazioli, come un impiegato qualsiasi e che i miei viaggi per l’Italia avevano come scopo lo sviluppo dell’Associazione e il benessere degli ex combattenti e non la propaganda per essere riconfermato Deputato.

Infine, non per vantarmene, ma per la verità obiettiva, non sempre gradita ai miei detrattori, dirò che  all’Associazione non feci mai spendere, per me, neppure una lira perché rinunciai sempre ad ogni indennità nonché al rimborso delle spese vive; e ricorderò agli immemori che durante la mia Presidenza l’Associazione non fu mai asservita né ai democristiani né ai comunisti, e tanto meno a un condominio tra questi due grandi partiti. Ciononostante i comunisti furono nell’Associazione sempre disciplinati, corretti e amici dello scrivente.

Anche allorché mi dimisi volontariamente dalla Presidenza dell’Associazione nel 1958, per aver ricevuto dall’armatore Achille Lauro,  allora  capo  di un partito monarchico, un’azione disonesta che mi impedì di essere confermato deputato, i comunisti furono ancora una  volta, con me, tra i più corretti e comprensivi.

Infatti in quell’occasione, disassociandosi da coloro che vollero a ogni costo accettare le mie dimissioni – che peraltro avevo dichiarato irrevocabili – senza seguire la prassi secondo cui, tra le persone educate e civili si usa respingerle « in prima istanza », i comunisti dimostrarono di essere « più umani » di tanti altri presenti in Assemblea.