Ettore Viola I Combattenti e Mussolini dopo il Congresso di Assisi Pag. 122 – 147

  

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A questo punto, per fa conoscere meglio i miei denigratori preenterò altre prove, forse più convincenti, per dimostrare che il 18 dicembre 1926 non pronuncia alla cameramil discorso che mi rimprovera per rientrare nelle grazie di Mussolini.

Trascriverò, all’uopo, alcuni documenti del RR. CC.  di quell’epoca:

 

1)

« Dalla Tenenza di Fivizzano al Comando dei CC. RR. di Terrarossa e per conoscenza alla Tenenza di  Pontremoli  N.  339/10  il 4.1.1938-IX:

« On.le Ettore Viola

« Si trascrive per opportuna vigilanza il seguente telegramma:

« R. Questura  Massa  del  4  andante:

« Ex deputato medaglia d’oro Ettore Viola est rientrato stamane Regno proveniente Nizza proseguendo subito per Villafranca Lunigiana.

« Il Maresciallo Maggiore a piedi

Comandante Int. la Tenenza

Firmato: Nardi Giulio

[Timbro della Tenenza di Fivizzano] ».

 

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2)

« R. Questura di Massa Carrara N. 0209 Gab.

« Massa,  19 maggio  1931 – Anno VIII

« Al Comando Stazione CC. RR.

Terrarossa

« Oggetto:  Medaglia d’Oro Ettore Viola

« Noto ex deputato Medaglia d’Oro EttoreViola è stato rintracciato a Roma.

Il Reggente la Questura

(Firma   illeggibile) ».

 

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3)

« Legione territoriale dei Carabinieri Reali di Livorno

« Tenenza di Fivizzano

« N. 339/13 di prot. div. 3ª

Fivizzano lì 9.1.1931 – IX

« Oggetto:  Medaglia d’Oro Ettore Viola

« Al  Comando  della  Stazione  dei  CC.  RR.  di Terrarossa

« Per  disposizioni  di vigilanza  comunicasi  che medaglia d’oro Ettore Viola ha telegrafato da Milano al fratello Pietro [era invece mio padre] a Terrarossa Scalo che giungerà colà domani sera medesimo treno.

« Pregasi segnalare arrivo.

« Si dispone che le segnalazioni di arrivo e partenza  del  suddetto  siano fatte, d’ora  in poi,  direttamente da codesto Comando alla R. Questura di Massa a mezzo telegramma cifrato, dandone comunicazione a questa Tenenza con lettera.

« Il Maresciallo Maggiore

Comandante Int. la Tenenza

F.to: Nardi Giulio

[Timbro della Tenenza di Fivizzano] ».

 

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4)

« Legione Territoriale  dei  Carabinieri  Reali  di Livorno

« Tenenza  di Fivizzano

  1. 339/7 di prot. div. III –

Fivizzano lì 9.1.1931-IX

«Oggetto: Medaglia d’Oro Ettore Viola

« Al  Comando  della  Stazione  dei CC. RR. di Terrarossa

« A seguito del foglio N. 339/2 del 28.12.30 si comunica per notizia seguente dispaccio Questore Napoli:

« n. 53090 at 02066  stop noto  telegramma  diretto On.le Viola fu spedito ieri dal Sacerdote Cileno Lanai  Manuel Francesco  anni 48 residente Roma che trovasi Capri Hotel Quisisana dal 25 volgente stop

« Costui est cugino moglie Viola et favorevolmente conosciuto Capri donde doveva partire oggi ma partenza est stata rimandata.

« Il Maresciallo Maggiore

Comandante Int. la Tenenza

F.to:  Nardi  Giulio

[Timbro della Tenenza  di Fivizzano]  ».

 

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5)

« Legione  Territoriale  dei  Carabinieri  Reali  di Livorno

« Tenenza  di  Fivizzano

« N. 339/9/930 di prot. div. III

Fivizzano li 3.1.1931-IX

« Oggetto:  Sacerdote Cileno Lanai Manuel.

« Al  Comando  della  Stazione  dei  CC.  RR.  di Terrarossa

« Si trascrive il seguente telegramma della R. Questura di Massa e si prega disporre di conseguenza  riferendo:

« Questore Napoli  mi  telegrafa che ieri sera  è partito diretto codesta volta sacerdote cileno Lanai Manuel fu Francesco anni 48 che da Capri ove giunse 25 dicembre spedì telegramma On. Viola dandogli appuntamento Spezia stop  Lanai  è cugino moglie dell’On. Viola e favorevolmente conosciuto  Capri.

« Informo per vigilanza e accertamenti riferendo. Analoga comunicazione telegrafica ha fatto il Questore di Spezia.

Il Maresciallo Maggiore

Comandante Int. la Tenenza

F.to: Nardi Giulio

[Timbro della Tenenza di Fivizzano] ».

 

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Se non dovessero bastare le prove da me offerte per sbugiardare gli uomini in malafede, potrei riferirmi ai documenti ufficiali del primo Governo democratico residente a Salerno nel  1944.

Il filosofo Benedetto Croce, per esempio, Ministro in quel Governo, mi scrisse  questa lettera:

« Carissimo Signor Viola,

la sua posizione politica fu discussa  ed esaminata a Salerno nel primo Ministero democratico e concordemente (cioè con il voto dei comunisti, dei socialisti e dei rappresentanti del Partito d’Azione) fu riconosciuto esente da biasimo e come tale confermato quale capo dell’Associazione Nazionale dei Combattenti.

« Con cordiali saluti

Benedetto  Croce ».

 

E qualche tempo dopo il Presidente del Consiglio dei Ministri, On.le Ferruccio Parri, mi faceva pervenire quest’altra lettera:

 

« Roma,  31 agosto  1945

« All’On.le Ettore  Viola

Commissario per l’Associazione Nazionale  Combattenti

Roma

« Le comunico che il Consiglio dei Ministri, nell’ultima tornata, ha esaminato la di Lei posizione nei riguardi della Consulta Nazionale ed ha considerato come Ella non possa farne parte, quale ex parlamentare, per mancanza dei requisiti di cui all’art. 7 del Decreto Legislativo luogotenenziale 30 aprile 1945, n. 168, in quanto la dichiarazione da Lei fatta alla Camera dei Deputati nella seduta del 18 dicembre 1926,  pur avendo l’unico scopo di renderLe  possibile l’allontanamento  dall’Italia formalmente rompeva la continuità dell’atteggiamento antifascista  di fronte al pubblico.

« Debbo tuttavia darLe atto, anche a nome del Consiglio, che ciò non vale disconoscimento di tale atteggiamento, che fu da Lei ripreso all’Estero, e dei suoi meriti  di patriota, che furono già oggetto di considerazione da parte del Consiglio dei Ministri  quando  fu deciso,  nello  scorso  anno,  di  affidarLe la carica  di  Commissario  dell’Associazione Combattenti.

« Tengo in proposito a confermarLe la mia piena fiducia e stima augurandoLe, anche a nome del Governo, che Ella  possa  continuare  a  svolgere l’opera iniziata con grande passione e con assoluto disinteresse.

« Cordialmente

Ferruccio Parri ».

 

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A prescindere dal fatto che in virtù di una seonda « formalità » mi fu ugualmente riconosciuto senza difficoltà il diritto di far parte della Consulta Nazionale, sento di dover esprimere un vivo sentimento di compassione, più che di  disprezzo,  per chi, dopo aver combattuto nella stessa guerra del 1915-18 e nello stesso settore politico alla Camera dei Deputati in rappresentanza dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, si comporta poi come un irresponsabile qualsiasi nel contesto dei rapporti umani.

 

 

Ho già accennato in queste pagine a un libro da me scritto nel Cile durante l’ultima guerra mondiale. Dal suo titolo in copertina: Responsabilità fascista e realtà prussiana si deduce che l’autore non simpatizzava con il connubio Duce-Führer e tanto  meno  approvava  la guerra  voluta  dai  due dittatori con finalità diverse se non addirittura  contrastanti.

Il libro, dopo tanti anni, non è più di attualità e perciò non mi lascerò sedurre dalla vanità presentandolo ugualmente  ai lettori con commenti per me assai lusinghieri.

Tuttavia, per dimostrare che il mio cruccio di reduce della prima guerra mondiale che conobbe assai bene i tedeschi sui campi di battaglia, e poi li seguì da lontano  in una  guerra perduta  in partenza,  mi fa rivivere  il desiderio  di  stralciarne alcune  pagine,  per  ricordare  agli  immemori  e  agli sprovveduti  i  metodi  e  la psicologia  dei  tedeschi in guerra, nonché l’ingenuità colpevole di Mussolini. So bene che i germanici sono cambiati ed attualmente costituiscono una Nazione tranquilla, laboriosa e necessaria  per  l’avvenire  dell’Europa;  ciononostante,  anche  se  in  disuso  negli  archivi,  una pagina di storia potrà sempre servire ai curiosi, agli studiosi e ai ravveduti  di carattere mutevole.

 

 

Dal libro Responsabilità fascista  e realtà prussiana

 

Goethe, che conosceva molto bene i prussiani, invece d’incoraggiarli sul cammino delle conquiste disse: « Sono crudeli di natura; la civiltà li renderà feroci ».

Fichte si rivolse ai tedeschi, ma in realtà fu solo ascoltato dai prussiani, nelle cui menti inculcò  le idee seguenti:

« 1) la Germania  è la nazione ” signora ” dato che, oltre ad essere di razza ariana, ha una capacità intellettuale e materiale superiore a quella di qualunque altra nazione;

« 2) la nazione ” signora ” deve imporre la sua cultura al mondo;

« 3) i popoli meno colti hanno solo dei doveri, appartenendo i diritti ai popoli più colti in misura proporzionata  alle  loro forze materiali;

« 4)  la civiltà  latina non conviene ai tedeschi, essendo  per  gli  schiavi  e per  le  donne,  dato  che umanizza l’individuo;

« 5) i tedeschi devono prescindere dai sentimenti umanitari, dalla buona fede, dalla veridicità , dalla cavalleria, se questi sentimenti ostacolano o impediscono il successo; devono inoltre ricorrere ai metodi terroristici per raggiungere vantaggiosi effetti psicologici ».

 

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Allorché Bismark disse: « Io non conosco legge quando si tratta del potere della Prussia; nulla può opporsi al diritto della Prussia », egli era perfettamente d’accordo con Fichte.

Allorché, più tardi, il Kaiser disse: « Noi tedeschi siamo il popolo eletto; noi tedeschi siamo il sale della terra », egli pure era d’accordo con Fichte.

E nessuno crederà che i cinque punti di Fichte, più sopra riportati, non costituiscano il Vangelo di Hitler.

Come novità, il Führer introdusse soltanto la lotta spietata contro gli ebrei.  Non  indagheremo per sapere se ciò sia dovuto a un suo complesso psichico o ad altre ragioni altrettanto oscure e insensate.

In quanto alle sue lagnanze contro l’Inghilterra, trasformatesi oggi in odio implacabile, il Führer imitò e continua semplicemente a imitare Guglielmo II, il quale durante la guerra del 1914 disse: « Questa guerra rappresenta la lotta di due concezioni antagonistiche nel mondo: la germanica, che si identifica con la giustizia, con la libertà, con l’onore e la moralità; e l’anglosassone, che incarna la idolatria di Mammone ».

Il filosofo materialista Ernesto Haeckel si permise di sostenere che « l’omicidio collettivo, ossia la guerra, è la base del progresso umano, la forza e il motore supremo della civiltà ». E lo storico Enrico Treitzschke affermò « essere legge della vita che il forte domini il debole, essere necessario che il comandamento « non ucciderai » non si interpreti letteralmente ».

Ciò è dovuto al fatto che i due ultimi pensatori – frutto di generazioni più giovani, ed uomini di altra tempra intellettuale – avevano già completamente assimilato quel « virus » patriottico che, somministrato da Fichte, ormai si chiamava « prussianesimo ».

Non altrimenti pensò in questa stessa epoca lo scrittore militare von Bernhardi. Ecco  qui  alcune sue  teorie:

« 1) La pace sviluppa elementi morbosi che escludono ogni  civiltà;

« 2)  La guerra è madre di tutte le cose;

« 3) I trattati obbligano solo in quanto da essi può derivare qualche beneficio ».

Il generale tedesco,  sviluppando minuziosamente la sua tesi, spiega come gli Stati che lavorano per la pace scavino la propria tomba; come la pace universale sia una insana utopia; e insegna che lo Stato deve cominciare la guerra quando è sicuro di vincere o quando tema l’aumento delle forze nemiche.

 

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Vedremo ora alcune manifestazioni dello spirito tedesco, apparse mentre si combatteva la guerra del 1914-1918.

« Uno solo dei nostri guerrieri tedeschi  di  elevata cultura, che disgraziatamente cadono a migliaia, rappresenta un valore morale e intellettuale molto superiore a quello che  rappresentano centinaia di  incolti  figli  della natura,  che  l’Inghilterra, la Francia, la Russia e l’Italia gli mettono  di fronte », scrisse Ernesto Haeckel.

« La guerra deve essere uno strumento duro, rude, il più possibile implacabile. Se si potesse distruggere Londra intera, sarebbe più umano che lasciare dissanguarsi un solo tedesco », scrisse nel 1915 il deputato tedesco Erzberger, dirigente del Centro cattolico.

« Mai ci fu una guerra più giusta di questa, che porterà la felicità anche ai vinti. L’abbiamo intrapresa come una grande industria. È  nostro  obiettivo issare la bandiera tedesca sulla sponda del Canale della  Manica, che chiude e apre il passo agli oceani », disse pure al principio della prima guerra mondiale il giornalista Massimiliano Harden, della rivista  « Die  Zukunft ».

 

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Resteremo finalmente con il respiro sospeso di fronte alla seguente esplosione di aberrazione nazionalistica: « La civiltà deve edificare le sue cattedrali su montagne di cadaveri, su oceani di lagrime e al grido di morte dei vinti. Dovete amare la pace come lo strumento di nuove guerre, e la pace più breve dovete preferire alle lunghe ».  Sono parole del tenente Karl A. Kuhn, scritte al principio della guerra del 1914 in Die Wabren Ursachen des Welkriege

 

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Oswald Spengler è l’ultimo filosofo del prussianesimo. Dopo di lui si cade in Goebbels e in Rosenberg, in quanto possiamo paragonare Hitler, tutt’al più, secondo il consiglio di Spengler, a Federico Guglielmo I, ben s’intende nel campo della cultura.

Nel suo libro La decadenza d’Occidente, la cui prima edizione apparve qualche tempo prima che terminasse la guerra mondiale numero uno, Oswald Spengler  sostenne  i seguenti  concetti:

« La guerra è la creatrice di tutte le cose grandi. Tutte le cose importanti e significative nel torrente della vita nacquero dalla vittoria e dalla sconfitta ».

« Nella storia il mondo dei fatti solo conosce il successo, il quale fa sì che il diritto del più forte sia il diritto di tutti. Il mondo dei fatti sovrasta senza pietà gli ideali;  e quando è accaduto che un uomo o un popolo ha rinunciato al potere dell’oro  per esser giusto, si è senza  dubbio  alcuno  assicurato una fama teorica in quel secondo mondo del pensiero e della verità, ma ha soggiaciuto ad altra forza vitale, che meglio  intendeva di realtà ».

Segue Spengler:

« Il vero uomo di Stato è la storia in persona ».

« Il politico di alto volo deve però essere educato in un senso superiore: non rappresentare una morale o una dottrina, ma offrire l’esempio attraverso l’azione. È ben saputo che nessuna nuova religione ha mai cambiato lo stile dell’esistenza. Ogni nuova religione ha esplorato le coscienze, ha permeato  l’uomo  spirituale, ha  lanciato  una  nuova luce su un mondo che è di là da questo, ha creato incommensurabili beatitudini in virtù dell’imitazione, della rinuncia, della pazienza, e perfino della morte. Ma non ha avuto mai il minor potere sulle forze della vita. Solo la gran personalità, solo l’elemento razziale in essa, solo la forza cosmica vincolata alla persona, possono creare nel vivente, e non per insegnamento ma per allevamento, trasformando classi e popoli interi. Non la verità, non il bene, non  l’eccelso,  sibbene  il romano,  il puritano,  il prussiano  sono fatti. Il senso dell’onore, il sentimento del dovere, la disciplina, la decisione, nulla di tutto questo s’impara nei libri, ma si rivela nel corso vitale attraverso un modello vivo. Per questo fu Federico  Guglielmo I uno  dei più grandi educatori di tutti i tempi, con una personale attitudine educativa propria della razza, che non è scomparsa nella serie delle generazioni ».

Nella prefazione della prima edizione, datata nel dicembre  1917,  Spengler  conclude  come segue:

« Mi resta unicamente di esprimere il desiderio che questo libro sia in qualche modo degno degli sforzi militari della Germania ».

 

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È più che evidente che da Fichte a Spengler l’albero della scienza politica tedesca o, meglio, prussiana, è rimasto immutato, non avendo ricevuto nuovi  innesti.

Innanzi tutto se fosse vero, come ci dice Spengler, che « tutte le cose  importanti  e significative nel torrente della vita nacquero dalla vittoria e dalla sconfitta », in Italia non avremmo avuto il Rinascimento; in Inghilterra Newton e Shakespeare sarebbero nati dopo Trafalgar o Waterloo; padrino di battesimo di Kant e di Goethe sarebbe stato Bismark. E a proposito degli ultimi paragrafi delle riprodotte affermazioni dello scrittore tedesco, ecco che abbiamo Hitler, « la storia in persona », il nuovo « grande educatore », l’austriaco che si pone al servizio della Prussia perché questa non ha più uomini  capaci  di condurla  verso la dominazione  del mondo.

Sprovvisto di ogni cultura, volendo burlarsi dei letterati,  Federico  Guglielmo  I,  re  di  Prussia,  e « uno dei più grandi educatori di tutti i tempi » secondo Spengler, nominò un pazzo Presidente dell’Accademia di Berlino.

Tutto il mondo sa ciò che fin qui ha fatto Hitler, l’ultimo «00.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

grande educatore » spengleriano; e poiché il dittatore tedesco « è la storia in persona », l’umanità che egli ha trascinato  alla guerra attende di conoscere le ultime manifestazioni della sua ispirazione.

 

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Finalmente troviamo una parola sincera del Junker prussiano e Cancelliere dell’Impero sotto Guglielmo II. È il principe Van Bulow che scrive:

« L’intelligenza tedesca è giunta allo « zenit » senza l’aiuto della Prussia. La vita intellettuale tedesca si deve principalmente alle opere del Sud e dell’Ovest, perfezionate attraverso la protezione dei Principi, dei piccoli Stati e delle Città libere. Tuttavia la popolazione che abita l’arido suolo delle Marche nelle pianure  ad Est dell’Elba e dell’Oder così poco favorito dalla natura nei secoli che presenziarono il progresso della civiltà tedesca in  altre parti  del Paese, preparò l’avvenire della  Germania, quale Stato, per mezzo di battaglie e di privazioni, sotto il governo dei suoi Re eroici e politici. L’intelligenza tedesca  si sviluppò all’Ovest  e nel Sud;  lo Stato tedesco, in Prussia. Le popolazioni dell’Ovest protessero la cultura tedesca; gli Hoenzollern sono stati i capi politici e i governanti ».

E Von Bulow conclude affermando in altra parte del suo Imperial Germany che la Prussia è « un rude ed interamente prosaico Stato di soldati e di ufficiali ».

 

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La guerra che il duce-dittatore ha voluto, tutt’altro che nazionale, è stata la guerra dei pochi esaltati che lo hanno  sempre applaudito e seguito incondizionatamente per motivi di interesse personale. Tutta la responsabilità ricade pertanto su costoro e sul loro capo; ma affinché ciò possa essere universalmente inteso e compreso, voci alte e inequivocabili dovranno finalmente elevarsi dal cuore stesso dell’Italia. Se poi a tali voci si unissero quelle dei soldati in marcia verso i campi di battaglia agli ordini dei tedeschi, quale risposta per quel dirigente socialista, poi « duce infallibile », che nel 1911, durante la guerra libica, pretese di far deragliare i treni per impedire che soldati italiani accorressero a soccorrere i loro fratelli!

Quanto agli italiani liberi di America, a essi incombe il dovere d’incoraggiare  e di aiutare con tutti i mezzi i connazionali soggiogati in Patria; e, respingendo le minacce dei seguaci della tirannia e della guerra, dovranno pure far giungere fino al cuore stesso della Patria, quale grido di ribellione, le parole che pronunciò nel  1917  Enrico  Lammasch’, scienziato  e patriota austriaco,  consigliere  dell’Imperatore Carlo:

« Non una sola vita umana, non una sola di più, per il dominio tedesco del mondo! ».

 

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I vincitori di domani non potranno essere troppo severi con  l’Italia.

Dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, il nostro popolo non si era ancora reso responsabile di un atto di violenza o di aggressione;  per contro, ne aveva subiti molti. D’altra parte è risaputo che ai tempi della Repubblica e dell’Impero, insieme con la spada, i nostri  antenati  portarono  la  civiltà  in territorio nemico. A questo proposito ecco ciò che ha scritto Jacque Bainville, nella sua Storia di Francia:

« A che dobbiamo quello che siamo? Alla conquista  romana »;  e  continua:

« Nell’epoca in cui il capo Gallo [Vercingetorix ] fu condannato a morte, dopo il trionfo di Cesare, non c’era più paragone possibile tra la civiltà romana e quella povera civiltà gallica che non conosceva neppure la scrittura e la cui religione esigeva ancora sacrifici umani. Tutto ciò che siamo lo dobbiamo a quella conquista. Fu dura: Cesare si mostrò crudele e implacabile. La civiltà fu imposta ai nostri antenati con il ferro e con il fuoco, e la pagarono con abbastanza sangue. Ce la diedero con violenza. E grazie ad essa ci siamo convertiti in civilizzati superiori e abbiamo avvantaggiato considerevolmente gli altri popoli ».

Segue Bainville:

« Nessuna civiltà è stata più felice né ha dato migliori frutti di quella dei romani nelle Gallie. Altri conquistatori hanno distrutto i popoli sottomessi, oppure i vinti, ripiegati su sé stessi, hanno vissuto isolati dai vincitori. Cento anni dopo la morte di Cesare la fusione era già quasi completa, e i galli entravano al Senato romano.

« Fino al 472 , anno in cui cadde l’Impero d’Occidente, la vita della Gallia si confonde con quella di Roma. Non ci siamo abituati ancora all’idea che la quarta parte della nostra storia, dal principio  dell’Era Cristiana, trascorse in quella comunità: quattro o cinque secoli, un lasso di tempo quasi uguale a quello che va da Luigi XII ai nostri giorni, e tanto pieno come questo di fatti e di rivoluzioni ».

E conclude lo scrittore francese:

« Dalla caduta dell’Impero Romano, al quale bisogna tornare sempre data la potente nostalgia che aveva lasciato Roma e la Pace romana, due idee avevano finito per confondersi: l’ordine romano, che significava civiltà e sicurezza, e la religione cristiana, convertita essa pure in romana. Con maggiori risorse e in migliori condizioni, i Carolingi iniziarono di nuovo ciò che aveva tentato Clodoveo: ricostruire, cioè, l’Impero Romano, modello indimenticabile e brillante che, nonostante i suoi vizi e le sue convulsioni, aveva lasciato un ricordo imperituro ».

Se altri scrittori non possono esprimersi nello stesso modo sulla occupazione romana di altri Paesi, è solo perché questi o non furono mai completamente occupati e dominati dalle aquile romane o erano in quell’epoca ancor meno preparati della Gallia per assimilare la civiltà romana.

Orbene, se gli antichi romani non hanno demeritato dell’umanità, cosa potremmo dire del  Medio Evo italiano con i suoi santi, i suoi poeti, i suoi umanisti, i suoi artisti; cosa potremmo dire del nostro Rinascimento con  i suoi geni germogliati in ogni campo dello scibile; cosa potremmo dire dei grandi e disinteressati uomini che dopo quindici secoli di servitù ci hanno ricostruito una patria unita e libera?

« Nulla di grande è arrivato al mondo senza il concorso di qualche figlio d’Italia », scrisse Charles Maurras, altro leader e scrittore francese.

Mussolini sta invece lavorando per ritoglierci prestigio  e libertà.

Facendo sue le parole di Rochepacquelein, difensore del regime realista nell’epoca della rivoluzione francese, il dittatore italiano disse, in un momento critico della sua vita politica: « Se avanzo seguitemi; se indietreggio uccidetemi; se mi uccidono vendicatemi. ».

Queste parole, scritte in caratteri cubitali ed esposte in Italia in tutti gli edifici pubblici e nelle scuole affinché i giovani vivessero l’epopea del « duce magnifico », e i vecchi le leggessero, trasecolati, rivestono in questi momenti un’importanza del tutto particolare giacché Mussolini, dopo aver indietreggiato in Etiopia, in Somalia, in Eritrea, in Grecia, in Libia, solo avanza, ora, dietro gli Eserciti prussiani.

 

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Ritengo di aver fatto chiaramente intendere  che se, invece della via tedesca, Mussolini ne avesse percorsa altra meno satura di ricordi paurosi, tuttora vivi nella mente dei combattenti della prima guerra mondiale, anche lo scrivente avrebbe forse attenuato la propria reazione perché non avrebbe avuto alcun motivo per riscartabellare i codici delle « inumane teorie teutoniche » destinate a vincere in qualsiasi modo la guerra.

Il Führer ha perduto la guerra, ma ha facilitato ai tedeschi di oggi il compito di ripulire il loro ambiente politico inquinato da secoli.

Il Duce non ha vinto né perduto la guerra perché era al rimorchio del confratello tedesco, ma ha rovinato   l’Italia.

Quanto all’autore delle presenti pagine  egli non ha ragione di dolersi per averle scritte. Tutt’altro!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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