Sergio Benedetto Sabetta Relativismo culturale ed etica. Euforia e peso dell’indeterminatezza nel neoliberismo

  

Relativismo culturale ed etica

 

Euforia e peso dell’ indeterminatezza nel neoliberismo

 

Ten. cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta

 

C

“La tolleranza arriverà ad un tale livello che alle persone intelligenti sarà vietato fare qualsiasi riflessione per non offendere gli imbecilli” (Fedor Destoevskij)

 

 

Nel suo articolo “Disincanto americano” ( 111- Limes 4/2023), F. Petroni riporta dei dati sul rapporto giovani americani e Forze armate, da cui emerge che il 77% dei giovani non è fisicamente o psicologicamente idoneo a servire sotto le armi.

Degli idonei, il 91% non vuole arruolarsi, inoltre solo il 48% della popolazione ha stima per il proprio esercito considerato pieno di estremisti o “traviato dal politicamente corretto”.

Anche in Europa vive lo stesso sentimento se in un sondaggio in Germania solo “ un cittadino su dieci sarebbe disposto a difendere la Germania se venisse attaccata. Appena il 5% si offrirebbe volontario. Un giovane su quattro tra i 18 e 34 anni sceglierebbe di lasciare il paese “ ( G. Mariotto, La Germania inerte, 156, in Limes 4/2023), un sentimento diffuso in Occidente quale risultato di una società liquida ( Bauman ), senza punti saldi di riferimento se non esclusivamente utilitaristici.

Già con il pragmatismo si è negata ogni verità assoluta affermando che questa è sempre relativa all’uomo, valida solo in quanto a lui utile (Schiller), ma la relatività non è solo della conoscenza estendendosi a tutti i valori fondamentali dell’umanità nelle varie epoche storiche, ognuna fornita di una propria autonoma verità religiosa, filosofica, morale e scientifica. Ogni cultura ha una propria validità che nasce e muore con essa, senza che vi sia alcuna morale umana universale (Spengler).

Vi è una necessità del rapporto tra valori e l’epoca storica cui appartengono, senza che si possa trasportarli in altre epoche e luoghi, nasce il Relativismo culturale  oggetto di profondi contrasti e matrice della necessità della ricerca di un metro di misura oggettivo dell’agire umano che viene ritrovato nell’economicismo, ossia nello sforzo costante dell’uomo attraverso le varie epoche nella produzione di risorse e accumulo di ricchezza.

Osserva Jervis che il relativismo proprio nel rifiutare l’esame della realtà empirica quale elemento da cui fare discendere conoscenza ed etica, rifacendosi ad una esaltazione della soggettività metafisica, viene a fornire riconoscimento a priori alle molteplici culture sparse sulla terra, seppure dogmatiche e intolleranti, e per questa via senza esaminare apre di fatto le porte all’eccesso del dogmatismo sebbene proclami la tolleranza indifferente.

Il tutto viene a ricollegarsi alla critica verso la “Tolleranza pura”, intesa come impossibilità di tollerare comportamenti che impediscano la probabilità di creare una esistenza sociale senza paure, fino a giungere alle estreme osservazioni di Marcuse che considera la tolleranza pura un possibile metodo di controllo sociale quando questa viene ad incidere sulla pace, la libertà e la felicità dell’esistenza, reprimendo di fatto ogni spunto innovatore della realtà sociale.

D’altronde sebbene le civiltà possano collassare non solo per accadimenti esterni ma innanzitutto per errori collettivi, non può negarsi che vi siano aspetti genetici propri della specie , come dimostrato dai recenti studi sulla biologia comportamentale e sulla psicologia evoluzionista, che inducano a comportamenti di prevaricazione o di solidarismo tribale.

La stessa teoria della relatività, richiamata come prova e conferma del relativismo (Aliotta), è in realtà solamente la dimostrazione della necessità che qualsiasi proposizione per essere valida deve essere provata con un metodo adatto.

Se la natura umana ha un fondamento biologico sorge il problema della libertà dell’agire, il quale non sarà mai completo né tuttavia determinato, vi è di fatto una etica condizionata.

Il determinismo genetico non è assoluto come del resto non lo è il determinismo ambientale; l’esistenza di cause naturali che influenzano il comportamento non eliminano le responsabilità personali e la libertà di pensiero, in realtà è l’informazione che influenza i circuiti cerebrali risultato della storia evoluzionistica. Vi è in altre parole un’influirsi reciproco tra biologia, ambiente e informazioni nell’elaborazione della stessa.

Il punto cruciale diventa il rapporto tra le diverse etiche alla ricerca del miglioramento della nostra e non un loro indifferentismo, tenendo sempre presente la necessità di difendere i diritti fondamentali del singolo nel distinguere fra sfera privata – interna e sfera pubblica – laica, quest’ultima comunque fornita di riferimenti certi e non trattabili.

Centro del problema è il rapporto tra identità del singolo e identità del gruppo, nelle società olistiche, dove l’identità del gruppo prevale sull’identità del singolo, le regole sono rigide a scapito del relativismo individualista, il dovere è verso la società, la famiglia, il gruppo di appartenenza, la ricerca identitaria è ridotta al minimo e così gli spazi di libertà su cui provare a testare i limiti dei confini tra l’autorizzato e il vietato, tra l’obbedienza e la trasgressione.

Nella ricerca dell’Io in una società fortemente individualista si può giungere a distruggere l’Io con devianze estreme, emerge perentoria la necessità innanzitutto di riferimenti morali chiari, buoni maestri, per la sfera interna e legislativi per i rapporti esterni.

Nei rapporti interpersonali si adottano una serie di codici di comportamento costituiti da innumerevoli norme, mai espresse esplicitamente, ma mutuate dalla teoria dei rapporti da noi avuti con l’autorità fin dalla nascita. Il venire meno di questa allenta le regole imposte e introduce una continua contrattazione ai vari livelli di vita, ma il rischio è che tutto si trasformi in una mera contrattualizzazione dalle vuote formalità in cui i valori etici che avrebbero dovuto essere trasmessi dall’autorità non vengano ridiscussi e provati ma eliminati, tollerando comportamenti individualistici puramente ondivaghi e opportunistici.

La capacità di fornire i valori necessari alla vita passa interamente dalla società ai singoli piccoli gruppi che possono giungere all’annichilimento delle capacità riflessive individuali, i valori diventano esclusivamente espressione del limitato contesto sociale vissuto.

La neurobiologia ha evidenziato che non è il numero di neuroni quello che conta ma le connessioni che si stabiliscono attraverso le sinapsi e la loro distribuzione al fine di rendere efficienti le risposte del cervello all’ambiente esterno.

L’architettura cerebrale quindi non è altro che una risposta alle diverse esperienze e ai diversi stimoli che ciascuno ha subito fin dall’infanzia, entro schemi genetici tracciati a grandi linee, il cervello si concentra sui circuiti rivelatisi più utili dall’esperienza, eliminando il rumore di fondo attraverso quello che il premio Nobel General Edelman chiama “darwinismo neuronale”.

Se il cervello si forma attraverso un’azione di scarto, che Jay Giedd del National Institute of Mental Aealth non esita a paragonare all’opera di uno scultore, questo è dovuto al connotato dell’incertezza ambientale entro cui la specie umana ha dovuto sopravvivere e riprodursi.

Gli eventi non sono mai certi ma più o meno probabili in una connessione tra etologia, quale origine remota dei comportamenti, e neurofisiologia, causa prossima degli stessi.

Vi è la necessità dell’uomo di ottimizzare le risorse con il minimo sforzo attraverso l’azione collettiva del gruppo, ma la stima del guadagno in senso lato non è prevista che in base alle esperienze precedenti (economia cognitiva), nasce la necessità per l’uomo di scegliere se agire entro schemi o fuori da essi secondo un proprio indiscusso libero arbitrio.

Ecco intervenire la necessità della scelta dell’agire entro il gruppo e con il gruppo, in un equilibrio di interessi reciproci.

In questo scendere a compromessi tra le diverse esigenze cercando di massimizzare i risultati nasce l’esigenza di rinsaldare i rapporti di gruppo garantendo la lealtà reciproca, ossia la cooperazione all’interno della comunità, per ottenere tali risultati occorrono meccanismi sociali che impediscano ai singoli di sfruttare gli sforzi altrui senza contribuirvi.

Al cuore del problema c’è il concetto di fiducia e siccome l’uomo è al centro di una fitta rete relazionale attraverso cui passano le informazioni, queste devono essere filtrate scoprendo la simulazione, rendendola eccessivamente costosa. Pertanto attraverso un impegno pesante dei singoli membri del gruppo si ottiene una cooperazione più stretta ed una maggiore possibilità di successo collettivo, anche se a scapito della libertà individuale (teoria del segnale costoso).

Tuttavia un gruppo fortemente coeso non solo ha maggiori capacità di difesa, ma possiede anche una più forte aggressività competitiva nei confronti degli altri gruppi. Un elemento fortemente portante nel promuovere la cooperazione a lungo termine è la capacità della religione di introitare concetti soprannaturali facilmente memorizzabili attraverso le esperienze emotive legate ai simboli, circostanze che facilitano la trasmissione culturale (Scott Atran e P. Bayer).

Da quanto finora detto emergono chiaramente i limiti di un relativismo culturale assoluto in cui non vi sono più identità da confrontare, bensì un indifferentismo generico basato sulla pura speculazione dell’oggi, vincente nell’immediato, disgregante nel tempo.

Il relativismo nato tra XIX e XX secolo, come risposta alle necessità culturali di una società in rapida trasformazione per gli sviluppi economici e tecnologici, forieri di benessere ma anche di tribolazioni e devastanti conflitti, si trova a dovere fornire adeguata risposta alla attuale frammentazione culturale e sociale, con le possibili cannibalizzazioni.

Fondamentale pertanto è la difesa della laicità e libertà dello Stato, ma anche fornire modelli culturali che plasmino le coscienze e gli schemi di pensiero nelle sue grandi linee, affinché non prevalgano gruppi fortemente dogmatici ma proprio per questo altamente coesi e aggressivi che compromettano la capacità Aristotelica della “phronesis” politica, ossia della saggezza e prudenza decisionale capace di raffrontare i modelli culturali adattandosi nella dialettica.

Questo comporta l’impossibilità etica di accettare all’interno gruppi dogmatici privi del requisito culturale della reciprocità, come lasciare puramente al caso la formazione individuale basata di fatto esclusivamente su aspetti economicistici e immediatamente utilitaristici, nell’erronea equazione utilità = felicità, essendo la felicità del singolo non ponderabile, né l’utilitarismo edonistico può evolversi solamente in una pura “economia del benessere” basata sulle preferenze, c.d. neoutilitarismo (A.C. Pigou, J. Harsanayi, J. Rawls). Quello che conta è la libertà del singolo  sorretta dal meccanismo di mercato e non i meccanismi economici di per sé stessi, quali produttori di prosperità (Aayek, Friedman).

Sorge pertanto forte la necessità di modelli culturali accettabili che plasmino lasciando nella loro elasticità, frutto di dialogo, le dovute libertà sperimentali del singolo, sempre entro schemi normativi forti che tutelino ed impediscano sopraffazioni nei rapporti tra culture.

 

BIBLIOGRAFIA

 

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