Antonio Trogu Dalla Libano 1 alla Libano 2

  

Progetto 2022/1 Contributi di Ricerca

 

L’operazione Libano 1 durò poche settimane  e da settembre del 1982 tutti i combattenti palestinesi risultano evacuati da Beirut e la forza internazionale lascia il Libano.

Il contingente italiano, raggiunto il proprio obiettivo senza incidenti e perdite umane,  l’11 settembre rientrò in Italia.

Israele, oltre agli obiettivi militari volti all’allontanamento dell’Olp, seguiva anche obiettivi politici e sperava di veder instaurato a Beirut un governo ad esso più vicino. Per questo la presenza israeliana nel sud del Paese favorì l’elezione a presidente di Bachir Gemayel, ma appena due giorni dopo il disimpegno delle truppe italiane in un attentato al quartier generale dei cristiano maroniti  persero la vita il neo eletto Presidente della Repubblica Bashir Gemayel e 25 dirigenti.  A succedergli fu il fratello, Amin Gemayel[1] ma l’episodio innescò una nuova spirale di violenza interna il cui apice venne raggiunto con la strage di Sabra e Chatila che rappresentò il livello di violenza raggiunta dalla guerra civile in Libano.

Nella zona di Beirut ovest, controllata dall’esercito israeliano, vi erano due campi profughi dove si sospettava si nascondessero alcuni miliziani superstiti dell’Olp, si trattava dei campi di Sabra e Chatila.

Le milizie delle Forze Libanesi il 16 settembre 1982, intorno alle ore 18:00, entrarono nel perimetro dei campi. Per circa 48 ore i combattenti maroniti rimasero al loro interno. Il 18 settembre le dimensioni della tragedia apparvero drammaticamente chiare. Per due giorni non furono compiuti solo degli arresti di presunti miliziani palestinesi. Al contrario, intere famiglie innocenti vennero massacrate a sangue freddo e molte case furono abbattute con razzi RPG insieme ai loro abitanti, con l’assenso tacito dell’esercito israeliano che stazionava fuori dei campi.

Il numero esatto dei morti non è ancora chiaro, il dato certo non lo si saprà mai per davvero, perché un conteggio esatto di quei civili non è possibile. A seconda delle fonti le stime riportano fra le 700 e le 3.500 persone. Di quei corpi molti non ebbero sepoltura e quelli che la ebbero fu nella più grande e nota delle fosse, situata all’ingresso del campo di Chatila, a pochi passi dall’ambasciata del Kuwait.

Chiaramente il caso creò un profondo turbamento nella comunità internazionale. Sotto accusa finirono i capi dei cristiano-maroniti, ma critiche furono rivolte anche verso i leader israeliani. Nello Stato ebraico, in particolare, diversi deputati attribuirono al governo una responsabilità indiretta. In quel momento infatti la zona del massacro era sotto il controllo israeliano e i soldati non avrebbero fatto nulla per impedire le esecuzioni dei falangisti.

Nel dicembre del 1982, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò il massacro, definendolo «un atto di genocidio». Una commissione indipendente confermò le violazioni del diritto internazionale portate avanti da Israele in Libano, mentre la commissione istituita dal governo israeliano indicò come diretti responsabili del massacro i miliziani delle Falangi e come indirettamente responsabili i rappresentanti israeliani coinvolti, innanzitutto Ariel Sharon.

[1] Amin Gemayel è stato Presidente del Libano tra il 1982 e il 1988, ed era il leader del Kataeb Party. È stato eletto Presidente dalla Assemblea nazionale il 21 settembre 1982 dopo la morte del fratello Bachir Gemayel, eletto solo un mese prima ma assassinato prima di assumere la carica.