“La guerra è la scienza della distruzione” disse John Joseph Abbot, politico canadese del 1800. Queste parole offrono una perfetta chiave di lettura di ciò che è successo a Civitavecchia tra il 1943 e il 1944. Alla città sono state inflitte ferite profonde, i punti nevralgici sono stati distrutti con il solo chiaro intento di ledere l’identità di Civitavecchia stessa. Un’identità che ieri come oggi si basa sul porto, il cuore pulsante di un paese la cui unica colpa è stata quella di consentire l’attracco delle navi che rifornivano la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e Pantelleria.
Per ottantasette volte le Fortezze volanti B17 anglo-americane hanno sorvolato il cielo sopra Civitavecchia per sferrare attacchi distruttivi sulle banchine, sull’Antica Rocca – allora sede del Municipio – sulla chiesa di San Francesco, le banche, i Comandi militari della Marina, il Forte Michelangelo, la centrale elettrica, lo scalo ferroviario, il cimitero, sulle case di persone innocenti vittime di una guerra in cui l’Italia ha avuto un ruolo da protagonista.
Urbicidio, questo è il termine coniato solo recentemente – durante la guerra in Jugoslavia – per descrivere una delle conseguenze più devastanti di tutti i conflitti, la distruzione di intere città. E non si tratta “solamente” di edifici che crollano, il significato della parola urbicidio è molto più profondo. Uccidere la citta, l’urbe.
Vuole simboleggiare il massacro dell’identità, dei riferimenti sociali e culturali. Si va oltre il voler colpire la persona fisica per addentrarsi in un concetto più ampio in cui si può includere ogni aspetto astratto e prettamente emotivo legato al luogo. La memoria, le tradizioni, i profili architettonici, la guerra esige che il racconto finisca, obiettivo finale è la distruzione dei luoghi che narrano del tempo passato e presente, fonti di ispirazione e certezze, quegli stessi luoghi che rafforzano il senso di appartenenza e l’identità di ogni cittadino.
Il concetto di urbicidio è associato alle guerre di epoca contemporanea/moderna, oggi la guerra non è solamente voler conquistare territori ma è una vera e propria strategia anti-città. Distruggere il patrimonio artistico e culturale è parte di un disegno più grande che racchiude in sé un duplice obiettivo, eliminare i punti strategici – come è stata la distruzione del porto e dello scalo ferroviario per Civitavecchia durante la II Guerra Mondiale – e colpire i valori identitari, sociali, culturali del nemico. Si infligge così una ferita ancora più profonda, difficilmente sanabile tanto da far assumere alle tracce lasciate dagli eventi bellici nei tessuti urbani delle forti valenze simboliche. La fase della ricostruzione della città diventa un momento di riscrittura del paesaggio della memoria della città. Alcuni luoghi non sono oggetto di interventi di restauro/ricostruzione per diventare espressione di una narrazione collettiva volta a rimarcare la corrispondenza tra la città, la guerra e la sua memoria.
Rimane così il ricordo del paesaggio urbano durante l’evento bellico a testimonianza dell’urbicidio di cui Civitavecchia è stata vittima tra il 1943 e il 1944. Un paesaggio di desolazione, inanimato e inerte, calpestato e deturpato dai bombardamenti. E perché tutto questo? Perché la città con tutto il suo patrimonio culturale rappresentava un obiettivo strategico principale, un bersaglio da colpire per assoggettare l’altro, il nemico, la vittima.
Possiamo risalire a due sfere di significati per spiegare l’attacco alla nostra città durante la II guerra mondiale. Una sfera di ordine strategico che sottolinea la necessità di sferrare un attacco a Civitavecchia per colpire il porto ed evitare che i rifornimenti arrivassero a destinazione. E se si parla di strategia non occorre dimenticare che la nostra città venne usata come diversivo dall’esercito anglo-americano per sviare i servizi d’informazione tedeschi mentre progettavano lo sbarco sulla costa di Anzio.
Una seconda sfera, poi, più culturale che sottolinea l’indebolimento psicologico dell’avversario nel gioco-forza della guerra, la profanazione di un simbolo per colpire a livello più ampio un intero Stato. I cittadini di Civitavecchia rappresentavano durante quei bombardamenti tutto il popolo italiano, sferrare un colpo diretto alla città significava colpire ferocemente il carattere dell’intera popolazione a testimonianza del coinvolgimento totale della popolazione nella Guerra, non solamente i soldati, ma tutti i cittadini furono chiamati a dare il loro contributo alla società.
I civitavecchiesi hanno dovuto assistere alla distruzione dei propri luoghi, in migliaia hanno dovuto abbandonare la propria casa, le strade note, i familiari, per recarsi sui monti della Tolfa e proteggere, così, la propria vita.
Essere costretti a prendere una decisione del genere significa perdere ogni certezza di sicurezza che solitamente è predominante in riferimento al luogo in cui si vive. E una volta tornati – Civitavecchia venne liberata il 9 giugno 1944 – ritrovare una città rasa al suolo per il 95% dovendo così soggiornare nelle caserme rimaste in piedi, senza cibo e acqua, in condizioni igieniche pessime tanto da far scoppiare epidemie di tifo e scabbia. Solo dopo lo sbarco ad Anzio ci fu la ripresa del porto. La Quinta Armata decise di rifornirsi a Civitavecchia e pian piano le condizioni della popolazione migliorarono soprattutto per l’arrivo delle derrate alimentari in scatola degli americani. Gli uomini di oggi, bambini di allora ricordano i soldati americani dare loro barrette di cioccolata. Due facce di una stessa medaglia, prima i bombardamenti poi i sorrisi e la cioccolata per i bimbi, quegli stessi bambini figli della guerra.
E poi è iniziata la ricostruzione. Il delitto contro la città e i suoi abitanti non può essere la fine, la distruzione della città fortunatamente non cancella la memoria di ciò che si era, della propria cultura, delle tradizioni, della socialità anche se questo è uno degli obiettivi dell’urbicidio. E alla memoria si collega la rinascita, la restaurazione dei luoghi feriti dalla guerra.
Ogni città sceglie un modo diverso per rivivere dopo un urbicidio, Belgrado è stata rasa al suolo 40 volte ed è rinata con vesti nuove, prima romana, poi serba poi socialista e capitalista con Milosevic. La ricostruzione ha preteso che alcuni palazzi mantenessero lo stato rievocativo in segno di memoria, altri che venissero completamente ammodernati altri ancora abbattuti e ricostruiti secondo il profilo dello stato attuale.
Una guerra ha distrutto anche Sarajevo e la città ha ricominciato da capo trasformando la propria identità in un’ottica inclusiva e multiculturale decidendo di affidando il destino nelle mani di nuove generazioni pur sempre mantenendo un collegamento con la tradizione.
Civitavecchia fu ricostruita lentamente grazie alla collaborazione dei cittadini; furono anni difficili, indimenticabili che hanno consentito la rinascita di una città nuova seppure mantenendo alcune caratteristiche del passato. Il profilo architettonico è cambiato per sempre, rimane traccia della Vecchia città solamente dalle foto e dai racconti di chi ha vissuto prima e dopo i bombardamenti. Le persone sono fotografie viventi di quegli anni tremendi, hanno avuto la possibilità e il potere sopravvivendo agli attacchi di disegnare con le loro parole un quadro realistico dal quale avremmo dovuto apprendere l’insegnamento più importante ossia che la guerra è distruzione.
Il sacrificio di Civitavecchia potrà essere ricordato per sempre, nel settembre 1958 alla città venne assegnata la Medaglia d’Argento al Valore Militare con la motivazione “Città di Civitavecchia, sottoposta senza tregua a pesanti incursioni aeree, colpita in modo assai grave in tutti i suoi edifici e impianti, con fermo coraggioso e fiero contegno e con i suoi numerosi caduti dava costante prova di civismo e di profondo amore alla Patria. Nonostante le mutilazioni e i lutti, fedele ai tradizionali ideali di libertà partecipava attivamente alla resistenza e alla lotta clandestina”. E nel 1999 la città ha ricevuto la Medaglia d’Oro al Merito Civile per le stesse motivazioni.
La guerra, dunque, è sì la scienza della distruzione ma grazie alla memoria e al senso di appartenenza, da quella devastazione è possibile rinascere e Civitavecchia lo insegna.
Facciamo ora un salto nel tempo arrivando al 24 febbraio 2022, al giorno in cui i russi hanno invaso l’Ucraina iniziando un conflitto che al momento non ha ancora fine. Il collegamento salta subito agli occhi, come Civitavecchia nel 1943-1944 anche Kiev è diventata vittima di un urbicidio. I bombardamenti pianificati da Vladimir Putin hanno distrutto palazzi, scuole, ospedali, strade rendendo la capitale ucraina una città ferita e irriconoscibile, costringendo gli abitanti sopravvissuti agli spietati attacchi a scappare non solo dalla propria casa, dalla propria città ma anche dalla propria nazione.
Niente più certezze, nessuna sicurezza, solo tanta paura e la vita che cambia improvvisamente senza avere la possibilità di fermare la tragedia, di rassicurare i bambini che andrà tutto bene e di trovare una via di fuga dal dolore causato dalle enormi perdite. Ragazzi mandati a combattere un nemico che fino al giorno prima era un amico, senza avere le nozioni militari per affrontare un combattimento e con il solo timore di perdere la vita a guidare le proprie azioni. Quando era già successo? Durante la Prima Guerra Mondiale, quando le atrocità furono talmente devastanti da pretendere alla fine del conflitto che si onorassero quei giovani soldati che in nome del patriottismo e del nazionalismo avevano sacrificato sé stessi.
Oggi come allora, la guerra interrompe le storie di vita, descrive pagine cupe e biasimevoli per l’umanità e sottolinea ancora una volta come l’uomo fatichi ad imparare dal passato, a riconoscere gli errori e impegnarsi per non commetterli più. Il parallelismo tra l’urbicidio di Civitavecchia e quello di Kiev commesso a distanza di 79 anni dà vita, dunque, ad una seria riflessione su come l’equilibrio mondiale sia molto fragile, alla mercé di decisioni discutibili prese da capi di nazioni che permettono troppo facilmente alla sete di potere e di primato di reprimere l’obiettivo primario di un leader, tutelare la propria popolazione. Basta intravedere uno spiraglio di conquista per far scoppiare un conflitto che non lede unicamente il nemico, gli altri ma anche sé stessi, causando perdite e devastazione all’interno dei propri confini nazionali.
La guerra continua ad essere distruzione e per i cittadini ucraini poter immaginare oggi il momento della ricostruzione appare molto difficile. Le previsioni non rassicurano, Andrew Cottey professore presso il Dipartimento di Governo e Politica dell’University College di Cork in Irlanda ipotizza che non ci sarà nemmeno una vera conclusione leggendo nel prossimo futuro – ed è forse uno degli scenari più auspicabili – “Un lungo scenario di guerra, descritto come una sorta di conflitto congelato, in cui si avrà un cessate il fuoco o un armistizio, ma il conflitto rimarrà assolutamente irrisolto” pronto a riaccendersi alla più piccola scintilla dato che gli insegnamenti della storia vengono ripetutamente ignorati.