Luigi Infussi[1]
“…Ogni museo é un po’ lo specchio dell’uomo che solo dalla propria storia trae le ragioni della propria realtà presente”(*)
L’ultimo decennio dell”800 ed i primi anni del ‘900, l’Europa visse momenti di grande fermento e continui tentativi di “cambi di rotta”. Non mancarono infatti le contraddizioni, anche in una fase d’intenso sviluppo economico. Le conquiste scientifiche procedevano di pari passo con le tensioni internazionali e le forti conflittualità interne alle grandi potenze europee, e agli “appetiti imperiali” : si era di fronte ad un Continente che viaggiava a più velocità, in cui il benessere materiale era inegualmente distribuito e nel quale cresceva un senso di insicurezza. Nacquero, così, inequivocabilmente contrasti tra le grandi potenze europee e la creazione di nuove alleanze, anche per ottenere ingenti prestiti per l’avvio dei processi di industrializzazione, insomma un Continente in frenetica corsa contro il tempo.
-Celebrazione dell’Intesa Cordiale (1904) tra Francia e Gran Bretagna nel porto di Brest. –
E l’Italia ???“Fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani”, la frase di Massimo D’Azeglio coglie efficacemente il più serio problema che si pose alla classe dirigente del “neonato” Stato Italiano, con realtà variegate ed ostacoli difficili da superare:8 italiani su 10 erano analfabeti e dove solo il 3% parlava la lingua italiana. Proprio l’estrema varietà e disuguaglianza della società italiana, assieme ad altre considerazioni condizionarono le scelte del giovane Stato, negli ultimi quarant’anni dell’Ottocento. In quegli anni bisognava fare i “conti” con:
– la spinta delle forze democratiche e popolari che avevano comunque contribuito alla creazione dello Stato;
– fronteggiare il forte potere ostile della Chiesa Cattolica;
– la necessità di risanare al più presto un bilancio in rosso passando obbligatoriamente dal contenimento delle spese e aumento delle entrate (aumento delle tasse e la vendita di beni demaniali dello Stato e degli enti ecclesiastici). Le diverse guerre risorgimentali per l’Unità erano costate molto al bilancio del Piemonte, per tale motivo il bilancio dello Stato italiano dei primi anni è nettamente negativo;
– il brigantaggio nel meridione;
– l’unificazione da completare.
Sin dall’Unità lo Stato fu chiamato a più riprese a porre rimedio a deficienze strutturali del Paese, quali la ristrettezza del mercato interno, la scarsità di capitali, la mancanza di infrastrutture e la debole iniziativa imprenditoriale. L’intervento pubblico apparse ancor più decisivo nelle non infrequenti circostanze in cui il capitalismo privato si dimostrò incapace di competere su mercati concorrenziali. In questo processo svolsero una funzione importante le grandi banche, con alla testa la Banca Commerciale Italiana, nella quale vi era una grossa partecipazione di capitale tedesco. Molte grandi imprese italiane sorsero con i mezzi di questa banca. Gli sforzi messi in atto in quegli anni diedero i loro risultati: nel 1875, infatti si riuscì ad ottenere il pareggio del bilancio. Si favorirono le imprese del Nord Italia, già abituate ad una economia di mercato, mentre furono sfavorite le imprese del Mezzogiorno cresciute in un regime protezionistico: iniziò in tal modo in quegli anni quella che successivamente verrà definita “la questione meridionale”; nel Meridione il nuovo Stato non solo non aveva migliorato le condizioni di vita ma le aveva peggiorate, in particolare introducendo nuove e più pesanti tasse (la più impopolare la tassa sul macinato del 1868) e rendendo obbligatorio il servizio militare per tutti. In tale contesto si sviluppò, ben presto, un movimento di protesta e rivolta nei confronti dell’ordine costituito, che trovò l’espressione più cruenta nel brigantaggio. La lotta contro il brigantaggio durò fino al 1866, impegnò nelle regioni del Mezzogiorno un corpo di spedizione di circa 120 mila uomini, pari a metà dell’allora intero esercito regolare, con la proclamazione dello stato d’assedio e il passaggio dei poteri ai tribunali militari che ebbero la facoltà di fucilazione immediata nei confronti di chiunque opponesse resistenza armata. Una durissima repressione militare segnò così, fin dall’inizio, il rapporto fra il nuovo Stato e le popolazioni meridionali. Nel 1877 la legge Coppino introdusse l’obbligo di frequenza (dai sei ai nove anni) nelle scuole elementari (fino alla classe terza), dando una prima risposta al grave problema dell’analfabetismo, anche se con risultati limitati e molto differenziati. Solo nel 1901 gli analfabeti scesero nei capoluoghi di provincia al 32%, rimanendo però al 52% nelle campagne. Con la riforma elettorale del 1882 si ridussero i limiti di censo (da 40 a 19 lire), e di età (da 25 a 21 anni), in tal modo ebbero accesso al voto altri due milioni di cittadini maschi, l’elettorato attivo passò dal 2 al 7% della popolazione. Tra il 1880 e il 1890 il parlamento italiano (anche sull’esempio di quello tedesco) avviò delle prime iniziative di legislazione sociale, riconoscendo, ad esempio, le società di mutuo soccorso (1886), e fissando a 9 anni e otto ore giornaliere i limiti del lavoro infantile (1886). Fu prevista, inoltre, la possibilità facoltativa di assicurarsi contro gli infortuni sul lavoro presso una cassa nazionale di assicurazioni, e solo nel 1898 il parlamento italiano emanò una legge per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, primo decisivo passo verso un sistema pensionistico volontario. In campo tributario, nel 1884 fu abolita, dopo sedici anni, la tassa sul macinato e in campo internazionale fu adottata una politica di tipo protezionistico. Una tale scelta fu condizionata sia dall’avvio della “grande depressione” economica che caratterizzò gli ultimi decenni del XIX secolo, sia dalla crescente concorrenza tra le diverse economie nazionali. Lo Stato italiano impose quindi, anche su sollecitazione di un grande fronte di forze economiche e sociali, nel 1887, una nuova tariffa doganale (che rimase in vigore fino al 1921) per proteggere soprattutto la produzione granaria e i settori industriali tessile e siderurgico, mentre lasciò bassi i dazi sui prodotti stranieri dell’industria meccanica e chimica. I rapporti di collaborazione con la Prussia iniziarono nel 1866 a spese dell’Austria, per finalizzare e completare l’Unita del Paese mediante l’acquisizione del Veneto. La paura di rimanere isolata in ambito internazionale (nel congresso di Berlino del 1878 l’Italia ebbe ben poco peso, ma soprattutto si ebbe l’impressione di essere isolata) la spinse ad aderire alla Triplice alleanza, con Austria-Ungheria e Germania, nel 1882. In questo clima di instabilità, gli ultimi dieci anni del secolo XIX, con il Re Umberto I, furono “avventurosi” e “drammatici”. La capacità dei politici fu suffragata dai fatti e giudicata “acclaratamente” inadeguata. A riprova di ciò, la cronaca del tempo fu segnata da gravissimi e sanguinosi tumulti a causa di: scandali, caduta degli ideali del Risorgimento e l’inadeguatezza dello Statuto Albertino. Inoltre, per dovere di cronaca, internazionale, nel maggio del 1900, nella Cina settentrionale, provocati dalla società segreta dei Boxers e del governo imperiale cinese, scoppiarono a Pao-ting-fu, gravissimi tumulti contro gli stranieri, che in poco tempo si estesero in quasi tutte le province cinesi del nord (1). Il culmine, infine, lo si ebbe il 29 luglio a Monza, il Re fu ucciso per opera dell’anarchico pratese Gaetano Bresci. A questo punto, il più ottimista degli osservatori, dopo i quattro colpi di pistola, non avrebbe scommesso sulla durata della monarchia in Italia. Invece non cambiò nulla, senza la repressione, senza l’esercito nelle strade, anzi, le cose cominciarono finalmente a raddrizzarsi. L’uccisione di Umberto richiamò bruscamente e tragicamente gli italiani al senso della loro responsabilità e dei loro interessi. Anche il giovane re, il figlio Vittorio Emanuele III fu di questo avviso. Invece della sterzata repressiva, scelse la via moderata, in un momento in cui, di fatto se non di diritto, la sua opinione (2) aveva ancora valore decisivo.
Non si oppose alla svolta liberale e intraprese una intraprendente ed efficace politica estera. Nei primi 12 anni di regno, difatti, non avvenne mai che V.E. III abbia mai agito in contrasto col suo governo in fatto di politica estera. Già prima di salire al potere, grazie ai molti viaggi e soggiorni all’estero ebbe modo di completare la propria educazione approfondendo materie giuridiche, politiche, amministrative e statistiche, affinando ben presto il campo della diplomazia, acquisendo spiccate capacità nelle relazioni internazionali. La politica estera del nuovo Re fu quella di guardare ai “cinque cantoni”. Con la necessaria accortezza e affinata diplomazia, perseguì:
– il mantenimento della Triplice Alleanza (Austria e Germania);
– l’amicizia dell’Inghilterra;
– un maggiore riavvicinamento dell’Italia alla Francia,
ed infine con in casa la russa-slavofila regina consorte (Il 24 ottobre 1896 aveva sposato a Roma Elena Petrovich Njegos, figlia del principe Nicola di Montenegro) furono fatti molti passi con la Russia, allarmando e non poco le altre quattro potenze. Furono gli anni di pace operosa nella vita di una nazione, che proprio partendo dall’anno più oscuro, iniziò ad essere una nazione moderna, con un re silenzioso e appartato; anche perché la vita familiare di Vittorio Emanuele III, era in un certo senso, il modello della società piccolo borghese alla quale il nuovo secolo aveva aperto le porte: la sua vita era semplice e decisamente distante dalla mondanità.
Roma nel 1870, era ben lontana dal possedere le qualità proprie di una capitale europea. Roma era, infatti, una piccola città prevalentemente agricola di poco più di duecentomila abitanti, immensamente ricca di storia, la più ricca, con arte, ruderi e tradizioni popolari, ma del tutto priva di industrie. Un popolo che viveva alla giornata, dove l’analfabetismo raggiungeva il 70%, la malaria era diffusa e i briganti spadroneggiavano subito fuori Porta S. Paolo. Bisognava recuperare terreno rispetto alle altre capitali europee e in fretta. Ci pensò anche Garibaldi, questa volta in qualità di politico, per il rilancio economico e sociale di Roma, che si sarebbe dovuta dotare di un proprio porto marittimo e che avrebbe dovuto attuare la bonifica dell’Agro: in questo mastodontico disegno si inquadra, la liberazione della città dalle allora frequenti e disastrose inondazioni del Tevere. Sebbene Roma, nel corso della sua storia secolare, avesse subito inondazioni anche ben più gravose l’Italia intera fu scossa da quella dei giorni 27, 28 e 29 dicembre 1870, quando le acque del Tevere raggiunsero l’elevazione di m 17,22 all’igrometro di Ripetta e devastarono due terzi della città, mietendo numerose vittime. Il tutto accadde a pochi mesi dalla Breccia di Porta Pia, tanto che molti clericali interpretarono l’evento come una solenne punizione divina, un “segno divino”. Lo stesso re Vittorio Emanuele II accorse a Roma alle 4 del mattino del giorno 29 dicembre per rendersi conto delle dimensioni della sciagura e coordinare i soccorsi, “palesandosi più che re padre benefico” come recita la lapide apposta in Campidoglio. Il 3 dicembre 1876 venne dato in appalto il primo lotto dei lavori sul Tevere con la costruzione dei muraglioni, che fu completata soltanto nel 1926 con il tratto sotto l’Aventino, e comportò un costo quasi doppio di quello considerato per l’intero progetto da Garibaldi (3), sì proprio lui l'”eroe dei due mondi”. La costruzione dei muraglioni ai lati del Tevere e i soprastanti lungotevere, che risolsero il millenario problema delle piene del fiume, comportarono però la chiusura dei due caratteristici porti fluviali di Ripa Grande e di Ripetta. A partire dal 1886 il Colle Capitolino fu “ridisegnato” per far posto al Vittoriano. A questa grande opera ne seguirono molte altre, modificando profondamente il “volto” di numerosi quartieri e l’aspetto caratteristico della Roma papalina. Vennero demolite case, chiese e palazzi anche di pregio, quali ad esempio il Convento di Aracoeli, con la sua ultrasecolare biblioteca, e l’annessa Torre di Paolo III sul Campidoglio, furono edificati numerosi edifici destinati ad accogliere le istituzioni statuali, e progettati interi nuovi quartieri come Prati accanto al Vaticano ed Esquilino intorno a Piazza Vittorio Emanuele II. Inequivocabilmente, non mancarono gli scontri tra il comune di Roma e il governo del Regno, come tra il mondo liberale e il mondo ecclesiastico, in posizioni sempre diametralmente opposte. Non mancarono le speculazioni, gli scandali finanziari (nel 1893 fallimento della Banca Romana), le corruzioni, il fallimento di numerose imprese edili con la conseguente disoccupazione ed il contestuale arresto dello sviluppo delle nuove infrastrutture. Ma nel frattempo aumentarono gli immigrati provenienti dalle campagne circostanti e dalle zone povere più lontane, oltre che dai numerosi piemontesi al seguito della corte reale (spregiativamente chiamati “buzzurri” dal popolo di Roma) oltre che dalle famiglie provenienti dal nord Italia, attratti dalle opportunità della Capitale: cosicché con il censimento del 10 febbraio 1901, in trent’anni, la popolazione raddoppiò, passando da 209.222 abitanti (31 /12/1871) a 416.028 abitanti.
L’Italia, in politica grazie anche alle felici intuizioni del “giovin” sovrano, iniziò la rincorsa, tornando a “piccoli passi” al centro della politica europea e non solo per la sua posizione geografica, al centro del Mediterraneo. Anche Roma, per tornare ad essere “centrale” nel mondo che conta, come le altre capitali europee dovette dotarsi di un museo militare che testimoniasse la sua potenza e la sua rafforzata immagine, o replicare quello già in essere a Torino e nelle altre capitali europee, il museo delle Armi. Ma tutto ciò sarebbe stato troppo scontato…. e così non avvenne. Qui la felice intuizione l’ebbero i suoi più stretti collaboratori di corte: come Roma “primeggiò” per lunghi secoli nel mondo, così é l’architettura militare, ramo della scienza nel quale il nostro paese ebbe sempre il primato, spesso e ancora oggi (volutamente) disconosciuto”: un modo “singolare” ma diretto per riappropriarsi della propria Storia, di ambire più in alto. La scelta fu fatta. La notizia fu data, con l’articolo di Quinto Cenni, che annunciò la “nascita” (o meglio si celebrò) del primo Museo Militare a Roma, pubblicato per la prima volta nel 1902 e poi replicato il 24/06/1903, come si evince dal Numero Unico Illustrato “L’arma del Genio nel Regio Esercito Italiano”: “Non tutta l’Italia, ma l’Europa tutta (dico non solo) é piena delle opere di Fortificazione dei nostri ingegneri militari, i quali non solamente in questo ramo dello scibile umano hanno dato impronta di genialità e di sapere:…….rappresentano il progresso delle scienze e l’onore dell’ Italia;…. Di scienza così nobile non poteva trovarsi sede più degna “. Ma tutto ciò non avrebbe avuto seguito, se prima non fosse partito un ordine perentorio per tutto il Regno, di far affluire su Roma, documenti, libri, reperti, foto, quadri, planimetrie, riproduzioni studi, eccetera, con oggetto l’Ingegneria Militare. Il Museo della Ingegneria Militare Italiana, nel maschio di Castel Sant’Angelo (Mausoleo di Adriano) fu inaugurato dal Re in occasione della Festa dell’Arma del Genio, il 13/02/1906 (4). Mi preme sottolineare, che Castel Sant’Angelo, dopo la “breccia di Porta Pia”, stava cadendo rapidamente in rovina, ma per iniziativa del Generale Durand de la Penne e i propositi e gli studi del Borgatti, risorse a nuova vita. Il Museo, sin dall’ inaugurazione iniziò subito a destare interesse, tant’é che lo stesso Re lo visitò più volte, spesso in occasione di visite internazionali. Ben presto, però, ci si accorse che gli spazi non erano sufficienti, pertanto, si fu costretti al trasferimento del ricchissimo museo presso le Casermette di Urbano VIII, sempre nella “cinta” del Castello, anche questa volta in occasione della Festa dell’Arma del Genio, il 13/02/1911, e rinominandolo “Museo Storico del Genio Militare”. Con Regio Decreto datato 5 febbraio 1911 venne costituito, così, il “Museo Storico dell’Arma del Genio”, e ne fu nominato Direttore, il Generale del Genio, Mariano Borgatti (5), noto studioso di storia ed architettura militare, che tanto si era prodigato per far nascere il Museo e che vi si dedicò con impegno e fattiva operosità per tutto il resto della sua vita. Lo Stesso scriveva in una sua opera: “Nel vicino Castel Sant’Angelo v’è il Museo del Genio Militare, mirabile raccolta di documenti, modelli, plastici e cimeli, che occupano più di ottanta fra sale e camere delle antiche casermette di Urbano VIII. Presso l’ingresso sorgerà il monumento ai Caduti del Genio”(6). Nel 1919, all’ indomani della fine della Prima guerra mondiale, attorno alla figura di Borgatti, nacque l’Associazione Nazionale dell’Arma del Genio (A.N.A.G), l’odierna A.N.G.E.T.: l’I.S.C.A.G. e l’Associazione, un connubio indissolubile, un impegno irrinunciabile e, negli anni, un impegno rilevante, che durò, purtroppo, fino alla fine del secolo scorso.
Successivamente, all’inizio degli anni ’30, venne costituito, in seno al Museo del Genio, l’Istituto di Architettura Militare. I due Enti continuarono, integrandosi, a dare sempre maggiore sviluppo alle loro attività e nel 1933 si trovarono in grado di potere fra l’altro, contribuire, con l’autorizzazione del Ministero della Guerra, all’allestimento di due importanti sezioni della Mostra Augustea (7) del 1937, il cui Direttore Generale, prof. Giglioli era nel frattempo entrato a far parte del Consiglio di Direzione dell’Istituto.
Ma in quello stesso anno, il 1933, uno speciale avvenimento venne a turbare la vita dei due Enti ed a provocare radicali cambiamenti; nell’ambito delle opere di urbanizzazione, a seguito del riordino tra i due stati, venne realizzata la sistemazione a parco pubblico della zona adiacente a Castel S. Angelo, con la conseguente demolizione delle casermette di Urbano VIII. Al museo venne individuata, come sede provvisoria, la ex caserma Piave in Viale Angelico, in attesa della costruzione di un nuovo edificio.
L’estromissione da Castel S. Angelo, per “ragion di stato”, fu particolarmente dolorosa per il legame che esso rappresentava con la memoria del Gen. Borgatti, deceduto il 5 aprile dello stesso anno, dopo aver lavorato in Castel S. Angelo per cinque lustri con diuturna passione e con fede. In quei momenti di attesa e di incertezze per il futuro, si pensò allora di unificare il Museo e l’Istituto di Architettura Militare, nella ferma convinzione che le finalità dei due preesistenti organismi, messi sotto un’unica direzione avrebbero facilmente raggiunto risultati di tutto rispetto. Fu proposto di denominare il nuovo Ente, “Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio” (I.S.C.A.G.), ma intanto il museo, nei mesi di gennaio e febbraio 1934, si trasferì nella caserma Piave. Da poco ultimata la sua sistemazione nella sede provvisoria arrivò il consenso delle più alte autorità: il 28 giugno del 1934 S.M. il Re firmò a S. Rossore (FI) il decreto che approvava la costituzione dell’“Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio” in sostituzione del “Museo Storico del Genio”.
Questo decreto stabiliva inoltre che al nuovo Istituto, oltre alle mansioni già spettanti al museo in base al R.D. del 5 gennaio 1911, fossero affidati anche i seguenti compiti:
- a) provvedere alla raccolta, custodia e valorizzazione di tutta la documentazione relativa alla Storia dell’Arma del Genio e della architettura militare;
- b) funzionare da centro di cultura storica e tecnica sia per gli Ufficiali del Genio, che per tutti gli studiosi in genere di discipline affini alla tecnica militare;
- c) funzionare da organo di propaganda di carattere tecnico militare per le scolaresche e per le organizzazioni culturali giovanili create dal regime.
Successivamente, con decreto ministeriale del 4 luglio dello stesso anno (1934), fu approvato lo Statuto dell’Istituto ed il 10 luglio il suo Regolamento interno.
I locali della sede provvisoria, nonostante fossero inadatti e scomodi, lontani dal poter ospitare una sede museale, l’I.S.C.A.G. cominciò comunque e subito a funzionare, restando però chiuso al pubblico. Venne dato l’avvio alla pubblicazione di un suo “bollettino” tecnico, all’accrescimento della biblioteca e delle raccolte grafiche, alla costruzione e manutenzione di plastici (oltre ad organizzare corsi plasticisti, una vera e propria scuola, unica e ambita nel suo genere).
Inoltre, in quegli anni prese parte alla Esposizione – fiera di Bologna del 5- 20 maggio 1934, alla Mostra italiana di strumenti ottici a Firenze (20 maggio-10 giugno 1934) ed alla “Mostra dell’Aeronautica Italiana” a Milano (giugno – ottobre 1934), sempre continuando nella collaborazione alla Mostra Augustea della Romanità. Nel frattempo, fu decisa la costruzione della nuova sede da ubicarsi nella stessa area demaniale della caserma Piave. Il progetto fu compilato dal competente Ufficio del Ministero della Guerra, a cura del Ten. Colonnello del Genio Gennaro de Matteis. I lavori furono iniziati il 20 marzo 1937, contestualmente al ricollocamento del Monumento ai Caduti dell’Arma del Genio.
Ai primi di gennaio del 1939 lo stato di avanzamento dei lavori permise di iniziare ad occupare i nuovi locali. A metà del mese di ottobre dello stesso anno gran parte del materiale era già stato trasferito nel nuovo edificio e si dette inizio ad un primo sistematico ordinamento di gran parte delle sale del piano terra. L’ inaugurazione avvenne l’anno successivo, in occasione della VII Adunata. – 22-23-24 giugno dell’A.N.A.G. (Associazione Nazionale Arma del Genio) -, ed in particolare alla cerimonia parteciparono una rappresentanza di settecentocinquanta radunisti del Reggimento “Mario Fiore”, che avevano donato l’Ara di marmo nero del Sacrario, progettata dall’ing. Paolo Napoli, Ufficiale di complemento. Erano le prime ore di una domenica mattina di inizio estate, non come le altre, difatti da qualche giorno si era entrati in guerra (10 giugno). Proprio in quella domenica del 23 giugno, qualche ora dopo, nel pomeriggio Palermo registrò il primo bombardamento aereo francese, che causò venticinque morti e centocinquantatré feriti.
In Europa, intanto come detto, era iniziato il secondo conflitto mondiale e l’Italia stava completando l’approntamento per il suo ingresso nel conflitto. Le spese erano enormi ed al fine di non lasciare l’Istituto privo di fondi, con R.D. n.°1242 del 27 luglio 1940 venne modificato lo Statuto dell’I.S.C.A.G. La modifica riguardava praticamente un solo punto: le risorse finanziarie dell’Ente. Infatti, mentre nello statuto del ‘34 era prevista per l’Istituto solo un’assegnazione annuale da parte del Ministero della Guerra, nello Statuto del ’40 a tale assegnazione si aggiungevano contributi di reggimenti e degli enti dell’Arma del Genio, nonché contributi di ufficiali del Genio in servizio ed in congedo. Nel maggio 1944 assunse l’incarico di Direttore il Generale Stefano Degiani, il quale operò, tra l’altro, affinché fossero approvati il nuovo Statuto dell’ISCAG ed il relativo Regolamento che, ancora oggi, disciplinano le attività dell’Istituto. Dopo il 4 giugno del 1944, l’I.S.C.A.G. fu anche adibito ad ospedale e presidiato dal Reparto 73° Station Hospital dell’U.S. Army. La caduta del fascismo in Italia, la fine del 2° conflitto mondiale ed il passaggio della Nazione dalla monarchia alla repubblica portarono ad un notevole incremento dei materiali del Genio ed in particolare delle Trasmissioni in possesso dell’Istituto. La nuova variante dello Statuto organico dell’Ente fu sancita dal Presidente Einaudi, su proposta del Ministro della Difesa Pacciardi, D.P.R. n.° 526 del 18 giugno 1949. Di conseguenza il 22 novembre 1950 fu modificato il Regolamento interno, con il DM n.° 498. Il 6 gennaio 1953, finalmente si ebbe la riapertura al pubblico dell’ Istituto, e qualche mese dopo, assunse la carica di direttore, il Generale Mario Tirelli che può essere considerato a buon diritto l’autore, attento e scrupoloso del ripristino, in 28 anni di attività, quindi fino al 1981, delle caratteristiche che, a suo tempo, il generale Borgatti aveva voluto e realizzato; segnò il “quarto periodo di vita” del museo, ovvero subì la quarta sistemazione, conseguenza della storia, e degli spunti di riflessione su cui ci si soffermava e si discuteva.
Lo Stesso fu anche Presidente del nostro sodalizio dal 28/07/1953 al 19/07/1959. In quegli anni molti plastici realizzati dalla “scuola” dell’I.S.C.A.G., furono avviati al Museo della Civiltà Romana a Roma, al Museo di Castel Sant’Angelo, al Museo della Tecnica a Milano, ma ben presto anche la “fucina” dei plastici si estinse. Ciò nonostante, l’attenzione verso l’I.S.C.A.G., di quegli anni ’50, rappresentò la normalità, anche grazie al suo “Bollettino”, sempre oggetto di discussione nei “forum culturali”, non oggi come eccezione. C’era sempre la volontà di non disperdere un inestimabile patrimonio tecnico-scientifico, unico nel suo genere, unico nel mondo. Il 13 febbraio 2006, l’I.S.C.A.G. ha compiuto 100 anni, nell’indifferenza più totale!!!! Oggi l’Istituto dipende dal Ministero della Difesa tramite il Comando Genio, dal 2015(8), mentre al personale che vi opera, con sempre più crescenti difficoltà, per mancanza di mezzi e personale, va l’impegnativo ed arduo compito di conservarLo e tramandarLo alle nuove generazioni di Genieri.
Oggi l’I.S.C.A.G.
Il progetto ispiratore della nuova infrastruttura, ideata dal De Matteis, fu quello di tenere per centro il Sacrario dedicato alla memoria degli Eroi ed intorno ad esso raggruppare le testimonianze delle principali attività dell’Arma, sia nella preparazione della guerra, sia sui campi di battaglia. Inoltre scelse un sistema museale innovativo con gli ambienti disposti uno in successione all’altro, consentendo così un percorso di visita continuo, senza che mai il visitatore debba ripercorrere le sale già viste. L’edificio è costituito da un corpo centrale a due piani, al cui centro è situato il Sacrario sormontato da un’alta torre, e da quattro corpi al solo piano terreno disposti simmetricamente attorno al corpo centrale. Questo ha nel Centro un cortile dedicato a S. Barbara, con ingresso sul Lungotevere, e chiuso nel lato opposto da un’esedra nel cui mezzo è il portale di accesso all’antisacrario e quindi al Sacrario. Dal cortile di S. Barbara a mezzo di ampi porticati, si accede a due cortili simmetricamente disposti e detti uno “delle armi” e l’altro “delle guerre”. Il cortile di S. Barbara è adorno di paraste sulle quali sono incise le date delle Campagne alle quali hanno partecipato l’Arma del Genio e delle Trasmissioni. Inoltre, vi sono tre giardini, il centrale alle spalle del Sacrario, quello di sinistra, prospiciente alla Presidenza Nazionale dell’A.N.G.E.T., intitolato al Generale Mariano Borgatti, quello di destra intitolato al Generale Durant de la Penne. Le sale principali lunghe dieci metri e con una superficie di oltre duecento metri quadrati ciascuna, sono dodici al piano terra e cinque al primo piano. Le sale del piano terreno sono dedicate alla dimostrazione delle varie attività delle Armi del Genio e delle Trasmissioni, del loro sviluppo in tempo di pace e della loro applicazione in tempo di guerra , poiché l’ Arma del Genio, per vocazione, é stata sempre decisamente impegnata nel progresso tecnico-scientifico, unitamente volta all’impiego di proprie strutture e personale, in funzioni ed attività di alta utilità sociale a favore della comunità; quelle del primo piano contengono invece tutto quanto si riferisce al progresso dell’architettura militare attraverso i secoli; qui una speciale sezione è destinata a ricordare la vasta opera compiuta dai nostri architetti militari all’estero, a suffragio della “felice intuizione” dei Savoia del 1902. Al primo piano si trovano anche gli Uffici della direzione, nonché la biblioteca ed un’aula per corsi d’istruzione, comunicazioni, ecc. Le forme architettoniche esterne volutamente semplici e severe, con predominio assoluto della linea retta, il rivestimento di travertino della facciata principale e quella di travertino e mattoncini nelle rimanenti parti, le due saldi torri fra cui si apre l’ingresso principale e quella che si eleva sul Sacrario conferiscono all’edificio uno spiccato carattere militare. Gli ambienti interni, ampi e luminosi, sono privi di qualsiasi decorazione, dovendo l’attenzione del visitatore essere richiamata solo da quanto vi è esposto; l’atrio di ingresso, l’antisacrario, il Sacrario ed il salone del primo piano sono invece rivestiti di pietra. Sulle pareti dell’antisacrario sono ricordate le decorazioni al valor militare guadagnate dai singoli o dai reparti dell’Arma dalla sua costituzione ad oggi. Il Sacrario, a tre navate, ha le pareti ricoperte da marmi; termina con un’abside al cui centro vi è un’ara di marmo nero. Nelle pareti dell’abside sono ricavate nove finestre alte e slanciate chiuse da bellissime vetrate artistiche del noto pittore Duilio Cambellotti, nell’anno 2000 (9) ridate all’antico splendore. L’ambiente è molto decoroso e severamente mistico come si conviene ad un luogo consacrato alla memoria di coloro che dettero la vita per la Patria. Con molto amaro in bocca si può affermare che l’Istituto Storico dell’Arma del Genio é ancora oggi più conosciuto all’estero che in Italia.
La Biblioteca
Occupa un salone di 220 mq. ed è ricca di oltre 24.000 volumi, dal XVII secolo ai giorni nostri. Prevalgono opere di architettura militare, testi di fortificazione, di costruzioni edili, idriche, elettroniche, telegrafoniche, radiotelegrafoniche, opere marittime, nonché di argomenti scientifici e militari vari. La Biblioteca è, di fatto, una importante raccolta, unica nel suo genere, sia per i particolari argomenti trattati, sia per la rarità dei testi.
Essa comprende anche l’Archivio dei Decorati dell’Arma, ove sono conservate non solo le schede di coloro che in tutti i tempi hanno onorato maggiormente il Genio, ma anche la documentazione dei fatti d’arme, delle circostanze e delle motivazioni che portarono al conferimento delle decorazioni al Valor Militare.
L’Archivio Fotografico del Genio
Comprende oltre sessantamila fotografie, a datare dalla fine del XIX secolo, che illustrano gli esperimenti e lo sviluppo iniziale della fotografia militare, della aerofotografia e della aerofotogrammetria, sotto l’aspetto tecnico dell’osservazione in guerra e della documentazione di opere o avvenimenti militari in pace. Un gran numero di foto tratta il tema della fortificazione campale e soprattutto permanente.
L’Archivio storico-iconografico
Comprende oltre 20.000 pezzi a datare dal XIV secolo, suddivisi in Fortificazioni, Infrastrutture Militari, Stampe e Cartografia.
L’Archivio storico-documentale
Comprende, a datare dal XVIII secolo, circa 150.000 documenti nei settori delle Operazioni del Genio, Ricerca-Sviluppo e Sperimentazione dei materiali del Genio, Infrastrutture Militari, Demanio e Lavori del Genio.
La Raccolta dei Bollettini
I Bollettini dell’Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio sono pubblicazioni semestrali di circa 150-200 pagine con tiratura di 650 copie, prodotti dal 1935 al 1983 (Ultimo bollettino il numero 143-144).
I Bollettini venivano diramati agli Enti ed agli Uffici dell’Organizzazione Centrale dell’Esercito, ai Comandi Genio e Trasmissioni fino a livello di Battaglione, agli Istituti universitari, a vari Enti pubblici e privati, e agli abbonati. I Bollettini comprendevano studi, monografie, articoli storici e scientifici oltre a notizie attinenti alle finalità dell’Istituto. Hanno rappresentato per circa cinquanta anni un forum culturale di assoluto livello e prestigio di carattere internazionale, un riconoscimento ambito per chi pubblicava dei Saggi.
” L’EVOLUZIONE DELL’ARMA DEL GENIO, PER MOLTI ASPETTI HA COINCISO SEMPRE CON L’EVOLUZIONE SCIENTIFICA-TECNICA. SI PUO’ QUINDI AFFERMARE CHE IL PROGRESSO SCIENTIFICO E TECNOLOGICO STESSO, SPESSISSIMO, ABBIA AVUTO SOLLECITAZIONI E IMPULSO DALLE ATTIVITA’ DI STUDIO E DALL’OPERA CONCRETA, ASSIDUA E CAPACE DI -SCHIERE DI GENIERI- DI TUTTI I TEMPI. UOMINI CHE SANNO UNIRE ALLA INTELLIGENZA DELLO STUDIO LA SEVERA MILITANZA DEL SOLDATO, CHE CON IL LORO INTELLETTO E LA LORO OPERA HANNO DATO LUSTRO ALL’ARMA.” Luigi INFUSSI
(*) Alessandro Marabottini Marabotti) (1926-2012) -Studioso e professore Ordinario di Storia dell’Arte prima a Messina e poi a Perugia.
(1) Nel maggio del 1900, provocati dalla società segreta dei Boxers e del governo imperiale cinese, scoppiarono a Pao-ting-fu, gravissimi tumulti contro gli stranieri, che in poco tempo si estesero in quasi tutte le province cinesi del nord. Ci furono massacri orribili contro gli occidentali: frati, monache, missionari furono assaliti, uccisi, torturati, chiese e case religiose incendiate e distrutte; fu data la caccia ai bianchi e a tutti gli indigeni che avevano abbracciato il Cristianesimo; ucciso il barone Von Ketteler, ministro di Germania; assaliti a Pechino i palazzi delle legazioni estere e a tutto fu appiccato il fuoco, salvandosi solo quello della legazione inglese, dove trovarono riparo numerosi europei. La reazione delle potenze civili fu immediata. Verso la metà di giugno navi inglesi, russe, tedesche, francesi, austriache, giapponesi ed americane, presentatesi davanti a Ta-ku ne bombardarono i forti, iniziando le operazioni contro Tien-tsin, che il 14 luglio fu espugnata.
Il 2 luglio il ministro degli esteri italiano espresse l’ipotesi di una partecipazione alla spedizione internazionale, con un corpo di spedizione. Il 7 la Camera approvò l’invio di truppe italiane in Cina. In poche ore l’Italia allestì e fece partire alcuni battaglioni e si mise all’opera per preparare navi ed altre truppe. L’impressione dell’opinione pubblica fu enorme. I giornali ogni giorno in prima pagina riportavano i raccapriccianti fatti, e nonostante la recente delusione africana, la spedizione fu immediatamente popolare e accompagnata da una generale simpatia e consensi. Per il fatto che il maggior numero di vittime facevano parte del Clero, si verificò un fatto singolare. Il Papa, Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci), autorizzò il vescovo di Napoli, Cardinale Giuseppe Antonio Ermenegildo Prisco, ad impartire la benedizione al corpo di spedizione che partì da Napoli il 13 luglio che così si registrò per la prima volta nella storia dell’Italia Unita, sulla banchina l’augurio del Re e la benedizione Papale. In Cina gli Italiani sbarcarono il 23 agosto presso Ta-ku. Più che vere e proprie azioni di guerra le truppe internazionali si misero a compiere terribili rappresaglie, vendicando con “la stessa moneta” i massacri dei cristiani; nei saccheggi e nelle rappresaglie di ogni sorta perpetrati dalle truppe internazionali, quelle italiane furono forse le sole che non commisero abusi. Nel dicembre s’iniziarono trattative di pace, che si conclusero il 7 settembre del 1901 con un trattato con il quale il Governo cinese si obbligò ad erigere un monumento commemorativo sul luogo in cui era stato ucciso il barone Von Ketteler, a mandare a morte i principali colpevoli della rivolta xenofoba, a proibire l’ importazione di armi nel territorio cinese, a pagare alle Potenze internazionali, un’indennità di 450 milioni di taels, a consentire che il quartiere delle Legazioni fosse fortificato e sorvegliato da un corpo di polizia delle Potenze, le quali ebbero la facoltà di occupare parecchi punti tra Pechino e la costa, ed infine a proibire sotto pena di morte la costituzione di società xenofobe. Al bombardamento e alla presa dei forti di Ta-ku presero parte le navi italiane “Elba e “Calabria. Più tardi altre navi si aggiunsero a queste due (Fieramosca, Vettor Pisani, Stromboli e Vesuvio), che furono messe sotto il comando dell’ammiraglio Candiani. Drappelli di marinai italiani, tra cui si distinse il tenente di vascello Sirianni, fornirono magnifiche prove di coraggio, di resistenza e di disciplina nel tentativo dell’ammiraglio inglese Seymour di soccorrere le legazioni estere a Pechino, nella presa di Tien-tsin, nell’assedio delle legazioni e del Pe-tang e nell’occupazione di Pechino. Alla spedizione internazionale l’Italia partecipò con due battaglioni, uno di fanteria al comando del Tenente Colonnello Tommaso Salsa e uno di bersaglieri agli ordini del Maggiore Luigi Agliardi. Il piccolo corpo ebbe come capo supremo il Colonnello Vincenzo Barioni.
Il corpo di spedizione italiano marciò su Tien-tsin e, un mese dopo, su Pechino. Prese parte poi alle azioni di Pao-ting-fu, di Cu-nan-Shien e di Kalgan, dando prova di grandissima disciplina e di grande valore sì da meritarsi gli elogi del maresciallo Waldersee. Per la cronaca, il marchese Salvago Raggi, ministro italiano a Pechino, nel gennaio del 1901, fece occupare sulla sinistra del Pei-ho un territorio di circa 46 chilometri quadrati, che con trattato del 7 giugno del 1902, fu concesso dal Governo cinese all’ Italia.
Pianta del quartiere italiano di Tientsin nel 1920; è anche evidenziata l’area dove sarà costruito il futuro “Forum” negli anni trenta del XX secoloA seguito della partecipazione italiana nella repressione della ribellione dei Boxer con l’invio di un corpo di spedizione, il 7 settembre 1901 venne istituita la concessione italiana Tientsin : la superficie concessa misurava 458.000 m² ed era una delle più piccole concessioni territoriali cinesi alle potenze straniere ottenute al termine della rivolta: la zona consisteva nell’immediata periferia orientale della città e da un terreno lungo la riva sinistra del fiume Hai-He (conosciuto precedentemente con il nome di Pei Ho), ricco di saline, comprensivo di un villaggio e di un’ampia area paludosa adibita a cimitero.
(2) Lo Statuto Albertino, infatti, assegnava ampi poteri alla monarchia, e così i ministri non rispondevano del loro operato al parlamento ma al re, che si riservava sempre la scelta dei ministri della Guerra e della Marina. Al re spettavano anche le decisioni in materia di politica estera e la condotta della guerra, oltre al diretto controllo delle Forze Armate per mantenere l’ordine interno, come anche la nomina dei membri del Senato era precisa volontà del sovrano.
(3) IL PROGETTO DI GARIBALDI. Il 25 maggio 1875 Garibaldi presentò alla Camera un disegno di legge in sei articoli, contenente gli elementi essenziali del suo progetto. Si valutavano di pubblica utilità le opere per preservare la città di Roma e le vicinanze dalle inondazioni del Tevere e che consistono in un canale scaricatore con deviazione dell’Aniene e nella sistemazione del fiume nell’interno della città. La spesa non doveva superare i 60 milioni di lire, dei quali erano a carico dello Stato due terzi, mentre al terzo rimanente avrebbero provveduto per tre quarti il Comune e per un quarto la Provincia di Roma, valendosi anche dei contributi dei proprietari confinanti e contigui. La spesa e i relativi “progetti d’arte dovevano essere approvati dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e l’esecuzione delle opere doveva essere presieduta dall’Amministrazione dello Stato e da una commissione con delegati del Comune e della Provincia di Roma. Il progetto prevedeva la sistemazione interna ed esterna del Tevere. Il tronco urbano del fiume sarebbe stato conservato, ma rettificato e fiancheggiato da banchine di alaggio e di ormeggio, da lungoteveri e bassi muri di sponda, mentre l’afflusso delle acque sarebbe stato regolato da chiuse. Il canale sarebbe stato scavato a levante della città lungo la Valle dell’Aniene, in trincea tra Porta Furba e Porta San Sebastiano, con sbocco nel Tevere a valle della Basilica di San Paolo, e sarebbe stato navigabile da Ripetta al mare grazie alla rettificazione di tre anse. Il fiume, così incanalato, avrebbe raggiunto con il braccio destro Fiumicino e con quello sinistro, più ampio, la foce dell’Isola Sacra attraverso lo “stagnone” di Ostia. Un canale collettore fognario, in parte coperto e fuori della città scoperto, sarebbe stato costruito a ovest del fiume e avrebbe proseguito verso il mare a nord di Fiumicino staccandosi alla biforcazione per attraversare lo “stagnone” di Maccarese. Il canale di Fiumicino, risalente a Traiano e ripristinato da Papa Paolo V, sarebbe sfociato nel nuovo porto, progettato dagli ingegneri Wilkinson e Smith, con un’area portuale di 2 milioni di metri quadri. Dopo il voto favorevole della Camera venne dato a una Commissione Parlamentare l’incarico di esaminare il progetto e di riferire le conclusioni al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Il 27 settembre 1875 il Consiglio, a causa dell’alto costo del Progetto Garibaldi e per le pressioni della maggioranza dei parlamentari, decise di adottare il Progetto Canevari, presentato nel 1871, che venne però modificato con la conservazione del braccio sinistro del Tevere all’isola Tiberina e la riduzione dei lavori proposti per i ponti. Il Progetto Canevari, consisteva essenzialmente con la costruzione, nel tratto urbano del Tevere, di due muri di sponda di altezza superiore di circa un metro a quella raggiunta nell’alluvione del 1870 da erigersi ai lati dell’alveo del fiume rettificato attraverso una larghezza uniforme, la soppressione del braccio sinistro del Tevere all’Isola Tiberina, l’ampliamento di una serie di ponti esistenti (tra i quali Ponte Sant’Angelo), la demolizione di altri ponti e la loro sostituzione con ponti in ferro.
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Curiosità. I Stagnoni alle foci del Tevere. La forma e l’aspetto del territorio ostiense, nel retroterra immediato la città antica, hanno subito, nei secoli, sostanziali trasformazioni ad opera dell’uomo, soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento. Il principale elemento naturale che oggi tendiamo a credere scomparso è senza dubbio il grande stagno, Stagnone di Ostia, che si estendeva alle spalle della città, tra il Tevere e Castel Fusano, e che Livio in un passaggio definiva Ostiae Lacus. Di questo grande bacino paludoso troviamo menzione anche in Tacito, il quale annota che nelle paludes ostienses furono gettate, per ordine di Nerone, le macerie provenienti dall’incendio di Roma, fornendo così peraltro testimonianza di uno dei primi tentativi di bonifica dell’area. In età romana, grazie anche a numerose opere di drenaggio, delle quali restano cospicue tracce archeologiche, la pianura alluvionale che circondava Ostia poté essere abitata, coltivata, e attraversata da una rete di diverticoli che collegavano tra loro la città e gli insediamenti residenziali e agricoli, alla viabilità consolare (Ostiense e Portuense) e litoranea (Severiana). Lo stesso stagno veniva sfruttato principalmente per la pesca e per la raccolta del sale, due elementi che peraltro furono alla base della frequentazione protostorica dell’area della foce tiberina. Per tutto il Medioevo, il Rinascimento, quando lo stagno e le saline vennero date in gestione alla “Reverenda Camera Apostolica”, e l’età moderna, si hanno notizie di continue opere finalizzate alla manutenzione dello stagno e al dragaggio del suo sbocco a mare, per consentire l’ingresso di acqua salata, e dunque il funzionamento delle saline, evitando peraltro il ristagno eccessivo delle acque. Lo stagno viene in questo periodo spesso definito di Levante, anche per differenziarlo da quello “gemello” di Ponente, ovvero lo Stagnone di Maccarese, che si estendeva sulla riva opposta del fiume. Lo stagno di Ostia era collegato al mare attraverso un braccio naturale (che oggi conosciamo col nome di Canale dello Stagno, ridotto negli argini di cemento realizzati tra 1933 e 1939), e proprio grazie all’acqua di mare potevano alimentarsi le Saline, un tempo site nell’area che ancora oggi reca il medesimo nome. Ciò era possibile però soltanto attraverso continue opere di manutenzione del collegamento con il mare, che di frequente si insabbiava (problema ancora oggi esistente), innescando processi di impaludamento e di desalinizzazione delle acque, e con le stesse Saline, per raggiungere le quali si doveva oltrepassare la via Ostiense. Giova ricordare una delle fotografie aeree scattate dalle forze alleate durante la Seconda guerra mondiale nella quale, avendo i tedeschi disattivato le idrovore, si nota con chiarezza la ricomparsa dello Stagno. Una natura, dunque, sempre pronta a ricomparire, specie nelle aree che si trovano sotto il livello del mare, a seconda delle stagioni, degli eventi climatici e dell’ottusità degli uomini, e a rivelare la sua primordiale e ineffabile origine palustre.
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(4) 13 febbraio 1861, termine dell’assedio di Gaeta, che registrò l’impiego massiccio ed articolato delle unità del Genio senza precedenti. Quella data venne assunta quale ricorrenza celebrativa per l’Arma del Genio, fino alla fine del Primo Conflitto Mondiale……Come si arriverà al ventiquattro giugno. Dopo la Grande Guerra, per opportune ragioni, tanto più che quella guerra aveva offerto tanti altri mirabili esempi di coraggio e di eroismo, fu individuata la data del 28 ottobre, in memoria delle gesta compiute da tutti i reparti dell’Arma nella battaglia che condusse alla Vittoria. Ma quella data, pur essendo molto significativa, coincideva con la “Marcia su Roma”, limitando di fatto la possibilità di dare il necessario e doveroso risalto alle manifestazioni dell’Arma del Genio. Pertanto, con Regio Decreto in data 29 maggio 1933, veniva disposto che in luogo del 28 ottobre, l’Arma del Genio commemorasse come “data anniversaria” di fatti d’arme, il 24 giugno1918, l’ultimo giorno della battaglia del Piave, che segnò il primo e decisivo passo verso la Vittoria finale e che ricorda l’efficace concorso di opere e di eroismi dato a tutte le Armi dell’Esercito dalle varie Specialità del Genio durante quell’ epica battaglia. A preludio della commemorazione della data anniversaria, una ventina di giorni dopo dalla pubblicazione del decreto, fu effettuata la I Adunata A.N.A.G. a Roma, il 18 e 19 giugno del 1933.
(5) Mariano Borgatti nacque a Bondeno (Ferrara) il 21 maggio 1853 e a 19 anni si arruolò nel 3° Reggimento artiglieria. Sentendosi spinto verso la ” vita militare”, prima intraprese la carriera scolastica militare, poi fu assegnato, nel 1879 al 2º Reggimento Genio con il grado di Tenente. Il suo interesse crescente per l’architettura militare ebbe il suo culmine quando nel 1884 venne trasferito a Roma, alla Direzione del Genio, con il grado di Capitano. Nella ” giovane ” capitale, dovendosi occupare dei lavori di adattamento di Castel S. Angelo (all’ epoca sede di alcuni reparti del Genio), ne caldeggiò la destinazione a museo per salvaguardarne le sue ricchezze, dovendo peraltro per ottenere ciò attendere l’inizio del nuovo secolo. In quest’occasione iniziò ad interessarsi al progetto del Monumento ai Caduti dell’Arma del Genio valutandone gli aspetti archeologici ed artistici (il progetto prese corpo nel 1923 per opera di alcuni Comitati costituiti da Borgatti). Egli fu infatti trasferito prima a Firenze presso il 3º Reggimento Genio e, dopo tre anni, alla Scuola di Applicazione, dove per sette anni fu titolare della cattedra di fortificazione permanente. Nominato Maggiore nel 1897 e trasferito al 3º Reggimento Genio nel 1898, fece ritorno nella Capitale in qualità di Comandante della Brigata Specialisti, carica che ricoprì per cinque anni, durante i quali riuscì ad avviare il recupero del “Castello”, dedicandosi agli studi che gli valsero l’associazione onoraria a diverse Accademie. L’idea di Borgatti divenne finalmente realtà nel 1906 (la notizia ufficiale del “progetto” è del 1902), quando fu inaugurato all’interno di Castel S. Angelo, completamente restaurato e per la prima volta aperto al pubblico, il Museo della Ingegneria Militare Italiana: inaugurazione che gli valse la Commenda della Corona d’ Italia. Nel 1911, collocato in posizione ausiliaria, fu nominato Direttore del Museo del Genio Militare, proseguendo i suoi intensi studi. Con l’arrivo della Grande Guerra fu richiamato in servizio e nel 1915 assunse il Comando Territoriale del Genio di Verona con il grado di Maggior Generale. Nel 1917 tornò a Roma, trasferito all’Ispettorato Territoriale. Congedato nel 1918, tornò ad occuparsi esclusivamente del Museo e nel 1920, per l’opera svolta, fu insignito dell’onorificenza di Grande Ufficiale dei SS. Maurizio e Lazzaro. L’ Anno prima, attorno alla sua “figura “quale 1° Presidente, nacque la Nostra Associazione (all’ epoca A.N.A.G. – Associazione Nazionale dell’Arma del Genio) e con essa la sua anima, quel sentimento forte di appartenenza a tutela di ideali, tradizioni e valori nati nel dolore e nell’asprezza delle trincee. Gli anni successivi furono dedicati, oltre alla Associazione (rimase in carica fino al giugno del 1931), al diuturno impegno di ricerca e studio. Di quegli anni fu sua l’idea del Museo Storico dell’Arte Sanitaria e dette un decisivo contributo alla creazione dell’Istituto di Architettura Militare e alla pubblicazione, tra il 1928 e il 1931, della sua più impegnativa e completa opera “Storia dell’Arma del Genio dalle origini al 1914”. Nel 1927 Mariano Borgatti fu promosso Generale di Corpo d’ Armata, morendo poi il 5 aprile 1933 a Roma, all’età di ottanta anni. A Lui è intitolata l’area prospiciente l’ingresso della Presidenza Nazionale.
(6) Monumento ai Caduti dell’Arma del Genio
Il Monumento ai Caduti dell’Arma del Genio venne realizzato su iniziativa del Generale Mariano Borgatti (1° Presidente Nazionale del nostro Sodalizio), del Col. Lorenzo Penna e del Professor Ugo Ojetti, Maggiore del Genio. L’esecuzione dell’opera, dopo l’azione di propaganda e la raccolta delle oblazioni, fu affidata al noto e affermato scultore Eugenio Maccagnani (Lecce 4 aprile 1852-Roma 19 marzo 1930)- Sue le opere presso il Vittoriano: i trofei d’angolo, le basi per le colonne trionfali davanti ai propilei (piccoli porticati), la statua della Filosofia e le quattordici statue delle città nobili italiane (Torino, Venezia, Palermo, Mantova, Urbino, Napoli, Genova, Milano, Bologna, Ravenna, Pisa, Amalfi, Ferrara e Firenze)- Il monumento venne inaugurato solennemente il 20 novembre 1925, eretto sul lato ovest della cinta di Castel Sant’Angelo, come porta di accesso ai giardini del Mausoleo di Adriano. Così fu descritto da Borgatti:
“È costituito da un’esedra fra i due cancelli d’accesso al Museo; nel mezzo dell’esedra s’erge, sopra al basamento colonnato, il simbolo del Genio, con concezione indovinata ed opportuna. Un giovane e robusto Efebo (nel mondo classico, adolescente, giovinetto, adolescente di una bellezza delicata, quasi femminile), nudo come un eroe classico, col corpo ravvolto da una pelle di leone, simbolo della forza, porta alzato sul capo, col braccio sinistro, un ramo d’alloro, la vittoria, ed uno scudo, la difesa; ha nella mano destra una spada, l’azione, ed ai piedi strumenti e graticci da trincea, il lavoro. Nell’azione, dunque, nel lavoro e nella difesa di sé e dei suoi commilitoni, s’integra l’opera del Genio, che condusse l’Italia, per virtù di popolo e per eroismo d’Esercito, del quale il Genio è tanta parte alla Vittoria. Sul davanti del basamento colonnato é riportata la motivazione della concezione della Medaglia d’Oro all’Arma del Genio dopo la Guerra Mondiale; e poco sotto un’ara fumante manda col profumo dell’incenso verso l’Efebo simbolico il saluto di tante anime che dell’Arma fecero Altare di Culto. Lateralmente alla base-colonnato si svolgono due grandi altorilievi di bronzo nei quali l’illustre artista ha ritratto molte delle azioni del Genio in guerra dovute alle singole specialità: zappatori, minatori, ferrovieri, elettricisti con proiettori, aerostieri. Sotto scorre una scritta che dice: -Valore e Genio consacrarono le vostre vite alla morte o morti diventati per l’Italia vita di Gloria. – dettata dal Professor Carlo Mascaretti (meglio noto con lo pseudonimo anagrammato di Americo Scarlatti e anche con quello di Neo Ginesio – Pianello Val Tidone (PC) 27 gennaio 1855- Roma 22 maggio 1928, bibliotecario, scrittore e giornalista); e sotto ancora, sono appese sei corone di lauro in bronzo con nastri aurati. Sul rovescio del Monumento, che guarda il giardino del Museo al quale si accede per una larga e doppia scalea, é apposta una bella targa berniniana di bronzo, che in poche parole e cifre presenta la vita secolare dell’Arma del Genio”.
Nel quadro delle operazioni di trasferimento dell’I.S.C.A.G. da Castel Sant’Angelo nella futura sede, in Lungotevere della Vittoria, contemporaneamente “alla posa della prima pietra” della nuova infrastruttura, il 20 marzo 1937, il monumento ricostruito nell’attuale collocazione, dopo aver sostato per qualche anno nella batteria Tevere, venne riconsacrato dal Vescovo Castrense.
(7) La Mostra Augustea fu aperta dal 23 settembre 1937 al 4 novembre 1938 nel Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale a Roma. La Mostra raccolse oltre 700.000 visitatori. Dopo la chiusura della Mostra Augustea, Giglioli pensò di renderla permanente in un Museo della Civiltà Romana, con sede nel nuovo quartiere dell’EUR, nella zona sud-occidentale di Roma, dove avrebbe dovuto tenersi l’Esposizione Universale prevista per il 1942, che però non si tenne per lo scoppio della guerra.
(8) A partire dall’ 8 settembre del 2014, la “ripresa”, e in poco più di due mesi si é completamente ribaltato lo stato di torpore in cui versava l’Istituto: si riuscì, finalmente, a destare interesse e coinvolgere Comandi Militari, Autorità cittadine, Università, Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, televisione. Con il passaggio, poi, di dipendenza dell’ISCAG dal Comando di Roma Capitale (dal 2002) al Comando del Genio (2015) hanno assunto maggior velocità i lavori di ristrutturazione dell’Istituto a suo tempo avviati dall’ allora Col. Infussi che il 30 novembre 2015, a causa della sua collocazione in ARQ, ha ceduto la direzione dell’Istituto, dopo poco più di un anno, al Col. Giulio Milone. ll nuovo Direttore ha raccolto il testimone, e ha alzato decisamente “l’asticella” avvalendosi anche delle forze messe a disposizione dal Comando del Genio, oltre che della buona volontà di alcuni collaboratori, in particolare delle Signore Nilla Fort e Maria Quintiliani, oltre che negli anni precedenti, all’opera appassionata di alcuni Ufficiali,in particolare degli indimenticabili Generali di C.A. Gianfranco Baldini e Raniero Ranieri ,del Gen. B. Sergio Damiani,ma principalmente dell’ ultra decennale contributo del Gen.C.A. Roberto Scaranari; così facendo, sta cercando di dare all’Istituto una veste moderna e al passo con i tempi. Milone, in particolare, ha dato impulso ai lavori infrastrutturali tesi a rendere più dignitosi e confortevoli i locali delle esposizioni, mentre continuano le attività tese a conservare e migliorare gli strumenti informatici che consentono già adesso ai visitatori, ricercatori e studiosi, di documentarsi presso una postazione dedicata dotata di computer con monitor da 32″ ad alta definizione in modo da esplorare in breve tempo ed in modo compiuto le possibilità offerte dalle “raccolte” dell’ Istituto.
(9) Ventidue anni fa, l’I.S.C.A.G. era sotto la responsabilità della allora Scuola del Genio, e il comandante era il Generale Marios Lombardo.
[1] Generale.