Il monte Col di Lana è composto da due cime quella occidentale a quota 2462 m e quella orientale a quota 2453 m. Scendendo da quella occidentale, in direzione ovest il sentiero volta a nord e si risale attraverso una cresta fino alla cima del Monte Sief, a quota 2424 m, avendo percorso in tutto non più di 750 m. Questa distanza in linea d’aria non supera i 650 m. L’area appena descritta con queste tre cime, due del Lana e quella del Sief, fu teatro di combattimenti molto sanguinosi nel periodo 1916 e 1917. Gli italiani prima di arrivare a questo punto dovettero risalire dal fondo valle fino alla cima del Lana, combattendo letteralmente per conquistare ogni centimetro.
Dalla cima del monte si domina il paesaggio dal passo Pordoi fino al passo Valparola. Oltrepassare questo sbarramento naturale avrebbe permesso di evitare la strada delle Dolomiti: a nord ovest attraverso il Passo Campolongo passando per Arabba con le fortificazioni di Corte e di Ruaz, oppure a nord est salendo fino alle pendici del Lagazuoi attraverso il Passo Falzarego e poi girare a Nord Ovest passando dietro al forte Tre Sassi[1] per giungere al Passo Valparola.
Il riferimento della descrizione è il Pian di Salesei (quota 1400 m), che si stende nella valle a Sud del Col di Lana; qui si giunge dalla Valle del Cordevole. Questa piccola valle nel 1915 era tagliata dal confine italo-austriaco immediatamente a nord di Caprile: i luoghi citati segnavano il versante austriaco del confine.
La peculiarità della posizione decretò l’importanza strategica del Col di Lana. Le tecniche di combattimento di cui fu teatro possono essere prese a esempio per alcuni dei cambiamenti introdotti nella Prima Guerra Mondiale. Per due anni gli italiani contro gli austriaci e i tedeschi si contesero pochi metri di terreno, avanzando e ritirando la linea del fronte molto lentamente.
«[…] Il Col di Lana costituiva uno dei primi e più seri ostacoli ad ogni nostra avanzata nell’alto Cordevole e ci impediva di giungere, attraverso le valli di Badia o di Corvara, nella Pusterthal, ove avremmo interrotto la più importante linea di comunicazione ferroviaria e stradale che univa il fronte austriaco del Tirolo occidentale con quello orientale […]»[2].
L’area di interesse è approssimativamente un quadrilatero di circa 18 km quadrati; i suoi vertici in senso orario partendo da sud sono così definiti: la frazione Pian di Salesei, l’altopiano di Cherz, l’avvallamento di fronte al forte Tre Sassi al limite Nord Occidentale del Sas de Stria e la frazione di Castello.
La visione satellitare dell’area del Col di Lana permette di vedere un aspetto interessante della montagna: se, osservando la forma del terreno partendo dalla Sella del Sief, a sud del piccolo Settsass (o sasso Richthofen), si segue la cresta in direzione sud, si supera la Cima del Sief, si prosegue verso est arrivando fino alla cima orientale del Col di Lana, ci si accorge che si forma una specie di uncino. Al suo interno, tra le cime del Col di Lana e del Sief, si sviluppa una conca rivolta in direzione nord est verso il Sass de Stria, a Sud del Lagazuoi. Il versante opposto del Lana, quello meridionale, incide verso sud sulla Valle del Cordevole creando la piega della valle stessa all’altezza di Salesei e dell’omonimo Piano. In questa maniera segue il percorso della strada provinciale 24, a nord est verso il Lagazuoi la via era sbarrata dal Forte tre Sassi, a ovest verso il passo Campologno il passaggio era controllato dallo sbarramento Buchenstein: il Forte Ruaz[3] assieme al Forte Corte difendeva la strada delle Dolomiti in direzione Arabba.
Quest’area è caratteristica dalle forti pendenze, il dislivello per chi volesse arrivare in cima è notevole. Lungo la salita i boschi cominciano a diradarsi, il terreno con rocce di origine vulcanica diventa difficile da lavorare, per cui la costruzione di ricoveri e ripari richiede tempo, le postazioni sono esposte. Dalla Cima Ovest parte il primo costone verso Nord Ovest, che poi piega a Nord, ed è quello su cui sorge il Sief. Tale costone prosegue fino ai piedi del Piccolo Setsas passando per il Passo e la Sella Sief e divide il versante Orientale da quello Occidentale della zona di operazioni. Il versante Occidentale scende dalla Sella del Sief in direzione Gola di Contrin e il Col di Rode.
Dalla cima Orientale invece comincia il costone che scende in direzione Est chiamato Franza che, passando per la cupola (2250 m), a quota 2221 m si divide in due: un costone prosegue in direzione appunto di Franza, l’altro, che si dirige verso Nord Est, arriva fino a Castello da cui prende il nome. Infine, circa duecento metri sotto la cima Occidentale, dalla sporgenza chiamata Cappello di Napoleone (2250 m), o Felsenwache per gli austriaci, scende in direzione Sud Est il terzo Costone che si dirige in verso Agai. Più inclinato verso sud, circa dalla stessa altitudine si nota emergere il quarto ed ultimo Costone quello di Salesei. Nello spazio formato dai due Costoni si sviluppa quella che venne ribattezzata come Vallone della Morte. Questo Vallone è dominato dalla lingua di terra che si sviluppa a Sud Est del Cappello di Napoleone e il Costone di Salesi a Sud Ovest e venne identificata come Panettone (2146 m), o Infanteriestellung. Tra il Panettone e il Cappello di Napoleone vi era una piccola striscia di terreno che venne ribattezzata dai difensori austriaci Flankenwache. A Ovest del Costone di Salesei sotto il Panettone si sviluppa una piana che porta il nome di Pian di Ghiccia.
Il versante Sud Occidentale corre invece ripido fino al Col di Rode divenendo una difesa naturale negli ultimi 400 m di pendenza completamente esposti alla vetta e a eventuali tiri di artiglieria.
Quest’area fu contesa dalla Divisione Pusterthal in difesa e dal IX corpo d’armata per gli italiani. I difensori avevano ricevuto prima dell’inizio delle ostilità l’aiuto dell’Alpenkorps tedesco. Il vantaggio della posizione era più che bilanciato dalla superiorità numerica italiana. Italiani e tedeschi combatterono grazie a un cavillo: il comandante dell’unità teutonica, Konrad Krafft von Dellmensingen – in seguito famoso per Caporetto, fece circolare una comunicazione che benché Italia e Germania non si fossero dichiarate guerra, i tedeschi avrebbero difeso con la forza i territori dell’alleato austriaco contro qualunque attaccante, in questo caso gli italiani. Questo vizio diplomatico sarebbe stato risolto soltanto il 27 agosto 1916, quando il regno d’Italia dichiarò guerra al reich di Germania in risposta alla dichiarazione di guerra di quest’ultimo alla Romania, alleato italiano. Alla data di tale rettifica l’Alpenkorps era già stato trasferito sul fronte francese da quasi undici mesi, mentre gli italiani avevano già conquistato il Col di Lana da più di quattro mesi: non proprio un tempismo perfetto. Il IX corpo d’armata sarebbe stato integrato per la conquista decisiva del Panettone da parte della Brigata Basilicata composta dal 91° e 92° reggimento.
I combattimenti per la conquista della cima del Col di Lana si svolsero nell’arco di ben 10 mesi, dodici, se si conta anche la prima sortita austriaca lanciata nella frazione di Caprile vicino allora confine il 26 maggio 1915, appena due giorni dopo la dichiarazione di guerra. L’offensiva cominciò dal fondo valle per risalire gradualmente la montagna: l’avanzata è letteralmente avvenuta un passo alla volta. Secondo la ricostruzione dello Viktor Schemfil, allora ufficiale austriaco, l’attacco italiano avvenne in tre fasi.
La prima inquadrata nel giugno 1915 fu sostanzialmente combattuta con sortite e brevi scaramucce, mentre gli eserciti approntavano le posizioni per prepararsi alla battaglia che sarebbe seguita fino all’aprile dell’anno successivo.
La seconda e la terza offensiva invece sono molto più interessanti e dense di avvenimenti, di cui si vedranno alcuni episodi salienti.
Il fuoco di sbarramento preparatorio dell’artiglieria cominciò il 5 luglio, dando così inizio alla seconda fase. L’attività dell’artiglieria si protrasse per tutto il giorno seguente, concentrandosi in particolar modo sui forti. Già il primo giorno fu centrato in pieno da alcuni proiettili da 210 mm il Forte Tre Sassi, rendendo inservibile l’edifico per i suoi scopi primari, ma non le batterie che vennero disposte nei paraggi riparate alla vista degli attaccanti[4].
Il 7 fu il giorno dell’inizio dell’offensiva della fanteria. Agli ordini della 17a Divisione fu organizzato su tre colonne: quella di destra dal 45° Reggimento verso il passo Falzarego, quella di mezzo dalla brigata Torino verso la sella del Sief, e quella di sinistra operata principalmente dal 59° Reggimento lungo la direttrice del Costone di Castello per cercare di occuparlo. L’ultima colonna fu artefice della conquista di Agai già al giorno 8, mentre al 9 già avevano occupato quota 2221, dove si dividono i due costoni di Franza e Castello in località Cenglei. Il piccolo cocuzzolo fu oggetto di attacchi e contrattacchi per otto giorni, quando finalmente la 2a Compagnia del XX Bersaglieri, che avevano sostituito i battaglioni del 59° Reggimento, presero definitivamente la posizione ribattezzandola Ridotta Lamarmora, in onore del generale Lamarmora. Questa posizione fu la prima di importanza strategica che avrebbe portato alla cattura della cima.
Contemporaneamente erano cominciati gli attacchi all’Infanteriestellung, azioni che sarebbero costate molti morti. Il luogo presentava difficoltà per entrambi gli eserciti: era particolarmente esposto sia per la difesa al tiro di artiglieria, sia per l’attacco perché il vantaggio della posizione difensiva e l’esposizione valeva parimente; il terreno presentava asperità che ne rendevano difficile la lavorazione per l’approntamento delle difese.
L’inizio produttivo della seconda offensiva delle Dolomiti non ebbe seguito, infatti sostanzialmente le posizioni rimasero invariate fino a ottobre, puntualmente ogni sortita italiana era rimandata indietro. Fu in questo periodo che la zona fra i costoni Agai e Salesei venne ribattezzata il Vallone della morte e il Col di Lana divenne il Col di Sangue. Valgano da esempio i fatti del 4 e 5 agosto quando apparentemente il panettone pareva essere finalmente conquistato dagli italiani. Dopo un intenso bombardamento e due giorni di combattimenti, il 4 agosto gli uomini del IV Battaglione del 60° Reggimento italiano avevano strisciato nei crateri provocati dalle esplosioni precedenti fino alla trincea centrale semi distrutta dal preciso tiro italiano, il contrattacco notturno rispedì gli italiani in dietro essi lasciarono sul campo 4 ufficiali e 120 soldati morti e dispersi, 8 e 360 i feriti. Gli Schützen austriaci e gli Jäger tedeschi avevano ripreso l’Infanteriestellung. Nei rapporti austro tedeschi venne sottolineato il valore degli italiani che per essere rimandati al punto di partenza dovettero essere costretti con le bombe a mano[5].
Alla fine di agosto similmente gli italiani furono cacciati dal limite della Felsenwache, ogni metro perso dalla fanteria, anche a seguito di attacchi notturni, venne in qualche modo rintuzzato dal preciso fuoco di artiglieria italiano. Abbiamo qui una ennesima dimostrazione del logorio cui i reparti dei due eserciti erano sottoposti. Dopo tali scontri ci fu un momento di pausa dagli scontri fino a ottobre quando cominciò la terza offensiva italiana. Questo momento è identificato anche con il trasferimento, avvenuto a fine settembre, dell’Alpenkorps sul fronte francese e poi in quello balcanico. La difesa da quel momento fu interamente affidata alle truppe dell’impero austroungarico.
Per trattare della terza offensiva è necessario rifarsi alle parole di un protagonista, per comprendere quale fosse la situazione al momento dell’attacco, così scriveva il capitano Arthur Eymuth della 6a Compagnia del 4° Reggimento al 15 ottobre:
«Per ordine del comando di Battaglione comunico quanto segue… La Felsenwache è il punto chiave della posizione, perché oltrepassato il ciglio in quota, tutto il resto sarà assolutamente esposto all’osservazione del nemico e un attacco verso l’alto è impossibile, come pure una ritirata. Posizione, Felsenwache, Flankenwache, posti di guardia e posti sottufficiali possono essere occupati solo di notte. L’avvicinamento di giorno è escluso a causa del fuoco molto preciso. Progetto. Assolutamente necessari riparo e camminamento alla Felsenwache per rendere possibile l’occupazione durante l’inverno. L’avvicinamento alla posizione, che deve iniziare molto indietro, è escluso in inverno, soprattutto per l’assoluto pericolo di valanghe su questo versante, e il sentiero è anche decisamente troppo stretto e ripido. In certi punti una caduta può risultare mortale. L’avvicinamento in inverno dovrebbe forse essere effettuato dalla vetta del Col di Lana, ma dovrebbero essere costruiti parapetti e il sentiero»[6].
Appena tre giorni dopo, 18 ottobre, cominciò l’attacco al Col di Roda. La manovra prevedeva un assalto generale per cercare di circondare il Panettone e prendere la posizione di vantaggio con la cattura anche del Cappello di Napoleone. Queste aree erano di competenza della 17a Divisione con il supporto di elementi della 1a Divisione. In contemporanea la 18a Divisione aveva il compito degli attacchi sul Costone di Castello per raggiungere quota 2250 sotto la cima orientale del Col di Lana. In sostanza la terza offensiva consistette in un attacco generale alle posizioni austriache, il fine ultimo era quello di raggiungere la cima.
Il primo a cedere fu il Cappello di Napoleone al 26 ottobre, dopodiché, ottenuto il vantaggio della posizione ci fu la conseguente conquista dell’ormai indifendibile Panettone il 29 ottobre. In questo frangente si registrarono in tutto otto attacchi contro il caposaldo di quota 2250, cinque contro la Felsenwache e diciassette contro la Infanteriestellung. 12500 unità impiegate dal IX Corpo d’Armata italiano contro 4300 della Divisione Pustertal. 6400 perdite italiane, 1800 quelle austro-tedesche. «Viste dall’alto esse avevano importanza solo finché non fossero seriamente attaccate. […] Nel corso dei combattimenti, esse non sono state conquistate, ma fatte a pezzi distrutte. Il Col di Lana è diventato il “Monte degli Eroi” per i difensori pronti alla morte, ma per gli italiani esso è diventato il “Col di Sangue” […]»[7] L’assalto decisivo del 29 al Panettone fu portato proprio dalla seconda Compagnia del 91° Reggimento, il gemello 92° aveva sostenuto gli attacchi nei giorni precedenti. La Brigata Basilicata rimase operativa tentando altri attacchi verso il Sief fino all’11 novembre.
Dopo la conquista del Panettone ci furono di seguito i tentativi di catturare la Cima. L’attacco portato il 7 novembre portò alle ore 14.00 al momentaneo successo italiano. Gli austriaci senza perdere tempo si riorganizzarono, il contrattacco ebbe successo e, dalle ore 23.00, la Cima Lana era di nuovo in mano ai difensori: si stava ripetendo per certi versi la dinamica già vissuta per il Panettone.
La delusione per non essere riusciti a mantenere la vetta venne sfogata negli attacchi del mese successivo nei giorni 8 e 20 novembre, in mezzo ci fu un contrattacco austriaco il 18, e infine si ricorda l’ultimo tentativo di assalto del 16 dicembre.
Il bilancio finale delle perdite italiane per il 1915 nel settore del Col di lana furono 6902 così ripartite: 1154 morti, 5299 feriti e 449 dispersi.
Gli italiani si fermarono a 80 passi dalle posizioni austriache appena sotto la cima nord orientale, in quella che venne ribattezzata come la Ridotta Calabria.
La guerra di mina. In gennaio cominciò a prendere piede nel Comando italiano l’idea di completare la conquista del Col di Lana con un sistema differente da quelli usati fino a quel momento. Fu incaricato il tenente Gelasio Caetani del 1° Reggimento Zappatori aggregato al IX Corpo d’Armata, ingegnere di notevole preparazione, vantava studi sull’uso delle mine anche presso la Columbia University di New York. Queste competenze furono sfruttate a pieno dall’esercito perché lui fu l’architetto della mina sulla cima del Col di Lana.
«Quattro gruppi lavoravano giorno e notte con turni di otto ore, avvicendandosi in modo che uno dei gruppi potesse avere il turno di riposo. I soldati dell’9 a Compagnia zappatori e della 12° minatori furono spronati a fornire le massime prestazioni con premi determinati dalla misura che oltrepassava gli 80 centimetri di perforazione al giorno.»[8] L’impegno dei minatori italiani è da sottolineare perché secondo i dati quelli del Col di Lana furono gli unici scavi della guerra di mina realizzati senza l’ausilio di perforazione elettropneumatica, un po’ per la difficoltà nel trasporto del materiale adatto un po’ per procedere il più silenziosamente possibile. La grande incognita della guerra di mina era la possibile presenza di gallerie di contromina che avrebbero potuto rendere molto più delicato e suscettibile il lavoro. Gli scavi al buio, senza poter respirare all’aria aperta, con la costante preoccupazione di poter essere scoperti rese i nervi dei minatori molto tesi e sensibili. Questi uomini vivevano alla soglia di giustificate paranoie: temevano di poter essere improvvisamente scoperti o attaccati, con le contromine, dai nemici.
Ufficiosamente i lavori di realizzazione della galleria di mina cominciarono il 13 gennaio 1916: Caetani pensò di ampliare le tre caverne inizialmente scavate come ricoveri; il lavoro cominciò approssimativamente a quota 2405 m come viene descritto nella cartina riportata in figura 5. Come si vede nella ricostruzione queste, contrassegnate dalla lettera D, vennero collegate da una galleria trasversale lunga 15 metri. Da quella centrale partì la galleria denominata S. Andrea che entrava nella montagna per circa 52 metri prima che fosse ricavata la galleria Trieste a sinistra e il pozzo inclinato per risalire verso le profondità sottostanti la cima, dove vennero ricavati dopo una biforcazione a U i due pozzi di intasamento.
Nel frattempo in superfice il 2 febbraio 1916 ci fu l’operazione «Achtung» austriaca: si prefissava la distruzione delle trincee italiane, che riuscì parzialmente e causò perdite agli italiani. Questa fu l’ultima azione offensiva degli austriaci sul Col di Lana, essa seguì una serie di attacchi di lieve entità che si erano susseguiti tra la seconda metà di dicembre e tutto il gennaio seguente; in questo frangente gli austriaci confermarono la bontà della mira dell’artiglieria italiana: il cavo della teleferica che dalla cima del Sief portava aiuti alla cima del Lana venne colpito ben ventidue volte. Ricordare «Achtung» è importante per due motivi, il primo: al rientro il rapporto degli austriaci riportava che l’assalto aveva causato una cinquantina di perdite agli italiani, benché in realtà i morti siano stati una ventina. Questi errori, dovuti senz’altro a fattori emotivi e al tentativo, per buona fede lo definiamo inconscio, di impressionare i comandi aumentando le dimensioni dei danni arrecati al nemico. Nei rapporti delle azioni, per tanto, bisogna prestare fede alle perdite proprie più che a quelle arrecate, e questo vale per entrambi gli schieramenti[9]. La goffaggine di questi rapporti introduce anche al secondo aspetto: nonostante le cifre ingigantite delle perdite arrecate, i difensori del Col di Lana furono abbandonati a loro stessi. Ne è esempio quello del capitano Von Gasteiger, comandante del II Battaglione del 2° Reggimento Kaiserjäger a cui, mentre stava progettando una galleria di mina per far saltare la Ridotta Calabria e cacciare gli italiani dalle posizioni di vetta, vennero sottratti dal comando il grosso degli zappatori e una perforatrice. Benché quest’ultima fosse praticamente inservibile, poichè il tiro dell’artiglieria italiano centrava il cavo di alimentazione, questa sottrazione racconta come l’esercito austriaco nel 1916 fosse già in difficoltà sotto gli aspetti logistico e di disponibilità di mezzi. In proposito la chiosa è nelle parole di von Gasteiger: «Anche in presenza di manodopera sufficiente, la difesa dall’attacco di mina nemico non sarebbe stata sicuramente possibile. Il nemico era in vantaggio perché poteva procedere concentricamente coi suoi cunicoli, che erano più profondi dei nostri, ed inoltre, potendo portare verso valle il materiale di scavo si garantiva un avanzamento più rapido dei lavori»[10]
Inizialmente Caetani e i suoi superiori avevano preso molte precauzioni: avevano evitato di divulgare lo scopo degli scavi tra i soldati. La segretezza venne completamente abbandonata il 17 marzo, giorno in cui Caetani perse la pazienza per le insistenze del suo comando nel voler sapere quando sarebbero terminati i lavori. Il tenente responsabile dei lavori abbandonò la cura avuta fino a quel giorno: la segretezza nello smaltimento degli scarti prodotti dagli scavi[11] e l’attenzione a lavorare mentre erano in atto dei bombardamenti per mascherare i rumori prodotti. Durante gli scavi per verificare la presenza o meno di gallerie nemiche, Caetani utilizzò una particolare trivella lunga 5 metri e 50 centimetri, fatta apposta per verificare a che punto si era arrivati nella profondità della montagna e se nei paraggi fossero presenti altre gallerie. Senza conoscere questa materia, tutti gli elementi fin qui riportati sottolineano una volta di più le competenze e le difficoltà che Caetani e i suoi uomini dovettero affrontare. E nonostante questo, come sostiene il Gansteiger, gli scavi erano stati in qualche modo scoperti: benché da parte austriaca qualcuno avesse provato ad ingannarsi ancora ai primi di aprile, i dubbi vennero fugati quando provarono a limitare l’opera italiana con una contromina al 5 di aprile. Il maggiore conte Walterskirchen comandante del settore di confine 9 fece un più che chiarificatore resoconto della situazione: «Il 3 aprile, dalla vetta giunse comunicazione che dalla caverna sulla cima si sarebbero uditi lavori ed esplosioni. Una volta, agli inizi di febbraio, comunicazioni di questo genere venivano considerate poco plausibili, pensando trattarsi della costruzione di caverne nella posizione nemica di vetta. […] Nella notte dal 4 al 5 la 10 a Compagnia zappatori del 4. Battaglione fu incaricata di constatare la situazione di fatto. […] Nel corso della notte il rumore dei lavori risuonò più distante ed l’Alfiere Weisse ed i minatori a lui assegnati stimarono la distanza a 8 m. Allo spuntare del giorno, furono captati lavori in una seconda galleria, la cui distanza era però valutata in soli 3 m.»[12] Dunque al 5 aprile gli austriaci avevano individuato perfettamente lo stato dei lavori italiani. Provarono con la contromina a fermarli ma oramai dovevano solo essere ultimati. A voler ben vedere avevano la colpa anche di un rapporto risalente al 21 marzo dove veniva già menzionata la galleria di mina italiana. La chiosa finale a questo punto però è ancora nelle parole del Walterskirchen che così profetizzava alla fine del suo rapporto: «[…] Se non venisse effettuata l’esplosione da parte nostra, la realizzerebbe il nemico con una carica esplosiva di gran lunga superiore alla nostra, in un momento a lui propizio, dopo aver fatto tutti i preparativi per un attacco, e noi dovremmo per tanto rinunciare a tutti i vantaggi, come la carica esplosiva nostra discrezione, il mantenimento di tutto il presidio sulla cima, la sorpresa per il nemico e non per noi, il momento scelto da noi, il danneggiamento solo di una minima parte della posizione […]»[13]
Gli ultimi giorni prima dell’esplosione della mina furono i più esasperanti, diversi timori attanagliavano sia gli attaccanti che i difensori prima del grande evento. Caetani aveva previsto di suddividere nelle due camere 1824 kg di esplosivo, ma alla fine seguì il consiglio del comandante del Genio della Divisione, col. D’Ippoliti, e portò a 5020 kg il totale impiegato così suddiviso: 2000 kg nella camera di sinistra, 3000 in quella di destra e i restanti 20 utilizzati per l’innesco.
Finalmente giunse il momento di innescare la mina, al Caetani venne trasmesso il seguente biglietto in cui il comandante della cima gli impartiva l’ordine:
Comando di Cima Lana 17-4-1916 ore
Al sott.te del genio sig.or Caetani
La s. v. farà saltare la mina alle ore 23.35.
Il comand.te di Cima Lana
Mezzetti[14]
La descrizione di quello che accadde viene lasciata al ten. Elked, testimone oculare, che così descrisse l’esplosione della mina: «Fui sorpreso quando mi mancò l’ormai consueta illuminazione del Col di Lana fornita dai riflettori. Me ne andai in mensa … quando … il mio attendente entrò di corsa urlando come un ossesso: signor Tenente venga subito, ma presto, a vedere! Credo … un’esplosione. Ci affrettammo fuori … e quel che allora vidi rimarrà per sempre impresso nella mia mente finché avrò vita. Pochi istanti dopo il brillamento vedevo quella che sarebbe diventata la famosa esplosione di mina del Col di Lana. Il mio orologio segnava le 11,24 di sera. La visione era affascinante e ricordava la mano di un gigante che sporgeva dalla montagna con le cinque dita in fiamme, rosse incandescenti nella nera oscurità, indicavano il cielo. Si vedevano cinque strisce rosse uscire dalla cima a raggiera e quel che si poteva vedere tra le strisce rosse era tutto nero.»[15]
Per l’attacco definitivo alla Cima fu incaricata la 59a Brigata, di cui la 1a Compagnia era assegnato il settore centrale dalle gallerie, la 4a quello sinistro, mentre la 2a aveva l’incarico dei rifornimenti. Il piano prevedeva anche l’attacco alla posizione difensiva del Sief, denominata Bergsappe da parte della 9a Compagnia. Questo assalto sarebbe dovuto cominciare poco prima dell’esplosione della mina, ma la resistenza austriaca mantenne salda la posizione del Sief nonostante la confusione dovuta all’esplosione. La 4a e la 1a invece dopo circa un’ora riuscirono a impadronirsi definitivamente di Cima Lana. Mezzetti, alle 2.30, chiese un’altra Compagnia al comando. Prima che tale richiesta fosse ascoltata trascorse un’altra ora e mezza, infatti alle 4.00 del mattino giunsero i rinforzi, quando oramai ogni altro tentativo di catturare il Sief divenne vano. Forse posizionare il comando nella frazione Palla, ben al di sotto del Panettone, contribuì a rallentare la procedura per l’invio di rinforzi, facendo così fallire il piano di conquistare sia la cima Lana che la cima Sief.
Solo quella notte si registrarono, secondo le stime raccolte dallo Striffler le seguenti perdite: italiani 181 così ripartiti 34 morti (4 ufficiali più 30 soldati) 146 feriti (5 più 141) e un disperso; per gli austriaci 149 morti, più tra 72 feriti e prigionieri.
La battaglia per la cima del Lana si concluse il 20 aprile quando gli austriaci abortirono il piano per il quarto contrattacco. Da quel momento, fino alla ritirata italiana nel 1917, cominciò la battaglia del Sief. Dello stato d’animo austriaco di quei giorni resta il ricordo del ten. gen. Goiginger che si tiene come conclusione di questo capitolo: «[…] Mi recai di persona sul posto per rendermi personalmente conto della situazione e discutere sulle opportune misure da prendere con il comandante del sottosettore magg. Walterskirchen, un eccellente ufficiale dei Kaiserjäger che, purtroppo, proprio il giorno seguente, cadde vittima di una granata nemica insieme con il suo aiutante.
Mi convinsi ben presto che egli aveva ragione; effettivamente un contrattacco in queste circostanze non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo.
In seguito alla perdita della vetta però, anche la posizione sul pendio, che doveva essere protetta dalla vetta, non si poteva più tenere.
L’ordine di attacco venne perciò annullato e fu ordinato il ripiegamento delle nostre posizioni sul Sief.»[16]
La battaglia per la conquista del Col di Lana in sintesi si può tenere come esempio per lo svolgimento della Prima Guerra Mondiale. Il primo elemento da sottolineare sono le innovazioni tecnologiche introdotte al modo di combattere, innovazioni come l’ampio uso di bombe a mano e il coordinamento tra artiglieria e fanteria come elementi fondamentali per raggiungere dei risultati concreti sul campo di battaglia. La guerra bianca fu un’altra innovazione bellica importante: prima i campi di battaglia erano calcati nei mesi caldi e gli eserciti per lo più si fronteggiavano in luoghi pianeggianti, ora invece il genio militare, la velocità nell’approntare ripari sono elementi fondamentali per mantenere le posizioni appena conquistate. Il Col di Lana e il suo terreno difficile da lavorare mise a dura prova le capacità sia dei difensori che, soprattutto, degli attaccanti. In questa prospettiva rientra anche la guerra di mina, altro elemento caratteristico di questa battaglia, che fu utilizzata durante il primo conflitto mondiale come peculiarità strategica della guerra bianca. L’utilizzo di armi a ripetizione come le mitragliatrici fu anch’esso un nodo cruciale nello svolgimento dei combattimenti.
Dopo questi aspetti comuni vi sono gli elementi che descrivono la situazione del tempo dei paesi contendenti. Emergono i segni della fragilità dell’Impero austroungarico, giunto oramai al tramonto della sua esistenza. L’esercito, forte della posizione difensiva, è però privato di vettovagliamento e strumenti per combattere, per cui riuscì a ottenere il massimo con il minimo a disposizione.
La questione della Triplice Alleanza di fronte all’Intesa: la questione accennata dei combattimenti tra tedeschi e italiani senza che i due paesi si fossero dichiarati guerra.
Per quanto riguarda l’Italia invece le gelosie e diatribe tra gli ufficiali superiori che, data la preponderante superiorità numerica e di mezzi, decisero di attaccare a testa bassa: il risultato fu un rapporto di perdite di circa sette attaccanti per un difensore. Probabilmente questo atteggiamento fu dovuto anche alla considerazione di questo fronte come secondario rispetto agli attacchi tenuti sul fronte carnico. Se invece si fosse dato maggior peso ad un eventuale successo sul Falzarego, le difficoltà per l’Impero asburgico sarebbero state più gravi: uno sfondamento sul Lana avrebbe permesso di dividere in due il Tirolo e poi di aprire la strada fino alla Germania, contribuendo in maniera differente e più incisiva sull’andamento della guerra, anche rispetto agli alleati. Questa incertezza nelle scelte strategiche a monte della catena di comando fu probabilmente l’errore più grave commesso durante la Prima Guerra Mondiale.
Avere la possibilità di fare tutti questi ragionamenti, anche di ampio spettro, partendo da una singola battaglia, senza rimanere confinati ai suoi limiti geografici dovrebbe permettere di aiutare a comprendere l’importanza dello studio di un avvenimento storico, alimentando il senso critico durante la ricerca, permettendo di andare oltre per comprendere le questioni storiche non limitandosi al comportamento di un singolo, o un piccolo gruppo di persone, bensì capendo i movimenti in atto di una intera nazione.
[1] In ladino il nome sarebbe ‘Fort ‘ntra i Sas o Fort intra i Sas’ che in italiano è stato trasformato in Forte Tre Sassi, e così pure, curiosamente, in tedesco è diventato Werk Tre Sassi.
[2] Cit. Ministero della Guerra, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, La conquista del Col di Lana, Provveditorato generale dello Stato, Roma, 1926, p. 4.
[3] In tedesco Strassenperre Ruaz che significa “Tagliata di Ruaz”, termine con cui viene generalmente identificato il fortilizio nella bibliografia utilizzata.
[4] Cfr. La conquista del Col di Lana, p. 8.
[5] Cfr. Col di Lana, p. 65-73.
[6] Cit. Guerra di mine nelle Dolomiti – Il Col di Lana, p. 50.
[7] Cit. Pichler in Guerra di mine nelle Dolomiti, p. 74.
[8] Cit. in Guerra di mine nelle Dolomiti, p. 115.
[9] Cfr. Guerra di mine nelle Dolomiti, p. 111-112.
[10] Cit. in Guerra di mine nelle Dolomiti, p. 124.
[11] Questo aspetto è il più curioso, dalle testimonianze raccolte in Col di Lana e in Guerra di mine nelle Dolomiti pare che gli austriaci non abbiano notato i materiali di scarto portati fuori dalle gallerie, il che è strano perché comunque i lavori erano esposti dalla parte del Col di Roda e quindi a parte delle retrovie austriache.
[12] Cit. Guerra di mine nelle Dolomiti, p. 125.
[13] Cit. Guerra di mine nelle Dolomiti, p. 126.
[14] Cit. Guerra di mine nelle Dolomiti, p. 153.
[15] Cit. Guerra di mine nelle Dolomiti, p. 156.
[16] Cit. Col di Lana, p. 262.