Francesco Maria Atanasio. La presenza italiana in Estremo Oriente XIX e XX secolo: diplomazia e forze armate

  

La presenza italiana in Estremo Oriente XIX e XX secolo: diplomazia e forze armate

Francesco Maria Atanasio

 

Regia Marina. Nave “Magenta”

 

La presenza dell’Italia in Estremo Oriente assunse natura istituzionale solo all’indomani della nascita dello Stato unitario: ne fu artefice la Regia Marina sulla cui “scia” seguirà la nostra diplomazia ufficiale. Nel corso della spedizione navale del 1866 il comandante della pirocorvetta Magenta, Vittorio Arminjon, in forza del suo incarico di “ministro plenipotenziario” sottoscriverà i primi accordi diplomatici del Regno d’Italia con il Giappone (il 25 agosto) e la Cina (il 26 ottobre). Quello con l’impero “del Sol Levante” (così denominato fin dal VI secolo d.C. perché rispetto al continente asiatico le isole del Giappone si trovano ad oriente), formato da 23 articoli, 6 regolamenti commerciali, una convenzione addizionale di 11 articoli e 2 tariffari, garantiva l’accesso alle navi italiane ai porti dell’arcipelago già aperti e a quelli che lo sarebbero stati in seguito. Il trattato con il “Celeste Impero” (così appellato perché il sovrano era considerato di origine “divina”), composto da 55 articoli, 9 regolamenti commerciali e un tariffario per le esportazioni e le importazioni, nell’assicurare al Regno d’Italia lo status di “nazione più favorita” (clausola che garantiva reciprocamente un trattamento più favorevole rispetto ad accordi con Paesi terzi) e l’accesso a nove porti, riconosceva il diritto, riservato inizialmente solo a Francia e Inghilterra, per i nostri inviati di risiedere a Pechino invece che a Tien Tsin, l’importante città fluviale che fungeva da porta di ingresso alla Cina settentrionale.  Il prodotto di maggiore importazione dai due Paesi orientali era costituito dai bachi da seta, necessari per fronteggiare la crisi che stava flagellando l’industria serica europea: un’improvvisa epidemia aveva decimato i bachi e ne rendeva urgente l’approvvigionamento dal continente asiatico. Al viaggio in Estremo Oriente della corvetta Principessa Clotilde nel 1869 – nel corso del quale erano stati siglati dei trattati commerciali con il Siam e la Birmania ed instaurate regolari relazioni diplomatiche – seguirà nel 1873 quello della fregata Garibaldi. Il vascello giungeva su iniziativa congiunta della Regia Marina e del Ministero degli Affari Esteri e per richiesta di Vittorio Sallier de la Tour, nostro primo rappresentante in Cina: egli aveva chiesto l’anno prima al governo l’invio di una squadra navale da mantenere nel Mar Cinese (facendo fonda nel porto di Yokokama) “giacché sono intimamente convinto che avressimo così tutti i mezzi per organizzare e stabilire qui una colonia italiana”. Sulla Garibaldi prestava servizio quale guardiamarina Tommaso di Savoia, duca di Genova: la decisione assunta dal giovane principe sabaudo, su suggerimento del conte Litta, segretario di Legazione che sostituiva il ministro Fè d’Ostiani, di far acquisire alla visita carattere ufficiale sbarcando a Yokohama, favorì il consolidamento delle relazioni con l’Impero del Sol levante si da accrescere sensibilmente il prestigio dell’Italia ed agevolare le relazioni commerciali e politiche. Nel 1879 il duca di Genova vi fece ritorno, latore del Collare dell’Ordine supremo della Santissima Annunziata per l’imperatore Motsu-hito (1,)

che salì a bordo della corvetta Vettor Pisani per salutare il principe sabaudo: mai prima di allora un sovrano nipponico aveva messo piede all’estero – tale è una nave di guerra straniera- per incontrare un membro di un’altra Casa reale. Il Vettor Pisani si recherà nell’estate del 1880 anche in Corea, i cui delegati, recatisi a Tokio, grazie alla buona impressione ricavata dalla visita del duca, comunicarono al nostro ministro plenipotenziario, Raffaele Barbolani, la volontà di instaurare rapporti commerciali col nostro Paese. A suggellare l’amicizia fra Roma e Tokyo giunse in Italia nel 1882 una missione militare guidata dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito imperiale, il generale conte Oyama, accolto a Genova da Umberto I e Margherita e da Tommaso. Oyama parlando nel 1905 con l’addetto militare italiano in Giappone, il maggiore Enrico Caviglia, ricordava che “fummo trattati quasi dappertutto come capi africani…Un solo paese fece eccezione, l’Italia; una sola Corte ci fu cortese rendendoci gli onori dovuti, la vostra” citando “con estremo piacere le amabilità riservate alla missione dai nostri Sovrani e l’affetto e l’interesse con i quali Sua Maestà parlava del Giappone” (2.)

 

 Di pari interesse era l’attenzione dei governi del Regno verso la Cina, dove le potenze europee andavano assumendo sempre maggiore influenza, ma la posizione italiana non aveva registrato passi avanti a differenza di quanto era avvenuto con l’impero nipponico.  Infatti se la monarchia del “Tenno” (per come viene salutato l’imperatore) era desiderosa di farsi “accreditare” quale Stato membro della comunità internazionale anche al fine di far uscire l’arcipelago nipponico dal passato medioevale, la dinastia Ch-ing, dall’alto di una cultura millenaria, guardava con diffidenza e disprezzo i “diavoli” stranieri, lanciati alla conquista dei propri possedimenti. Già nella prima metà dell’800 l’Inghilterra aveva occupato Hong Kong e la Francia  l’Indocina: alla fine del secolo la prima mirava ad assoggettare il Tibet, la Russia la Mongolia e il Giappone la Corea  mentre in tutte le città costiere fiorivano attività commerciali e si diffondevano missioni religiose europee e americane: dopo la sconfitta della Cina nel 1895 nella guerra contro il “Sol Levante”, mentre questo occupava l’isola di Formosa, le altre Potenze riprendevano i progetti di “spartizione” del “Celeste Impero” indebolendovi l’autorità della dinastia. Osserverà al riguardo Giuseppe Salvago Raggi, uno dei più attenti diplomatici italiani, colà inviato in quegli anni: “Chi ha veduto la Cina alla fine del secolo XIX ha una chiara idea di quello che dovevano essere i grandi imperi di Assiria, Caldea, il regno persiano: vaste macchine perfette per la scienza di chi li aveva fondati, diventate fragili per la corruzione, al punto da crollare al primo urto…La Cina era rimasto il vecchio Impero asiatico dell’antichità…il grande  Impero del cataio che meravigliava il veneziano Marco Polo…rimasto fermo nelle sue istituzioni, che rosicchiate dai tarli andavano accasciandosi e presentava a noi europei uno spettacolo simile a quello che avremmo avuto in Egitto se quei templi, invece di essere adoperati come cave di pietra, fossero stati lasciati fino a noi intatti, ma trascurati, in lento sfacelo, senza riparazioni” (3).

 

In questa “gara” il Regno d’Italia, anche per gli impegni assunti in Eritrea e in Etiopia che avevano assorbito le non copiose risorse nazionali, era giunta ultimo, mentre i risultati non soddisfacenti in Africa orientale sembrava aver distolto l’attenzione dell’opinione pubblica dalle imprese coloniali. Eppure l’interesse permanevo tanto che l’8 marzo 1899 il principe ereditario Vittorio Emanuele scriveva al suo antico precettore, il generale Egidio Osio “…ora non si parla che della China; sono molto lieto che si sia pensato ad avere una base per il nostro commercio nell’estremo Oriente, commercio che rappresenta già interessi assai importanti e che non potrà che aumentare” (4)

 

Il ministro degli Esteri, l’ammiraglio Napoleone Canevaro, l’anno prima, riprendendo un’idea del suo predecessore, Emilio Visconti Venosta, aveva ordinato al nostro ministro a Pechino, Renato De Martino, di richiedere la concessione in affitto della baia di San Mun – a 180 miglia a sud da Shangai –  da adibire a “stazione carbonifera” sulla scorta di apparenti ben avviate attività economiche. All’ambizioso progetto si era mostrato contrario Salvago Raggi, che a Pechino dall’aprile 1897 quale Segretario di Legazione aveva avvertito come le iniziative similari di altre Potenze europee – ad esempio la Germania, che nel 1897 aveva ottenuto la baia di Kiao Ciao – erano state coronate da successo solo perché frutto di una precedente opera di penetrazione economica e politica che invece mancava all’Italia. Il governo imperiale cinese, infatti, rifiutò ogni concessione e respinse anche un ultimatum di Roma pur supportato dalla Regia Marina che aveva inviato nel Mar cinese una Divisione navale, forte degli incrociatori Marco Polo ed Elba, Stromboli, Etna, Piemonte e Vespucci, poi sostituiti dagli incrociatori Carlo Alberto e Liguria.  Nel marzo 1899, dopo esser stato richiamato a Roma, rientrava a Pechino Salvago Raggi con il titolo di “ministro residente”: fin dal suo esordio seppe dare un’impronta rilevante alla sua azione diplomatica. Le modalità da lui adottate al momento di presentare le credenziali all’imperatore “rivoluzionarono” infatti i rituali della Corte imperiale che imponevano a chiunque si presentasse al “Figlio del Cielo” – per come veniva chiamato il sovrano – di prestare il “kowton”, una triplice genuflessione toccando il suolo con la fronte, o quanto meno una sua simulazione. Scrive il nostro nelle sue memorie: “…fummo introdotti in una sala dove era l’imperatore seduto su un alto trono al quale si arrivava da scalini laterali mentre davanti a lui era un tavolo, davanti al quale mi condussero. Siccome il trono ed il tavolo erano assai alti da terra, ogni inchino fatto…ci faceva <sparire> agli occhi dell’imperatore che <poteva ritenere> avessimo fatto il tradizionale coton e con questo espediente il Governo cinese acconsentì a che i  ministri non si inginocchiassero…Per la consegna delle credenziali…i rappresentanti europei dovevano rassegnarsi a consegnarle al principe Cing, che salendo per la scaletta laterale si prosternava, consegnava le lettere e ritirava il testo della risposta sovrana…Dopo fatti i tre inchini prescritti….lessi il mio discorso, e mentre il principe si avvicinava…per ritirare le lettere reali guardavo l’imperatore e pensavo che, data la mia statura, avrei potuto posare le lettere reali sul tavolo dinanzi a Sua Maestà…ciò avrebbe costituito un precedente che modificava il protocollo diplomatico, pensai fosse il caso di tentarlo, e avanzatomi leggermente alzai le lettere nella direzione dell’imperatore al di sopra del tavolo…che , sorridendo…sporse la mano e ricevette da me le lettere del mio Re…posate le lettere reali davanti a sé, tolse dalla sua manica la risposta…la rimise al principe, che si alzò e venne a leggerm( ela)…Nei giorni seguenti vennero da me i miei colleghi per conoscere i particolari della faccenda…che allora a Pechino assumeva una certa importanza” (5).

 

 La questione della baia di San Mun venne temporaneamente “archiviata” da Salvago Raggi anche perché di li a pochi mesi, preceduta dall’assassinio di europei, missionari cristiani e dal massacro di convertiti cinesi, sarebbe esplosa la rivolta dei “Boxers” culminata con l’assedio delle Legazioni straniere a Pechino e l’attacco agli insediamenti delle stesse a Tien Tsin. Al nostro diplomatico dobbiamo un resoconto ufficioso, ma quanto mai interessante, di quegli avvenimenti e soprattutto dell’assedio subìto delle residenze diplomatiche a Pechino per 55 giorni fra giugno e agosto 1900, alla cui difesa contribuì un drappello di 41 marinai italiani della nave Elba al comando del T.V. Federico Paolini e del S.T.V. Angelo Olivieri. Seguirà poi l’arrivo di una più ampia rappresentanza formata dagli equipaggi delle navi italiane presenti nel Mar Giallo e in un secondo momento del corpo di spedizione inviato dall’Italia per un totale di 2543 uomini assieme a una divisione navale oceanica al comando dell’amm. Candiani (6).

 

Nel trattato di pace, siglato il 7 settembre 1901, che ristabilì le relazioni diplomatiche fra le Potenze straniere e la Cina, questa fu obbligata a sovvenzionare la ricostruzione delle sedi delle Legazioni andate distrutte e fra di esse quella del Regno d’Italia. Se le memorie autobiografiche di Salvago Raggi, con tutti i loro retroscena più che illuminanti già citati e quanto mai godibili per la prosa arguta, sono divenute fruibili solo nel 2011, una conoscenza su quanto accade al riguardo e sul periodo successivo all’assedio dei “Boxers” fu possibile averla alla metà pochi anni dopo per la rievocazione che farà Daniele Varè nei suoi scritti. Giunto a Pechino nel 1912 quale Segretario di Legazione, in ragione della sua nascita (il padre Giovanni Battista, patriota veneziano e ministro della giustizia, la madre Elisabetta Frances Chalmers un’aristocratica scozzese), delle sue frequentazioni e della sua carriera diplomatica vide, sentì e registrò avvenimenti svoltisi negli ambienti internazionali da fine ‘800 agli anni’50 del’ 900 in Europa e in Estremo Oriente. Magna pars è infatti riservata alla sua attività in Cina di cui ha lasciato viva traccia nel suo volume più noto: “Il diplomatico sorridente” del 1940, dato alle stampe in lingua inglese due anni prima. Nel 1933, dopo una prima edizione in lingua inglese, era apparso già Yehohala. Storia dell’imperatrice Tzu – Hsi e del trapasso dalla vecchia Cina alla Nuova: nella prefazione al libro Varè affermava: In queste pagine ho scritto quanto ho saputo e pensato di Lei (della sovrana n.d.a.), senza averla conosciuta, ma avendo assistito al tramonto dell’Impero sul quale essa regnò, e che dopo la sua morte scomparve”. L’edizione italiana, corredata da pregevoli foto d’epoca, ripercorre la biografia della sovrana, nata nel 1835, e che regnò nelle vesti di “imperatrice vedova” e poi di “imperatrice madre” per quasi 50 anni, inserendola nel racconto di una Cina sontuosa e tragica dove la presenza degli Europei era limitata alla capitale e alle città della costa: anche a Pechino, sede della fastosa e misteriosa Corte imperiale da dove Tzu Hsi esercitava il suo potere, i contatti con il corpo diplomatico straniero erano avvolti in complicatissimi cerimoniali che tendevano a isolare gli stranieri e a fargli sentire tutta la loro inferiorità rispetto al “Figlio del Cielo”. Fra i pregi del testo, oltre allo stile che ancor oggi si presta ad una piacevolissima lettura, le descrizioni particolareggiate della Città Proibita, delle arti, dei costumi, delle tradizioni e dei paesaggi e delle città del sub continente cinese che trasportavano il lettore degli anni’30 del secolo scorso nelle atmosfere rievocate così magistralmente nell’oramai leggendario film di Bertolucci “L’ultimo imperatore”. Sulle dimensioni della nuova sede della Legazione d’Italia, che oggi accoglie un’istituzione della Repubblica popolare cinese, Varè doveva scrivere: “La mia impressione delle Legazioni estere a Pechino fu un senso di ammirazione, misto a meraviglia, per la loro grandezza. E non potei fare a meno di domandare: – perché così vaste? “Visto il grave pericolo corso era stato deciso di “creare” un quartiere apposito per le missioni diplomatiche al cui interno ciascuna potesse di disporre di adeguati spazi di rappresentanza, ma anche di infrastrutture idonee a ospitare forze militare per un eventuale…secondo assedio! Al momento dell’assegnazione dei lotti Salvago Raggi – “da buon Genovese” – riuscì ad occupare uno spazio veramente eccezionale “a sinistra del canale di Giada” a danno di Belgio, Francia, Germania e Austria “per un terreno grande quanto il Pincio a Roma. Quando si trattò di costruire…gli architetti – incoraggiati dal fatto che…era la Cina che pagava credettero di poter mettere da parte ogni economia. Dimenticavano che l’illuminazione e il riscaldamento sarebbero venuti a carico dei connazionali” (7).  

 

Ma Salvago Raggi era riuscito anche a ottenere da Pechino una concessione in affitto a Tien Tsin, ampia quasi 50 ettari, trasformata in seguito dalle nostre autorità in un quartiere modello, ove presero a dimorare membri della corte imperiale e facoltosi borghesi cinesi: fu un risultato di particolare rilevanza che poteva considerarsi positivamente archiviata la vicenda della baia di San Mun. L’Italia veniva così a poter contare, alla pari delle altre Potenze, su un proprio “settlement”, necessario per lo sviluppo delle attività imprenditoriali nazionali: nel 1927 vi sarà annessa la concessione, grande 60 ettari, dello scomparso Impero d’Austria Ungheria. Nel 1905 ritornava in Cina il Liguria, comandato da Luigi di Savoia Aosta, duca degli Abruzzi, che già era stato in Estremo Oriente da guardiamarina nel 1894 sull’incrociatore Cristoforo Colombo, e nel 1906 l’incrociatore Calabria, ove prestava servizio il guardiamarina Ferdinando di Savoia Genova, principe di Udine : tranne che per la Germania solo l’Italia “mostrava la bandiera” inviando dei componenti della Dinastia regnante, segno di particolare riguardo per quegli Imperi e soprattutto motivo di viva soddisfazione per i connazionali colà residenti. La sede diplomatica di Pechino veniva intanto dotata – prima fra le rappresentanze europee – di un impianto radio, installato dalla Regia Marina: il 18 ottobre 1903 si inaugurava la stazione radiotelegrafica della Legazione comunicando con l’incrociatore Vettor Pisani e nel 1904 ne veniva installata un’altra a Tien Tsin. Nel 1909 allo scopo di ridare impulso alle relazioni con la dinastia Ch-jng, il principe Tch’onen, Reggente dell’Impero Cinese, verrà insignito del Collare della SS. Annunziata. L’improvvida deposizione dell’imperatore Pu Yi  (8) nel 1912 farà però precipitare la Cina in un crescente stato di anarchia e disordine imponendo all’Italia, alla pari delle altre nazioni occidentali e del Giappone, l’assunzione di sempre maggiori oneri per la tutela dei rispettivi concittadini e dei propri interessi: al fine di  proteggere in particolar modo i missionari e gli imprenditori italiani che operavano lungo lo Yang tse Kiang furono armate le cannoniere Sebastiano Caboto e Ermanno Carlotto, fu intensificata la presenza armata con aliquote di militari tratti soprattutto dal Battaglione “San Marco” e rafforzata la consistenza della Divisione navale dell’Estremo Oriente. Assente il ministro Carlo Sforza, Varè, promosso “incaricato d’affari”, il 7 ottobre 1913 provvederà a “riconoscere” in nome di Vittorio Emanuele III la TA TCHON MIN-KUO, la Grande Repubblica del Popolo Cinese. A causa dello scoppio della Prima guerra mondiale il diplomatico rimase a Pechino fino al 1919 assolvendo il compito di rappresentare il Regno in frangenti quanto mai delicati: anche alla sua azione si dovrà l’accoglienza degli italiani “irredenti”.

 

Fatti prigionieri sul fronte russo, sotto il comando del magg. Cosma Manera, riusciranno ad attraversare la Siberia e a raggiungere la Cina per venire inquadrati ed impiegati dal Regio Esercito. Fu Varè l’11 novembre 1918, in occasione di uno spettacolo di beneficenza in occasione del genetliaco del Re, a dare l’annuncio della firma di un armistizio da parte della Germania nel giubilo deliranti dei presenti: dinanzi questa notizia il governo della Repubblica della Cina, entrata in guerra contro gli Imperi centrali il 14 agosto 1917, decretò tre giorni di festa nazionale. Il giovane Stato aveva già subito il suo primo “colpo di Stato”: il 1 luglio il “signore della guerra” Zhang Xun, segretamente filo-tedesco, su pressione della Corte imperiale ancora assai influente pur rinchiusa entro le mura della Città Proibita, dove era stata autorizzata a rimanere dopo la rivoluzione del 1912, aveva costretto il Presidente della Repubblica Li Yuan Hong a sciogliere il Parlamento e a ricollocare sul trono il deposto sovrano Pu Yi. La restaurazione era durata pochi giorni: il 12 luglio, per l’intervento immediato del gen. Duan Qirui, il piccolo imperatore era stato fatto abdicare per la seconda volta e il nuovo Presidente della Repubblica Feng Guozhang aveva potuto dichiarare guerra a Germania e Austria: il contributo della Cina era consistito nell’invio di c.a. 200.000 manovali sul fronte della Mesopotamia, e su quello francese da  adibire a lavori di scavo e manutenzione delle trincee. Un ruolo diverso aveva avuto ovviamente il Giappone: dichiarata la guerra agli Imperi centrali il 23 agosto 1914, le sue truppe avevano occupato velocemente la concessione tedesca dello Shantung. La delegazione cinese inviata a Parigi per le trattative di pace sotto la guida di Lu Zhengxiang, titolare del ministero degli esteri, aveva nell’ambasciatore cinese negli Stati Uniti, Wellington Koo, forte anche della sua vicinanza con Wilson e i suoi collaboratori, il suo principale negoziatore. La Cina si trovava però in una posizione di sudditanza nei confronti del Giappone, procuratale dalle scelte compiute fin dal 1915 dall’allora “uomo forte” della Repubblica, il gen. Yuan Shi Kai, – già comandante dell’Armata del Nord – la cui defezione dalla Corte imperiale nel 1912 aveva assicurato il prevalere delle fazioni repubblicane: questi aveva accettato nel maggio 1915 di sottoscrivere le c.d “21 richieste” che dovevano “legittimare” l’occupazione da parte dell’esercito giapponese della penisola dello Shantung. Solo gli Stati Uniti avevano inviato a Pechino e Tokyo una nota per informare i due governi che non avrebbero accettato accordi che riducessero i propri diritti negoziali in Cina o che limitassero l’integrità politica e territoriale di quest’ultima. Nel maggio 1918 il Giappone tentò di risolvere preventivamene la vicenda scambiando con la Cina note segrete che ribadivano l’acquisizione del controllo “politico” dello Shantung: ma “il governo cinese aveva già compromesso la propria posizione negoziale prima della fine della guerra; i delegati cinesi (però n.d.a.) arrivati a Parigi affermarono di non conoscere gli accordi segreti, quantomeno finchè questi ultimi non furono esibiti dai giapponesi nel 1919” (9).

 

Alla delegazione del “Sol Levante”, che si avvaleva dei servigi del barone Makino, già ministro degli esteri, stava particolarmente a cuore con l’acquisizione di quel territorio anche l’inserimento nell’accordo costitutivo della futura Società delle Nazioni di una clausola che garantisse l’eguaglianza razziale per i cittadini di tutti i futuri Stati membri: la norma era invocata dal Giappone dato che negli ultimi anni Stati Uniti e Australia avevano osteggiato l’emigrazione verso questi Paesi dei nipponici. La questione dello Shantung fu sottoposta al Consiglio Supremo il 27 gennaio 1919: respinta la proposta di Makino di esaminare in una sola sessione e senza la presenza della Delegazione cinese il destino delle colonie tedesche del Pacifico e della penisola cinese, lo si ascoltò illustrare le rivendicazioni del suo Paese fondate sugli accordi siglati in forma segreta nel 1915 con il governo cinese. L’indomani Wellington Koo demolì gli argomenti avversari ricordando infine come lo Shantung fosse “la culla della civiltà cinese, il luogo di nascita di Confucio e di Mencio, e terra santa dei Cinesi” e che anche in considerazione della sua posizione geografica, ove non fosse stato restituito a Pechino era da considerarsi “un pugnale puntato sul cuore della Cina” (10)

 

La Cina chiedeva, anche sulla base del principio di nazionalità invocato da Wilson nei suoi “14 punti” (che nulla avevano previsto per l’Asia) la revoca di tutte le concessioni extraterritoriali rilasciate negli ultimi decenni dal governo imperiale, un più esteso controllo delle proprie ferrovie e delle proprie dogane – in

 

mano a società straniere – e ovviamente la restituzione dei diritti commerciali sullo Shantung: in cambio offriva l’apertura della Mongolia e del Tibet al commercio estero. La posizione cinese si avvicinava a quella dell’Italia, la cui delegazione a Parigi era entrata in contrasto con il presidente americano Wilson per la sorte di Fiume, che, non prevista fra i compensi del Patto di Londra del 1915, veniva richiesta da Roma per i noti motivi: il 19 aprile 1919 infatti il presidente del Consiglio dei  ministri Orlando e il ministro degli esteri Sonnino abbandonarono il tavolo delle trattative e la stessa capitale francese per rientrare in Italia in segno di protesta contro le posizioni più che rigide degli Stati Uniti… e la Cina perse il sostegno dell’Italia. Tre giorni dopo Makino dinanzi al Consiglio dei Quattro (Wilson, Lloyd George, Clemenceau…senza Orlando…) ribadiva le proprie richieste precisando come il Giappone non avrebbe firmato il trattato di pace con la Germania nel caso in cui le stesse non fossero state per intero recepite: gli replicò Wellington Koo, che precisò come gli accordi bilaterali siglati in precedenza da Cina e Giappone fossero privi di efficacia. Vi era a questo punto la concreta possibilità che anche la delegazione del “Sol levante” seguisse l’esempio dell’Italia e che il progetto per la creazione di una Società delle Nazioni naufragasse.  Il 26 aprile Makino presentava al ministro inglese una nuova proposta in termini ultimativi: qualora fosse stata consentito al Giappone di rilevare i diritti economici della Germania nello Shantung, ivi compreso il porto di Tsing Tao, le ferrovie (anche quelle da costruire…) e le miniere, Tokyo avrebbe ritirato le truppe d’occupazione e restituito il controllo “politico” della penisola alla Cina entro un termine…breve…! L’eventuale rigetto avrebbe comportato la formulazione di una protesta formale per la mancata previsione nello statuto della Società delle Nazioni della clausola dell’eguaglianza razziale dei cittadini degli Stati che ne avrebbero fatto parte e il Giappone si sarebbe dissociato dalla stessa istituzione del detto ente. Il “Consiglio dei Quattro” (in assenza dell’Italia non ancora rientrata al tavolo delle trattative) decise di accogliere le rivendicazioni di Makino: mentre Lu Zhengxiang inviava una nota di protesta formale invocando il dettato e lo spirito dei “14 Punti” sul rispetto del principio di nazionalità e sull’impegno a rifiutare accordi segreti che confliggevano con l’attribuzione della ex concessione tedesca dello Shantung al Giappone, a Pechino, quando si diffuse la notizia il 4 maggio, una folla sterminata di studenti si radunò dinanzi alla Città proibita – ritenuta al di là delle forme repubblicane la sede del vero “potere” – per poi muovere verso il Quartiere delle Legazioni straniere, mentre dimostrazioni si diffusero in tutte le altre città della Cina. Gli storici collocano in questa data l’inizio delle manifestazioni nazionalistiche che segneranno negli anni a venire la vita politica del grande Paese asiatico: la Delegazione cinese in segno di protesta formale non sottoscrisse il trattato finale con la Germania, siglato a Versailles il 26 giugno 1919 e solo nel successivo mese di settembre i due Paesi ne firmarono uno bilaterale. Mentre in Cina l’ondata anti-giapponese non accennava a placarsi finendo per coinvolgere anche le Potenze occidentali, nel 1920 e nel 1921 Tokyo cercherà inutilmente di trovare una soluzione di compromesso con Pechino. Al termine della Conferenza navale per il disarmo, svoltasi a Washington dal novembre 1921 al febbraio 1922, il Giappone e la Cina, con la mediazione anglo-americana, firmeranno un accordo in base al quale il primo in cambio del riconoscimento del controllo delle miniere e delle ferrovie esistenti in Manciuria restituiva alla seconda lo Shantung. Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Italia, Belgio, Olanda, Portogallo, Giappone e Cina firmavano il c.d. trattato della “porta aperta” con il quale si impegnavano a non richiedere ulteriori concessioni unilaterali alla Cina, di cui si garantiva l’integrità territoriale.  Nel 1922 giungeva in Estremo Oriente il Calabria, ove prestava servizio il capitano di corvetta Aimone di Savoia Aosta, duca di Spoleto: mentre la nave stazionava a Shangai nel marzo 1923 egli visitò le missioni cattoliche e i consolati italiani lungo lo Yang tse Kiang, accolto ovunque da manifestazioni di gratitudine dei nostri connazionali per la sua presenza in zone spesso isolate o devastate da scontri militari e da pestilenze. Al termine del viaggio Aimone redigerà un “Rapporto sulla spedizione del marzo 1923 nel Kwan Tung e nell’Hunan” assai acuto nella disamina politica e militare della situazione cinese e spesso citato nelle pubblicazioni scientifiche sul tema. In settembre il Calabria accorrerà in Giappone per soccorrere le popolazioni di Tokyo ed Yokohama, colpite da un gravissimo terremoto, per fare poi ritorno con i ringraziamenti dell’Imperatore in dicembre a Shangai in aiuto alla colonia europea, assediata dagli eserciti repubblicani cinesi. Nel 1927 Daniele Varè, ritorna a Pechino da “ministro”: “mancava però un governo cinese, o piuttosto ce n’erano tanti che non si sapeva al quale presentare le credenziali. Difatti non le presentai che due anni più tardi a Chang Kai Schek a Nanchino.”  Nell’antica capitale imperiale era stato ricevuto dal “maresciallo” Cian tso lin, uno dei principali “signori della guerra” che si erano spartiti l’ex impero: fu ritenuto per un periodo un possibile candidato al trono, ma dinanzi all’avanzare dell’esercito del Kuo mi tang partì alla volta della Manciuria: morirà a causa di un attentato dinamitardo, opera dei giapponesi, al suo treno blindato il 4 febbraio 1928 presso la stazione di Huanggtun. Pur nella conflittuale situazione politica cinese Varè riuscì a rinnovare il trattato di commercio con la Repubblica facendo garantire all’Italia la posizione di nazione “privilegiata” trattando a Nanchino con i ministri di Chang Kai Schek: fu un risultato quanto mai importante. Nel dopoguerra era cresciuta notevolmente la nostra influenza commerciale con un saldo attivo fra le esportazioni e le importazioni, la creazione della Sino-Italian Bank, emanazione del Credito Italiano, l’istituzione della linea celere di navigazione Italia – Shangai, alla quale furono riservati piroscafi di prestigio come il Conte Verde e il Conte Rosso (che si affiancava alle linee dei Cosulich e del Lloyd Triestino)  (11) e di molte imprese di navigazione fluviale. La concessione di Tien Tsin, solcata da 17 strade e due piazze, dotate di ospedale, cattedrale, caserma, centrale telefonica, scuole, campi sportivi, strutture sociali, mercato coperto, arriverà ad ospitare quasi 8000 abitanti, governati da un podestà, coadiuvato da una consulta mista italo-cinese. Di recente gli edifici e le strutture dell’antica concessione italiana sono stati perfettamente restaurati – stemmi sabaudi e fasci littori compresi – e utilizzati per le ultime Olimpiadi. Varè compì anche – e fu la prima volta per un nostro diplomatico –  un viaggio a bordo della Carlotto lungo lo Yang tse Kiang, di cui inserisce un sempre interessante resoconto nel suo volume autobiografico Il diplomatico sorridente. Con la Conciliazione del 1929 le autorità diplomatiche e consolari del Regno d’Italia assunsero ufficialmente la tutela di tutte le missioni cattoliche in Cina a qualunque nazionalità appartenessero, scalzando così la Francia da tale ruolo assunto ai tempi di Napoleone III: i vicariati italiani ascesero al numero di 25 comprendendo oltre 600 sacerdoti, 700 seminaristi, 800 suore ed erano disseminati in regioni vastissime con oltre 300.000 fedeli. Annoterà nel 1932 l’ammiraglio Domenico Cavagnari nella sua relazione di fine comando della “Divisione navale in Estremo Oriente” che “l’importanza dei Vicariati risiede nell’influenza che essi hanno sopra una parte non piccola delle popolazioni cinesi. Nelle inondazioni e nei saccheggi recenti i Missionari italiani hanno guadagnato nuovo prestigio prodigandosi senza timore e senza riposo, mentre i protestanti delle stesse regioni hanno perduto la faccia perché fuggivano al profilarsi del pericolo” (12)

 

Di pari passo si consolidò la nostra influenza commerciale con un saldo attivo fra le esportazioni e le importazioni, la creazione della Sino-Italian Bank, emanazione del Credito Italiano, l’istituzione della linea celere di navigazione Italia – Shangai, alla quale furono riservati piroscafi di prestigio come il Conte Verde e il Conte Rosso (che si affiancava alle linee dei Cosulich e del Lloyd Triestino) (11) e di molte imprese di navigazione fluviale. La concessione di Tien Tsin, solcata da 17 strade e due piazze, dotate di ospedale, cattedrale, caserma, centrale telefonica, scuole, campi sportivi, strutture sociali, mercato coperto, arriverà ad ospitare quasi 8000 abitanti, governati da un podestà, coadiuvato da una consulta mista italo-cinese. Di recente gli edifici e le strutture dell’antica concessione italiana sono stati perfettamente restaurati – stemmi sabaudi e fasci littori compresi – e utilizzati per le ultime Olimpiadi.  Nel 1930 in Cina, dove aveva prestato già servizio quale segretario di Legazione nel 1927, ritornò Galeazzo Ciano con l’incarico di Console generale per Shangai, cui seguirà quello di incaricato d’affari e infine ministro plenipotenziario. Subentrando a Varè: nel 1932 assumerà la presidenza della Commissione d’inchiesta della Società delle Nazioni a seguito dello scoppio del conflitto cino- giapponese (13).

 

Il livello delle relazioni fra Italia e Cina cresceva e nel 1934 la nostra rappresentanza veniva elevata dal rango di Legazione a quello di Ambasciata: in quell’anno giungeva quale suo primo titolare Vincenzo Lo Jacono, cui succedeva nel 1937 Giuliano Cora e nel giugno 1938 Francesco Taliani de Marchio, al quale dobbiamo una puntuale rievocazione di quegli anni così drammatici in suo prezioso volume autobiografico (14.)

La Cina dall’estate del 1937 era devastata dall’invasione nipponica che con grande difficoltà i diplomatici dei Paesi occidentali cercavano di contrastare per poter svolgere i propri compiti istituzionali: l’esercito giapponese occupava intanto Pechino, Tien Tsin, Shangai, la capitale della Repubblica, Nanchino, e infine Wuhan: Chiang Kai shek, sempre più in difficoltà, aveva dovuto spostare la propria sede ufficiale a Chongqing all’interno dello sterminato Paese. La Repubblica di Cina con la sua adesione alle sanzioni decretate nel 1935 dalla Società delle Nazioni contro l’Italia per la guerra d’Etiopia aveva purtroppo incrinato i cordiali rapporti fra i due Stati, che avevano visto ancor più intensificarsi le relazioni commerciali sull’onda di un’apparente vicinanza ideologica fra il Kuomitang e il partito nazionale fascista: la sottoscrizione nel novembre del 1937 del patto anti Komintern, che associava il nostro Paese a Germania e Giappone, e il riconoscimento dell’Impero del Manciukuò  da parte di Roma rappresenteranno ulteriori motivi di attrito.  Taliani, su indicazione del nostro Ministero degli Esteri, non effettuò così una formale presentazione delle sue credenziali al governo repubblicano nazionalista rimanendo a Shangai, ove si erano trasferite le rappresentanze diplomatiche dopo l’occupazione di Pechino da parte dei Giapponesi, mentre a Chongqing per la cura degli interessi italiani risiedeva il Consigliere d’Ambasciata Adolfo Alessandrini. Dopo l’attacco giapponese alla Cina l’Italia era stata costretta, alla pari di Francia, Inghilterra e Stati Uniti, a rafforzare il proprio impegno militare anche per l’assunzione del controllo nel 1938 di una zona di Shangai, eletta a sede delle legazioni diplomatiche.

 

In tale prospettiva si collocherà la missione dell’incrociatore Colleoni della 4a Divisione navale al comando del C.V. Gaetano Catalano Gonzaga di Cirella (15) egli otterrà dalla Marina nipponica, sempre più aggressiva, la totale esenzione dal suo controllo delle navi battenti il tricolore sabaudo nelle acque cinesi. Catalano sarà ricevuto dall’imperatore Hirohito a Tokyo nel corso di una visita ufficiale dell’unità in Giappone e successivamente dall’imperatore Pu Yi, ora sovrano del Manciukuò, venendo insignito delle rispettive massime onorificenze. La Cina, oltre all’invasione giapponese, doveva nel contempo fronteggiare una grave crisi politica interna, sfociata nel marzo del 1940 nella creazione di un governo collaborazionista filo–nipponico da parte di Wang Jing Wei, antico sodale di Sun Yat Sen, il leggendario fondatore della Repubblica, e  il cui governo sarà riconosciuto in dicembre dal Giappone e nel luglio 1941 da Germania e Italia: la decisione determinò la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche con Chiang Kai shek, che provvide a richiamare il proprio rappresentante da Roma, e il “riaccreditamento” del nostro ambasciatore presso Wang Jingwei, che aveva posto la sede dell’esecutivo a Nanchino. La cerimonia formale, che Taliani avrebbe voluto officiare al più presto per riuscire ad ottenere una posizione maggior prestigio, avvenne sei mesi dopo per consentire l’arrivo di un diplomatico tedesco che assumesse la rappresentanza di Berlino.  Il nostro ambasciatore avvierà relazioni alquanto cordiali con il governo di Wang e chiese al nostro Ministero degli Affari Esteri di voler agire sul governo giapponese affinchè allentasse il controllo esercitato sul suo governo in modo da consentirgli una certa autonomia decisionale e un recupero di consensi fra la popolazione, piagata da angherie e vessazioni.  All’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, l’8 dicembre 1941, anche il nostro Paese, legato a Tokyo dal Patto Tripartito, dichiarava guerra agli Stati Uniti d’America.  Pur  confuso fra i titanici avvenimenti bellici che segnavano l’Estremo Oriente, il 1943 sarà un anno di svolta nella storia della Cina (sia pur in quel momento rappresentata da Nanchino)  e delle relazioni diplomatiche con l’Italia: con l’ingresso del governo “collaborazionista”  in guerra a fianco del Giappone e dei suoi alleati, il 9 gennaio 1943  Tokyo  – per evidenti motivi di propaganda – comunicava lo stesso giorno a Wang  Jing wei di voler procedere rapidamente alla retrocessione delle proprie concessioni territoriali con tutto il loro corredo di diritti e di privilegi legati all’extraterritorialità. Immediata fu la replica della Gran Bretagna e degli Stati Uniti che assumevano la medesima determinazione nei confronti del governo nazionalista di Chiang Kai shek. Il Regno d’Italia si era impegnato anch’esso a retrocedere le proprie concessioni fin dalla stipula nel 1928 del trattato commerciale con la Cina, ma ne aveva subordinato l’effettiva attuazione ad una pari decisione da parte delle nove Potenze firmatarie del “Trattato della Porta Aperta” nel corso della Conferenza internazionale di Washington del 1922.

 

Taliani si associava alla mossa di Tokyo, ma rappresentava al governo di Nanchino la necessità di avviare un percorso graduale che prevedesse la nomina di una commissione mista italo-cinese per definire la riconsegna della Concessione di Tien Tsin e la creazione di un comitato tecnico, con la presenza di delegati italiani, per discutere l’abolizione dei diritti legati alla extraterritorialità. Il 29 marzo 1943 ebbe luogo così la firma di una serie di accordi italo-cinesi che contemplavano la rinuncia ai diritti amministrativi nel Quartiere delle Legazioni a Pechino e il 23 giugno quella delle Concessioni di Tien Tsin e di Shangai col diritto di mantenervi guarnigioni militari. L’armistizio del settembre 1943 con la nascita della “Repubblica sociale italiana” contrapposta al Regno darà vita a un ultimo capitolo quanto mai peculiare delle nostre relazioni diplomatiche italiane con la Cina. L’importanza del tema è stata sottolineata dalla pubblicazione nel 2013 di uno specifico numero della rivista STORIA E DIPLOMAZIA. RASSEGNA DELL’ARCHIVIO STORICO DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, 16; vi è al suo interno una prefazione di Massimo de Leonardis, l’inventario delle Rappresentanze diplomatiche e consolari d’Italia a Pechino (1870-1952) a cura di Federica Ornelli ed un contributo scientifico del prof. Guido Samarani, docente di “Storia della Cina e Storia e Istituzioni dell’Asia Orientale” presso l’Università Cà Foscari di Venezia: vi si trattano le vicende vissute dai rappresentanti diplomatici italiani, assieme a quelle dei nostri connazionali colà residenti, dal 1940 al 1946 e ne ricostruisce aspetti poco noti sulla base della copiosa documentazione archivistica elencata..  L’annuncio, l’8 settembre 1943, dell’avvenuto armistizio fra l’Italia e gli Alleati mutava profondamente la situazione: le truppe nipponiche occuparono immediatamente la Concessione di Tien Tsin, poi posta sotto l’amministrazione cinese di Nanchino, e la sede dell’ambasciata a Shangai: Taliani col personale diplomatico veniva posto agli arresti e poi trasferito in un campo di concentramento alla periferia della grande città fluviale.  Stessa sorte subirono i nostri connazionali in Cina: quelli residenti a Pechino, Tien Tsin e nelle regioni settentrionali furono internati nel campo di Weixian (provincia dello Shantung), mentre quelli residenti a Shangai furono rinchiusi nel campo di Kiangwan a nord della città. Una parte degli equipaggi delle unità della Regia Marina, la “Lepanto” e la “Carlotto”, ancorate a Shangai e delle quali era stato ordinato dal governo di Roma l’autoaffondamento, decise invece di collaborare con le Autorità militari giapponesi innescando non pochi problemi.

 

L’appena costituita Repubblica Sociale Italiana fu subito riconosciuta dal Giappone il 27 settembre, dal Manciukuò il 9 ottobre e dal governo di Nanchino in dicembre: se i loro diplomatici, spostatisi da Roma a Venezia, poterono quasi subito presentare le proprie credenziali e riprendere le funzioni istituzionali, alquanto ardua fu l’ufficializzazione dei rappresentanti della Rsi in Estremo Oriente.  L’addetto militare alla Regia Ambasciata italiana in Cina, col. Omar Principini, fu condotto a Tokyo e colà, su incarico del Sottosegretario agli Esteri della RSI, Mazzolini, occupò la nostra sede diplomatica con la qualifica di “Incaricato d’Affari ad interim” assieme a una mezza dozzina di impiegati, guidati dall’addetto stampa. L’ambasciatore Mario Indelli e tutto il rimanente personale, rimasti fedeli al Re, erano stati internati e subiranno non pochi maltrattamenti negli anni di prigionia. E’ illuminante sulla situazione in Estremo Oriente una nota di Filippo Anfuso, il solo dei Capi missione ad aver aderito alla Rsi (era titolare dal 1942 della Legazione italiana in Ungheria): nominato ambasciatore a Berlino, il diplomatico (che aveva una certa conoscenza del Paese per essere subentrato a Ciano in Cina nel 1932 quale Incaricato d’affari) nell’ottobre 1943 rappresentava al nuovo governo repubblicano che “…Dalle informazioni pervenute a questo Dipartimento di Stato sulla situazione dei nostri rappresentanti in estremo oriente risulta che sia le Autorità Giapponesi che quelle cinesi nonché Manciukuò ( evidentemente su direttive delle prime) procedono con studiata lentezza nell’autorizzare i nostri funzionari dichiaratisi fedeli al Governo repubblicano fascista con un piano inteso a intralciare per quanto è possibile la protezione dei nostri interessi e dei nostri connazionali colà” 17 :  più d’uno infatti saranno  gli ostacoli formali frapposti dai nipponici e dai “satelliti” cinesi e mancesi perché si riprendesse un minimo di attività diplomatica in nome dell’Italia. Anche Samarani nel suo saggio rileva come: “Un elemento appare comunque chiaro: le autorità giapponesi, direttamente o attraverso il governo collaborazionista di Nanchino, cercarono di ritardare in ogni modo la riapertura degli uffici diplomatico-consolari italiani e sollevarono varie riserve e dubbi sulla fedeltà di numerosi membri della comunità italiana che pure avevano aderito alla RSI e che non erano stati internati”. Lo storico cita a titolo di esempio il caso del Consigliere d’Ambasciata Carlo Alberto Straneo, che pur avendo aderito al nuovo governo fascista, sarà per un periodo internato alla pari di quasi tutto il restante personale diplomatico residente in Cina. Nelle more che si definissero i rapporti con la RSI i Giapponesi autorizzarono nella Cina settentrionale la nascita di “Comitati italiani di collegamento” – Italian Liaison Offices – per poter assicurare ai nostri connazionali le forniture di viveri e di generi di prima necessità. Il 1 giugno 1944 Pier Pasquale Spinelli, già Primo Segretario di Legazione di 1a classe in servizio alla nostra precedente sede diplomatica, veniva nominato “Incaricato d’Affari ad interim” e potè essere accreditato presso il governo di Nanchino: in luglio 1944 la RSI sottoscriveva un proprio accordo con il governo di Nanchino dallo stesso tono di quello siglato l’anno prima da Taliani per la retrocessione delle Concessioni italiane “sancendo così di fatto un rapporto politico ufficiale con la controparte cinese” 18. L’atto, registrato nella relazione della Direzione Generale degli Affari Politici del Ministero degli Affari Esteri della RSI, costituisce forse l’unico impegno rilevante della nuova rappresentanza italiana. Anche alla luce di questo accordo il 18 settembre Spinelli poteva riaprire ufficialmente l’ambasciata della RSI a Shangai nella sua sede storica, cui seguiva la riapertura del Consolato di Pechino, affidato a Straneo, di Shangai, retto dal Console generale Ferruccio Stefenelli, e di Hankou, assegnato al Console Giuseppe Brigidi, trasferito successivamente nella Cina settentrionale dove assunse la cura degli interessi italiani dell’aerea di Tianjin. Sarà proprio Brigidi a gestire le ultime attività della diplomazia facente capo alla Repubblica sociale, che necessariamente ebbe breve vita: nell’estate del 1945 le strutture saranno trasformate, almeno nella Cina settentrionale, in “Uffici italiani”, ai quali furono affiancati dei “Consigli consultivi di colonia”, da eleggersi a cura delle singole comunità, con il compito di garantire i collegamenti fra i rappresentanti delle stesse. Del tutto formale sarà l’esperienza della Rsi in Manciukuò: ad Hsinking, capitale dell’Impero, nel 1940 era giunto come Inviato straordinario e ministro plenipotenziario Luigi Neyrone, un esperto ed anziano funzionario che aveva assolto l’incarico di Console a Tien Tsin dal 1927 al 1932 e poi dal 1933 di Console generale a Shangai. Dopo l’armistizio aderì alla Repubblica sociale e cercò di riavviare le relazioni con le Autorità mancesi, incontrando le difficoltà prima indicate tanto che rassegnerà le dimissioni senza essere sostituito.  Con l’avanzata degli Alleati nel Pacifico il 17 maggio 1945 i Giapponesi notificavano a Brigidi la perdita dello status di Console, sostituita da quello di “Incaricato degli interessi italiani nel Nord Cina”, la cessazione dell’attività del tribunale consolare italiano e la decisione di chiudere l’ambasciata e i consolati italiani determinando così la “fine” della Repubblica sociale in Cina. Alle autorità nipponiche subentrava fra settembre e ottobre la Missione militare americana con a capo il magg. Kellis: sarà a lui che Brigidi indirizzerà la sua relazione del 31 agosto 1945 sulla situazione della comunità italiana nella Cina settentrionale, inviata parimenti poco dopo alla Regia Ambasciata d’Italia a Chungking. Nel novembre 1944 il Regno d’Italia aveva ripreso formalmente i contatti con quello nazionalista annunciando l’accreditamento di un suo nuovo rappresentante: per le evidenti difficoltà legate al conflitto, solo nel gennaio 1946 giungeva a Chungking quale Incaricato d’Affari Enrico Anzilotti, non volendo Chiang Kai shek ricevere Taliani, ritornato libero, per le sue precedenti prese di posizione filo- Nanchino. Il nuovo ambasciatore italiano, Sergio Fenoltea, scelto nel marzo sulla base di accordi politici fra i partiti italiani e mentre stava per celebrarsi in Italia il referendum Monarchia – Repubblica, giungerà a Shangai il 19 luglio e presenterà in ottobre a Chiang Kai shek le sue credenziali a nome non più di Umberto II ma di Enrico De Nicola, dal circa un mese Capo provvisorio della Repubblica italiana. Ma ebbe a verificarsi una incongruenza “diplomatica”: per la precarietà dei collegamenti e l’incertezza delle comunicazioni Brigidi continuerà a rappresentare la comunità italiana nel nord della Cina fino all’insediamento del Console Paolo Tallarigo alla fine del 1946 gestendo di fatto il passaggio dall’amministrazione giapponese a quello americana su richiesta di quest’ultima e alla quale furono consegnate le sedi diplomatiche italiane e Pechino e a Tianjin. Si concludeva così questa fase così peculiare della storia diplomatica dell’Italia.  È interessante notare come Spinelli rientrerà nella carriera diplomatica della Repubblica italiana e assumerà prestigiosi incarichi alla Farnesina e all’Onu, alla pari di Brigidi, riammesso nei ruoli del Corpo Consolare della Repubblica sì da ritrovarlo a Console generale a Zagabria dal 1946 al 1950. Il trattato di Parigi del 1947 sanciva formalmente la fine della presenza italiana con la retrocessione ufficiale della Concessione di Tien Tsin e di tutti gli altri privilegi.  Il tricolore riapparirà in Estremo Oriente solo nel 1954 quando l’incrociatore Montecuccoli, sopravvissuto alla II guerra mondiale, al comando del Capitano di Vascello Gino Birindelli 19 effettuerà una crociera per gli aspiranti Guardiamarina del 4° Corso della Accademia Navale di Livorno. Nel 1979 la nostra Marina Militare sarà impegnata nelle operazioni di salvataggio dei profughi in fuga dal Vietnam occupato dai comunisti. Solo di recente sono stati ufficializzati i viaggi di circumnavigazione delle navi militari, che finalmente ripercorrono le rotte del Magenta, Pisani, Calabria, Colleoni in comunione di ideali con gli uomini della Regia Marina che assieme ai Principi di Casa Savoia portarono con dignità e valore il nome della nuova Italia sui mari dell’Estremo Oriente.

 

note

  • L’Ordine della SS. Annunziata sarà conferito a undici principi della Famiglia imperiale giapponese, fra i quali i futuri imperatori Yoshi Hito e Hiro Hito – Elenco dei Cavalieri dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata 1362 -1962, Cascais, MCMLXII;
  • in C. Paoletti, La marina italiana in Estremo Oriente, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 2000, pag 20;
  • Salvago Raggi, Ambasciatore del Re, Firenze, 2011, pag. 132;
  • in C. Paoletti, op.cit ibidem, pag. 159;
  • Salvago Raggi, op.cit. pagg. 147-148;
  • Tosti, La spedizione italiana in Cina (1900-1902), Roma, 1926; saranno decorati di M.O.V.M. il S.T.V. Ermanno Carlotto (alla memoria), il T.V. Federico Paolini, il S.T.V. Angelo Olivieri e il S. Capo.T. Vincenzo Rossi (alla memoria);
  • Varè, Il diplomatico sorridente, Milano, 1940, pag. 105; ricordi del periodo “cinese” vi saranno anche nel suo ultimo volume La caduta dei Re, pubblicato nel 1950.
  • Brackman, L’ultimo imperatore, Cuneo, 1977;
  • MacMillan, Sei mesi che cambiarono il mondo. Parigi 1919, Milano, 2006, vol. II, pag.421;
  • E. La Fargue, Woodrow Wilson and the Far East, pag. 231;
  • Valenti, I quattro Conti, Trieste, 2011;
  • in C. Paoletti, op. cit., pag. 160;
  • Moccia La Cina di Ciano, Roma, 2014;
  • Taliani, È morto in Cina, Milano, 1949;
  • Catalano Gonzaga di Cirella, 1938-1940 Il Commodoro. L’incrociatore Colleoni in Estremo Oriente, Milano, 1998;
  • Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, STORIA E DIPLOMAZIA. RASSEGNA DELL’ARCHIVIO STORICO DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, anno I, n.2, dicembre 2013. La pubblicazione è stata considerata l’ideale completamento della mostra documentaria e bibliografica del patrimonio librario ed archivistico della Farnesina, realizzata nel novembre 2013, sul tema Lo sguardo italiano in Cina – Ottocento anni di racconti, testimonianze e studi italiani sul mondo e la società cinesi. Che si tratti di un periodo poco studiato ebbe a rilevarlo de Leonardis nella sua prefazione, laddove constatava che solo in occasione del Concorso diplomatico del 2005 la prova scritta di Storia delle relazioni internazionali – dal titolo LA PENETRAZIONE POLITICA, CULTURALE ED ECONOMICA DELL’ITALIA IN MEDIO ED ESTREMO ORIENTE FRA LE DUE GUERRE MONDIALI – andava a esaminare questo complesso periodo storico. Il docente doveva altresì rilevare al riguardo come l’“argomento suggestivo e perfettamente corretto” ebbe a suscitare “qualche ingiustificata reazione negativa perché apparve troppo difficile”, segno evidente della poca attenzione riservata allo stesso in sede ministeriale.
  • Conciatori Mauro, 1943. La diplomazia italiana dopo l’8 settembre 1943, in Storia delle Relazioni Internazionali, Anno VI, 1990/92, pag. 199-223;
  • Viganò, Il Ministero degli Affari Esteri e le relazioni internazionali della Repubblica Sociale Italiana, Milano, 1991
  • BIRINDELLI, Vita da marinaio, Bocca del Serchio, 2021;

 

 

 

 

 

Caserma Carlotto della Regia Marina