ALESSIA BIASIOLO. L’Italia alla Caduta di Mussolini

  

L’Italia alla caduta di Mussolini

Durante l’estate, la famiglia Mussolini si recava in vacanza a Riccione, in quella che ancora oggi si chiama Villa Mussolini.

La casa era stata edificata a poca distanza dal mare nel 1892 per la marchesa Eugenia Beccadelli in Grimaldi, una “forestiera” tra le poche che avevano deciso di abitare, almeno d’estate, in Romagna. L’edificio era semplice, a due piani, con una torretta verso l’ingresso principale: praticamente il tipico villino riccionese di fine Ottocento.

Divenne poi Villa Monti, quando il ferrarese Giulio Monti l’acquistò; quindi passò di mano ancora, divenendo proprietà del conte Angeletti di Bologna che, a sua volta, la vendette a Giulia Galli Bernabei e questa la cedette verso il 1934 a Rachele Guidi, la moglie di Benito Mussolini. Abile affarista immobiliare, donna Rachele e il marito fecero ristrutturare la villetta verso il 1940, ampliandola e annettendovi i terreni vicini e la strada, quella che oggi è Via Milano.

Sostanzialmente la villa era autonoma, protetta da un alto muro e con un grande patio, il campo da tennis e un bel giardino sul mare. Gli alloggi per i figli e le strutture di rappresentanza erano garantiti, perché d’estate arrivavano a Riccione, in visita al Capo del governo, varie personalità politiche, dello spettacolo, sportive, sia italiane che straniere. Mussolini arrivava anche in idrovolante Savoia Marchetti in quella bella casa che fu volano per l’immobiliare della zona, dato che molti decisero di acquistare o fare costruire case lungomare ad imitazione del Duce.

Tutto durò fino all’estate del 1943, quando ai primi di agosto la famiglia Mussolini lasciò Riccione, ponendo fine ad un lungo legame della cittadina con il Duce. Infatti, una volta nominato al governo, tra i primi atti firmati da Mussolini ci fu la separazione di Riccione da Rimini, un Regio Decreto firmato dal Re e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 17 novembre 1922.

Eletto il primo sindaco di Riccione nell’ottobre 1923, venne conferita a Mussolini la cittadinanza onoraria della cittadina.

La famiglia Mussolini aveva trascorso le vacanze estive del 1924 e del 1925 a Cattolica, per poi andare a Riccione a partire dalle vacanze del 1926. Dapprima ospiti del conte Terzi all’Hotel des Bains, andarono poi all’Hotel Al Lido; nel 1933 furono all’Hotel Milano Helvetia, diretto da un ex commilitone di Mussolini durante la prima guerra mondiale. L’acquisto di una casa al mare era diventato quasi indispensabile per donna Rachele, che ottenne quella villetta che le piaceva già da tempo. L’atto venne firmato il 2 luglio 1934 in cambio di 170mila lire, soldi che Mussolini aveva ricevuto dalla rivista statunitense Fortune che gli aveva pagato 400mila lire. Il restante denaro venne devoluto all’Opera Nazionale Balilla.

Approfittando della vicinanza del Duce al mare dov’era solito fare il bagno, la gente voleva avvicinarglisi, quindi era indispensabile garantirne la sicurezza con 150 elementi fissi che potevano raddoppiare in caso di necessità. Egli imponeva la scorta anche in spiaggia sia ai figli (una persona ciascuno), che alla moglie (due persone).

Lungo la costa romagnola vennero anche costruite le colonie estive elioterapiche per i bambini e nel 1939 venne ideato dal fratello di Benito, Vittorio, il Premio Riccione per il Teatro.

Le “vacanze riccionesi” s’interruppero i primi d’agosto del 1943, dopo che Benito Mussolini, destituito dalla sua carica politica dal Gran Consiglio il 25 luglio, era stato arrestato e il fascismo era stato messo fuori legge. Rachele Mussolini e i figli lasciarono Riccione in auto diretti a Rocca delle Caminate. La villa di Riccione rimase di proprietà della famiglia Mussolini in quanto intestata alla moglie; nel 1946 il Tribunale di Roma la confiscò in parte, con assegnazione al Demanio e poi al Comune di Riccione che decise per il ripristino di Via Milano con abbattimento del patio e di altri annessi. Il corpo centrale della Villa, tuttavia, non essendo intestato a Mussolini, fu venduto nel 1952 e, dopo varie vicende, diventò parte della Fondazione Carim che nel 2005 firmò con il Comune una convenzione per l’utilizzo pubblico per eventi e mostre di prestigio.

Tornando a quell’estate del 1943 infausta per le vacanze della famiglia Mussolini, è interessante utilizzare le note date della biografia del Duce italiano per ricostruire la situazione sociale del Paese, anche alla luce di quell’antifascismo che proprio in quei giorni poteva mettersi in luce, dopo anni di lavoro nascosto, tra arresti, confini ed esili, ma anche molta lotta clandestina.

Si è soliti ricordare i fatti italiani a partire dall’8 settembre, ma in questa sede andiamo ad aprire una parentesi su quanto accadde proprio in Emilia Romagna all’indomani del 25 luglio 1943, quando cominciò a circolare la notizia della deposizione e arresto di Mussolini, mentre la sua famiglia, tra mancanza di notizie e preoccupazione, decideva di tornare alla villa di abitazione.

L’annuncio delle dimissioni di Mussolini venne dato al popolo italiano a mezzo radio alle ore 22.45 dello stesso 25 luglio. L’indomani le dimostrazioni di giubilo della popolazione, in tutto il Paese, non si fecero attendere, con cortei festanti, assalto ai simboli fascisti nelle vie e nelle piazze che venivano abbattuti e distrutti, in modo particolare il fascio littorio oppure i busti di Mussolini in metallo che venivano attaccati alle automobili scorazzanti per le vie, i cori che cantavano Bandiera rossa un po’ ovunque, come modo per scrollarsi di dosso un recentissimo passato che aveva gravato sui più come un fardello.

I ritratti di Mussolini venivano portati fuori dalle case e dagli uffici e bruciati, mentre molte persone prendevano d’assalto gli uffici pubblici per cercare e distruggere le documentazioni del regime che avevano o avrebbero portato ad arresti di presunti nemici del regime stesso. Nel frattempo miliziani e fascisti in giro non se ne vedevano facilmente, mentre una certa preoccupazione, nella felicità generale per quella che si vedeva come l’imminente uscita dalla guerra, la si aveva per i prigionieri politici che si chiedeva a gran voce di liberare subito dalle carceri.

Intanto il governo Badoglio sembrava dovesse salvare la monarchia dalla caduta del fascismo, cercare di mantenere vivo il consenso per ostacolare volontà repubblicane e tessere una rete di accordi con gli Alleati che erano già sbarcati in Italia.

Era indispensabile cambiare, ma mantenendo in piedi quell’apparato organizzativo e burocratico che poteva essere ancora utile e che, in certi uffici, era indispensabile per il proseguire delle attività quotidiane.

In quelle ore convulse, malgrado apparentemente normali (von Rintelen, addetto militare all’ambasciata tedesca di Roma, era ad una festa al lago di Bolsena; Dollmann non aveva avuto notizie dell’accaduto né da Buffarini Guidi né da Farinacci, e nulla seppe dell’esito della riunione notturna del Gran Consiglio fino alla tarda mattinata del 25 luglio), molti gerarchi fascisti si presentarono all’ambasciata tedesca per chiedere aiuto per fuggire in Germania, mentre le manovre di Badoglio dovevano servire a neutralizzare la reazione tedesca (che invece si preparò e affinò in oltre un mese di tempo) e a cercare di trattare con gli Alleati una uscita dalla guerra che, intanto, per i continui tentennamenti o per le ipotetiche strategie che non sortirono gli effetti sperati, metteva sotto continui e pesanti bombardamenti la nazione.

Il cambiamento sperato non si realizzò, infatti, perché la guerra continuava, la libertà di stampa era comunque vietata e non ci si poteva riunire in associazioni ancora.

Carmine Senise, capo della Polizia, decretò l’arresto di quei facinorosi fascisti che potevano creare problemi, ma invitò anche i prefetti ad applicare i piani di ordine pubblico con il passaggio dei poteri di polizia all’autorità militare. Parecchia attenzione veniva posta alle fabbriche affinché non ci fossero al loro interno organizzazioni antifasciste pronte a lasciare il lavoro per iniziare delle dimostrazioni.

Nel frattempo Badoglio, in un proclama ai cittadini di immediata divulgazione da parte dei prefetti, vieta assembramenti e dimostrazioni (“L’ora grave che volge impone ad ognuno serietà, disciplina, patriottismo fatto di dedizione ai supremi interessi della Nazione”), così come non ci sono provvedimenti né in favore della libertà di stampa, né tanto meno per la liberazione dei detenuti politici e degli ebrei, che rimarranno agli arresti o internati, anche se viene disposto di preparare gli elenchi di tutti i condannati o di coloro in attesa di giudizio per la proposta di grazia da parte del Re, esclusi i comunisti e gli anarchici. Certo, era difficile pensare di condonare qualcosa a qualcuno che non aveva commesso reati, in ogni caso in primo piano non c’era solo l’esigenza di garantire le libertà democratiche che la popolazione tanto attendeva, ma anche quella di non irritare l’alleato tedesco, soprattutto per quanto riguardava l’internamento degli ebrei nei campi di raccolta.

Il Partito Nazionale Fascista e tutte le organizzazioni da esso dipendenti vennero sciolti; la Milizia venne integrata nelle forze del Regno; il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato venne soppresso. Il 27 luglio il Consiglio dei Ministri vietò la ricostituzione di partiti politici fino alla fine della guerra; per questo motivo nacquero Comitati che potessero dare organizzazione e dignità alle azioni che venivano organizzate spontaneamente da quegli antifascisti che avevano per anni agito nell’ombra, mantenendo fede alle proprie convinzioni. Cominciano ad essere liberati socialisti e antifascisti, mentre per i comunisti soltanto le forti pressioni ottengono la scarcerazione alla fine del mese di agosto e verso i primi di settembre, poco prima del fatidico giorno 8.

La situazione che si festeggiava come migliorata al 25 luglio, inizia a diventare nefasta pochi giorni dopo. Nella stessa Emilia mussoliniana, un reparto di bersaglieri con funzioni di polizia spara nel cortile delle “Officine Meccaniche Italiane Reggiane” uccidendo nove operai (Nello Ferretti, Osvaldo Notari, Domenica Secchi, Gino Menozzi, Eugenio Fava, Vincenzo Belocchi, Antonio Artioli, Angelo Tanzi, Armando Grisendi) e ferendone venticinque (alcune fonti parlano di almeno una cinquantina di feriti), all’inizio di quella che sembrava volesse diventare una dimostrazione che avrebbe travolto i soldati stessi.

La questione delle fabbriche era davvero difficile, perché lo sforzo bellico richiedeva produzioni continue e costanti. Fino allo sbarco degli Alleati in Sicilia, il comportamento tedesco era stato comprensivo e rassicurante nei confronti degli italiani, ma volto a ridurre le forniture di materie prime belliche, oltre e soprattutto alla chiara resistenza, di fronte alle pressanti richieste italiane, di fare tornare nel Regno i lavoratori italiani impegnati nelle industrie strategiche d’Oltralpe, oltre che dinanzi alle richieste di ridurre i contingenti nazionali sui fronti greco, jugoslavo e russo.

Nel maggio 1943, Speer fu chiaro (con idee condivise da Hitler stesso): il rientro dei lavoratori italiani avrebbe causato una notevole diminuzione della produzione tedesca, pregiudicando i bisogni dell’Asse, in quanto mentre gli operai italiani lavoravano e producevano attivamente, rientrando in Italia avrebbero perso del tempo per ambientarsi, riprendere il loro ruolo lavorativo e, soprattutto, posto che le fabbriche non fossero state distrutte dai continui bombardamenti, potevano trovarsi privi di materie prime da lavorare, quindi diventando inutili anche per lunghi periodi.

Dopo il 25 luglio 1943, in Italia da un lato si hanno fascisti intenzionati ad organizzarsi per una sorta di riscossa, dall’altra gli antifascisti reclamano la mancanza di libertà democratiche, se non promesse di certo attese da tutti, ed a loro volta si organizzano a partire dai primi giorni di agosto. Primariamente gli operai si astengono dal lavoro, in uno sciopero bianco che comincia a dilagare in vari stabilimenti per protestare contro la prosecuzione della guerra, ma anche come segno di approvazione per il licenziamento, in alcuni stabilimenti, di operai fascisti.

Un altro metodo di protesta e di manifestazione della volontà popolare era la ripresa stampa di volantini che inneggiavano alla fine della guerra principalmente; alcuni erano rivolti anche ai tedeschi, affinché non si ponessero d’ostacolo per la libertà del popolo italiano. Gli alleati tedeschi avevano già iniziato a trattare gli italiani, in molte caserme, come subalterni, dando ordini dall’alto dei loro pesanti armamenti e con divisioni corazzate che già andavano a debitamente dislocarsi per il Paese.

Naturalmente le azioni antifasciste e a favore della fine della guerra non rimasero senza conseguenze. Se già dal primo di agosto i giornali uscirono in edicola con ampi spazi bianchi per l’azione della censura, e i cinema vennero fatti chiudere con largo anticipo sull’orario solito; se chi circolava in bicicletta doveva stare attento a non ritrovarsi in assembramento con altre due persone e se si pensava di insultare le istituzioni si poteva essere passati per le armi; se le finestre dovevano essere assolutamente chiuse di sera per lo stato d’assedio, malgrado le temperature intorno ai 37 gradi e un’afa insopportabile, il 20 agosto venne revocata l’assegnazione all’industria di trentaquattro operai delle “Officine Reggiane”, così che fossero richiamati alle armi, per avere interrotto il lavoro di fabbrica. Accanto agli operai vennero arrestati anche dei contadini per aver scioperato.

La rete propagandistica era tenuta insieme prevalentemente dal Partito Comunista che cercava di ricomporre la rete organizzativa, pur se i volantini che andavano diffondendosi erano firmati anche dalla Democrazia cristiana, dal Partito d’azione, dal Partito Socialista e da altri.

La delusione degli italiani per quello stato di cose fu molta, mentre le incursioni aeree degli Alleati non smettevano e le razioni alimentari non bastavano, la guerra proseguiva e il governo Badoglio non era quella speranza attualizzatasi che tutti credevano all’indomani del 25 luglio.

Un altro momento di sollievo lo si ebbe all’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre quando “Finalmente ha avuto termine la lunga e dolorosa parentesi fascista”, ma contestualmente venivano arrestati i membri del partito o esponenti collusi e i tedeschi occupavano gli uffici anche nella regione, dove Bologna e Reggio Emilia furono (così come Roma, Milano e altre) occupate dalle truppe tedesche.

Eppure è possibile che tutto sia accaduto improvvisamente nel luglio di ottant’anni fa?

Da tempo il re Vittorio Emanuele III voleva sganciarsi dal fascismo per salvare la monarchia (sosteneva di regnare e non di governare, infatti: “Gli italiani mi potranno incolpare di tutto, tranne di essere stato un re non costituzionale. Non sono mai venuto meno ai miei doveri e non ho mai oltrepassato le mie prerogative”).

Tuttavia la situazione era particolarmente tesa e difficile e, se Mussolini aveva affermato di volersi staccare dalla Germania, il Re era consapevole sia della difficoltà che quello si realizzasse, sia delle forti correnti anti-monarchiche che serpeggiavano per il Paese, sia che “da un momento all’altro il governo inglese o il Re d’Inghilterra si rivolgano a me direttamente per trattare una pace separata. La cosa mi metterebbe in grave imbarazzo. Se questo dovesse avvenire agirei senza sotterfugi, ne parlerei con il Duce per essere d’accordo sulla linea da seguire[1], come riportò nel suo diario il primo aiutante di campo Puntoni il 19 maggio 1943.

Proprio Puntoni annota ancora che il Re non si perdeva nulla di quanto andava accadendo: i pesanti bombardamenti sull’Italia che non venivano più respinti dalla contraerea, la richiesta tacita da parte dei sudditi di una sua decisione che non poteva prendere per motivi politici e di convenienza, data la forte presenza di truppe tedesche in Italia; la pressione anti-monarchica da più parti avanzata e la protesta che non taceva più. Fino ai primi di luglio 1943, tuttavia, sembra che il Re volesse ancora appoggiare l’azione di Mussolini, pur se in effetti nemmeno i suoi più vicini collaboratori sapevano o potevano intuire ciò che aveva in testa.

Il mistero svanirà un poco al rientro del Re da San Rossore avvenuto il 30 giugno per la richiesta di udienza avanzata dal generale Ambrosio per il 6 di luglio. Sarà l’occasione per Vittorio Emanuele III per parlare a Puntoni dell’azione messa in atto dal Capo di Stato maggiore generale per arrivare alla sostituzione di Mussolini con una dittatura militare a capo di Badoglio o di Caviglia. Il Re pensa ancora prematura quell’azione e discute dei caratteri dei due prescelti: Caviglia, secondo lui, avrebbe avvicinato troppo il Regno agli angloamericani, mentre Badoglio aveva un pessimo carattere, ma un discreto seguito tra le masse.

Secondo il Re doveva attuarsi non l’abbattimento del regime fascista, ma un suo cambiamento di rotta, sostituendo quegli aspetti che negli anni si erano rivelati negativi per far sì che il cambiamento politico fosse cauto e graduale. Nessuna decisione venne presa il 6 luglio, quindi, e il Re tornò a San Rossore, forse per evitare di ricevere Badoglio che gli aveva chiesto udienza proprio a seguito del suo prendere ancora tempo con il generale Ambrosio.

L’udienza venne posta il 15 luglio, quando ormai gli Alleati erano già sbarcati in Sicilia e quando sembrava che il tempo fosse finito per continuare a tentennare. Se il Re sembrava aver messo da parte ogni nome, anche dell’opposizione che aveva ricevuto fino a giugno, in favore di Badoglio, la decisione forse vera e propria di destituzione di Mussolini venne presa dal Re dopo il bombardamento su Roma e al ritorno dello stesso Mussolini dall’incontro con Hitler avvenuto a Feltre.

A proposito di quanto si sono detti Vittorio Emanuele III e Mussolini nel loro incontro, le versioni sono duplici: il Re ammise di avere fatto chiaramente capire al Duce che era proprio la sua persona ad essere di troppo, mentre Mussolini sostenne che il Re gli avesse detto di porre la questione ai tedeschi, data la gravità dell’ora per l’Italia.

Altro dato interessante furono le notizie, ricevute dal Re il 17 e il 18 luglio, delle presunte trattative di Farinacci con i tedeschi per mettere da parte il Re stesso e Mussolini così passando i poteri italiani a Kesserling, mentre altri cercavano contatti con gli Alleati per sondarne le disponibilità ad una pace separata.

Proprio Badoglio, forse senza rendersene conto, si lascerà scappare nell’ottobre 1943 che Mussolini era andato a Feltre per dire a Hitler che la situazione italiana era disperata e che voleva chiedere l’armistizio, ma intimorito dall’alleato che non gli lasciava molto spazio di parola, non si era espresso, presenti sia il generale Ambrosio che il ministro degli Esteri Bastianini.

Per quel motivo, tornato a Roma, aveva rassicurato il Re che, in ogni caso, entro il 15 settembre si sarebbe sganciato da Hitler. Episodi che ognuno aveva cercato di dimenticare, forse per la gravità delle decisioni, o forse a seguito del disastro che accadde a seguire. I fatti comunque avevano preso il sopravvento e deciso per gli indecisi: dinanzi alla scelta del Gran Consiglio del Fascismo di deporre Mussolini, il Re non poteva farsi scavalcare addirittura dai fascisti, quindi decise per l’arresto e la sostituzione del Capo del governo.

 

Alessia Biasiolo, CESVAM

Vicepresidente della Federazione di Ancona

[1] Renzo De Felice: “Mussolini e il fascismo. Crisi e agonia del regime”, vol. 7, Einaudi 2019 pag. 1176-1183