L’istituzione della Regia Guardia per la Pubblica Sicurezza, nel 1920, per volontà di Francesco Saverio Nitti (erede delle scelte del predecessore Vittorio Emanuele Orlando, che già aveva assegnato a Camillo Corradini il compito di insediare una Commissione in grado di modificare la Pubblica Sicurezza), aveva obbedito alla necessità di creare una forza armata non rispondente al Ministero della Guerra, ma al Ministero dell’Interno, in modo che fosse una polizia ampia e moderna, al passo con i tempi, dipendente dall’autorità civile1. L’organizzazione era di tipo militare, con un organico quattro volte più ampio rispetto al precedente e possibilità di accesso all’arruolamento facilitate, con avanzamenti di carriera più rapidi, stipendi più alti rispetto agli altri corpi armati e la difesa dello Stato liberale più attiva, in un momento di profonda crisi sociale come quello dell’immediato primo dopoguerra, già sfociato nel tristemente famoso biennio rosso.
La Regia Guardia verrà subito sciolta, dopo soli tre anni di attività, dal governo Mussolini non appena insediatosi; sarebbe stata sostituita dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
L’istituzione di una nuova Polizia si era resa necessaria perché l’uso di adoperare i soldati per controlli di ordine pubblico era diventato difficile: le sorti della guerra, pur vinta dall’Italia, avevano minato la fiducia nello Stato, e quindi nei suoi rappresentanti, tanto che spesso, date le manifestazioni e le proteste dei sudditi, si vedevano i militari solidarizzare con loro, rendendo vana quindi la stessa azione di controllo. Il governo, inoltre, non riponeva più molta fiducia nei militari, in quanto tra i ranghi ufficiali c’erano molti rivoluzionari, e il timore di colpi di Stato erano sempre in primo piano nelle preoccupazioni dell’Interno.
Per quanto riguarda l’altra Forza Armata deputata all’attività di polizia militare, svolta dall’Arma dei Carabinieri, risultava priva della fiducia degli italiani, in quanto era stata vista come un’accolita di militari imboscati che, durante la guerra non aveva svolto altro che attività di polizia di controllo e caccia degli imboscati e dei disertori, rendendo invisa ai più la divisa stessa. Prova ne sia che i bandi di arruolamento del dopoguerra andavano praticamente deserti.
Era necessario non solo ritornare alla fiducia nell’attività dello Stato, ma anche arginare i fenomeni sempre meno controllabili di rivolte, scioperi e disturbi dell’ordine pubblico da parte di persone di fiducia e non, pronte a connivenze con i facinorosi.
Questo aspetto divenne quanto mai importante con gli squadristi, proprio quelle squadre formate prevalentemente da ex militari da poco tornati dal fronte, e altri desiderosi di disturbo che avevano preso a scorazzare per le campagne e le città, alla ricerca di quell’ordine e di quel menar le mani che non sembrava ricostituito dopo il conflitto appena trascorso e che non aveva, con le risoluzioni prese in favore dell’Italia, soddisfatto giovani che si ritrovavano deprecati, quasi fossero stati la causa del disfacimento sociale generale.
Peraltro la Pubblica Sicurezza era già garantita dalle Guardie di Città che, come per i carabinieri, non godevano del rispetto generale, né della popolazione, né degli esponenti del Regno.
Pericolosamente, poi, anche le forze già esistenti di Pubblica Sicurezza si stavano orientando verso quella sinistra che sembrava avere il vero controllo politico del Regno, con divulgazione di giornali e di proclami socialisteggianti, incitazione alla lotta e alla rivoluzione, organizzazione di scioperi per ottenere aumenti di stipendi, l’assegnazione delle terre (annoso problema che dovrà aspettare un’altra guerra mondiale per essere risolto) e miglioramenti di trattamento e di carriera. Anche la polizia esistente, pertanto, non poteva considerarsi affidabile nell’intento di arginare quella deriva socialista che guardava ai fatti che si andavano aggravando in Russia, dove la guerra civile dimostrava come la mancanza di controllo poteva diventare ancora guerra e sovvertimento di tutta la vita com’era costituita.
A quel punto della situazione, non restava al governo liberale che chiedere, com’era d’uso, aiuto alla “parte sana” della popolazione, aiuto volontario per il controllo della protesta. Ma quale poteva essere, in quei momenti, la parte sana della popolazione, rimasta liberale? E come si poteva scegliere tra i volontari ex combattenti, i volontari futuristi, i volontari dei Fasci di Combattimento che si erano costituiti nel marzo 1919, in un 1919 denso di fenomeni rivoltosi, in un’Italia scontenta?
Diventava difficile, perché ogni ardito poteva scontrarsi con le forze dell’ordine non rispettandone la divisa, mentre i regi poliziotti non volevano compiti di normale amministrazione, ma incarichi di tipo militare, come ci si era abituati durante la guerra a preferire la militarizzazione e l’uso della violenza. Questa era dilagata in ogni ambito civile e per lo Stato liberale fidarsi di qualcuno era sempre più difficile, a difesa della liberalità stessa. L’impiego divenne pertanto soprattutto in chiave anticomunista, antibolscevico come si diceva citando sempre la paurosa rivoluzione russa, che costituiva uno spauracchio non tanto millantato quanto tangibile per tutti coloro che temevano di perdere i proprio averi e, allo stesso tempo, era un miraggio per coloro che auspicavano la collettivizzazione, un benessere diffuso, un miglioramento della vita miserabile che i più spesso conducevano. Inoltre, alla novella Polizia veniva data un’autonomia impensabile in altri casi, come per i commissariati, per ogni aspetto dell’attività organizzativa.
Il comando veniva affidato ad un comandante di Corpo d’Armata che agiva in modo altrettanto autonomo rispetto al potere centrale, generando anche nella singola guardia la certezza di poter agire secondo un ampio potere di discrezionalità, in linea con lo stesso criterio di arruolamento che dava ampi spazi di libertà rispetto a quello degli altri Corpi.
Interessante però sottolineare che, dato che molti militari erano stati smobilitati, con il dilagare della disoccupazione durante il biennio rosso, molti ex militari erano stati portati ad arruolarsi nella Regia Guardia, ottenendo migliori condizioni di trattamento, più possibilità di carriera ma, soprattutto, assicurando il governo sull’affidabilità del personale arruolato, già fedele alla Patria e all’obbedienza (veniva riconosciuto anche l’uso delle stellette a cinque punte sul colletto delle uniformi, sottolineando l’appartenenza e la disciplina militare).
In alcuni casi, tuttavia, non venne attuata un’adeguata selezione (sia fisica che di capacità oggettive e di preparazione al lavoro da svolgere)2 e spesso c’era discrezionalità di arruolamento da parte del superiore, con scarso controllo della disciplina, più votata allo sparare che ad intervenire diversamente.
Gli incarichi non venivano dati per forza nella propria regione, creando dei pregiudizi da parte dei cittadini nei confronti delle guardie provenienti da altre parti del Regno, e diffondendo l’idea di personaggi che si comportavano, o si dovevano comportare, soltanto come degli odiati sbirri di antica memoria.
Il Corpo aveva la propria bandiera e la propria banda, reparti armati e a cavallo. Si componeva del Comando e di sette Legioni dislocate a Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia a loro volta divise in divisioni, battaglioni, compagnie, squadroni, tenenze, plotoni e stazioni. Le divisioni erano presenti a Brescia e ad Ancona, ad esempio.
Il 13 giugno 1921 vennero ribaditi gli ambiti di intervento della Regia Guardia che prevedevano, oltre alla tutela dell’ordine pubblico, lavoro di polizia giudiziaria, amministrativa e di pubblica sicurezza; l’arresto di renitenti alla leva o disertori; l’arresto di criminali comuni e la sorveglianza del territorio, comprese le fabbriche e i depositi d’armi; il pattugliamento di porti e zone marittime; la sorveglianza sui teatri e sui locali pubblici anche dove si svolgevano spettacoli.
Rimaneva espressamente adoperata in chiave antirivoluzionaria e, pertanto, antisommossa; in caso di guerra, era prevista la partecipazione alla difesa dello Stato. Appositi agenti si sarebbero occupati delle attività d’investigazione. La struttura rimaneva di stampo militare.
Il caso dell’impiego come antisommossa fu evidente ad Ancona, il 26 giugno 1920, quando l’11° Reggimento Bersaglieri era in partenza per l’Albania. Un reparto si ribellò3 riuscendo ad asserragliarsi nella Caserma Villarej, appropriandosi di corazzati con i quali uscì ottenendo l’appoggio di rivoltosi cittadini. Gli scontri a fuoco con le guardie regie e i carabinieri presenti in città durarono tre giorni, mentre arrivavano rinforzi da Roma, costretti ad asserragliarsi in stazione, in mano ai rivoltosi protetti anche da mitragliatrici.
A quel punto, fu possibile organizzare il contrattacco, con la copertura di una torpediniera della Marina Militare e l’ausilio delle linee telefoniche che permisero l’organizzazione migliore. Era indispensabile riprendere il controllo della stazione ferroviaria e dei quartieri popolari, come brillantemente avvenne.
Per i fatti di Ancona vennero assegnate alle guardie regie una Medaglia d’Argento al Valor Militare al tenente Umberto Rolli e di Bronzo al tenente Ernesto Paglione; una Medaglia di Bronzo al Valor Militare anche ad Antonino Bellitto, Giacomo Dominici, Ciro Falcone, Salvatore Gerbino, Antonio Sgroi, Gavino Fiori, Calogero Lo Giudice, guardie regie; al brigadiere Sante Fargione che rimase ucciso in azione; al vice brigadiere Fedele Foglietti.
Altri casi di ribellione e insurrezione si ripeterono in altre zone d’Italia.
Nello stesso anno, a dicembre, dalla vigilia di Natale, il Battaglione Roma della Regia Guardia venne impiegato nell’espugnazione della città di Fiume in mano ai Legionari dannunziani.
Un po’ più difficile era il mantenimento dell’ordine pubblico contro le rivolte o le violenze fasciste perché, se a Sarzana e a Modena si riuscì nell’intento, si era anche riusciti a non capire bene se e come intervenire, anche per le connivenze di cui abbiamo scritto, ma senza chiarezza politica, tanto che anche quelle operazioni aumentarono la rabbia nei confronti delle guardie regie fino al loro scioglimento4.
Sul piano politico ci fu acceso dibattito tra chi non era d’accordo che anche il Ministero dell’Interno avesse un proprio Corpo armato, come già esisteva la Guardia di Finanza; chi pensava che il governo volesse distruggere l’Arma dei Regi Carabinieri; chi temeva l’eccessivo potere che il governo poteva prendere avendo ai suoi ordini diretti poco più di 25mila uomini, quasi il doppio rispetto alle Guardie di città preesistenti.
Nitti, dal canto suo, era convinto di dover avere a disposizione un Corpo che mettesse il governo liberale al riparo dal temuto colpo di Stato che poteva soltanto essere condotto dai militari, riequilibrando quindi le forze.
Era imperante, a quel punto, che la Polizia fosse apolitica e apartitica, come venne ripetutamente dichiarato e come si voleva garantire, anche se i detrattori la dichiaravano forza di Nitti, suo creatore, e quindi di un ben determinato indirizzo politico.
Spentosi il biennio rosso, e quindi la paura del dilagare comunista della rivoluzione, anche le regie guardie presero atteggiamenti di connivenza con il fascismo in auge, rifornendo armi e chiudendo uno, o talvolta due occhi, sugli atteggiamenti violenti, tanto da essere o appartenente al partito, o comunque filofascista.
Sarà la mancanza di ordini e direttive precisi, in una sorta di vuoto di potere, a dare meno forza alle regie guardie e più spazio per lo squadrismo che non voleva soltanto agire in modo sovversivo, ma agire come garante dell’ordine. Spesso le guardie erano impotenti dinanzi alla violenza squadrista e alla capacità di porsi al centro della scena anche politica. Quindi il posto delle guardie veniva preso dagli squadristi, spesso con l’aiuto delle guardie stesse. Siamo nel 1921 e l’anno dopo si avrà la netta abdicazione del controllo sociale da parte delle forze dell’ordine in favore di uno squadrismo fascista sempre più impudente, sempre più protetto: addirittura vennero agevolate le fughe dal carcere di fascisti arrestati per azioni violente.
Colonne di camicie nere si concentravano in alcune città e devastavano le sedi sindacali o partitiche o dei giornali non conniventi. Si parlava di oltre sessantamila persone a Ferrara, ad esempio: sarebbe stato impossibile per le guardie regie agire in difesa delle istituzioni e dell’ordine pubblico.
Le indicazioni che arrivavano al Viminale rispetto alla presa di potere capillare che stavano conducendo i fascisti, di punti nevralgici delle città e delle campagne, non venne ascoltata e così, tra impossibilità di far fronte alla forza fascista e connivenze di vario grado, il fascismo aveva mano a mano preso il potere del Paese, senza che una forza gli si opponesse in modo serio e, soprattutto, adeguatamente organizzato.
Per quel motivo, alla marcia su Roma della camicie nere, fu dato il potere ai militari per preparare lo stato d’assedio, ma le camicie nere il potere territoriale l’avevano già, oppure facilmente lo ottennero.
I comandanti generali dell’Arma dei Carabinieri e della Regia Guardia, il 4 novembre 1922, ricevettero una circolare con la quale Aldo Finzi, sottosegretario all’Interno, dispose di non dare luogo a procedere contro quegli uomini che, durante la marcia, vi avessero partecipato in vario modo.
La Regia Guardia venne sciolta il 31 dicembre 1922, dopo adeguata opera di verifica dei comportamenti, generando non pochi momenti di tensione e ribellioni da parte delle guardie stesse.
Il prefetto di Brescia Arturo Bocchini, che diventerà capo della Polizia, segnalò che le guardie volevano scendere in piazza per protestare e così accadde in molti altri posti, dove vennero anche assaltate le sedi dei sindacati fascisti o del partito, tra numerosi atti di insubordinazione.
Naturalmente la scelta di sciogliere le Regie Guardie era dettata dalla volontà di togliersi di torno coloro che potevano non rispondere al Ministero della Guerra, favorendo i fascisti e i nazionalisti di destra, accontentando chi non voleva più vedere la famosa polizia di Nitti e dimostrando di voler primariamente controllare il territorio con una milizia gestibile.
Riuscire però a rendere la Milizia parte dell’Esercito avrebbe comportato un onere troppo alto, mentre lo stesso Mussolini voleva risolvere quel problema per poter controllare gli squadristi. Lo stesso 31 dicembre venne creato un reparto specializzato dei carabinieri, nel quale però confluirono pochi uomini delle guardie e, alla fine, ci si rese conto del fallimento dell’operazione, dato che sul territorio non c’erano persone adatte a gestire l’ordine pubblico, tanto che fu necessario creare il Corpo degli Agenti di Pubblica Sicurezza.
Esistevano commissari volanti accanto a quelli di carriera ed esisteva anche una non ben precisata CECA, polizia rivoluzionaria come quella sovietica, che ebbe come massimo atto il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti nel 1924, episodio che dimostrò a Mussolini come affidare la polizia speciale a volontari di quel genere, disorganizzati e violenti, non poteva essere accettato. Doveva essere addestrata e fascistizzata una polizia che fosse preparata ad affrontare le situazioni di pericolo per lo Stato.
Il 1925 sarà un anno cruciale per l’Italia, dal momento che si passerà da un governo autoritario, ma ancora parlamentare, ad una dittatura in cui le libertà erano fortemente limitate; venne reintrodotta la pena di morte; i sindacati furono sciolti in favore delle corporazioni, eccetera.
Nel 1926 venne varato il Testo Unico sulla Pubblica Sicurezza, con il confino come metodo per liberarsi degli antifascisti o sospetti tali; comunque dell’opposizione. In quell’anno vennero presi anche altri provvedimenti per la difesa dello Stato, con l’istituzione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, ad esempio, e la creazione della polizia segreta OVRA, sigla che ha varie spiegazioni, sia di repressione degli antifascisti, sia di repressione di coloro che erano contrari allo Stato, ma forse anche acronimo voluto da Mussolini togliendo le prime lettere alla parola piovra. Alcuni ne hanno negato l’esistenza, dal momento che essendo un elemento segreto non tutti erano al corrente delle sue specificità, ma altri ne attestarono l’azione.
Con la riforma della polizia nasce quindi la polizia politica, OVRA, ai cui incarichi si aggiunge anche il controllo del fascismo stesso e dei suoi gerarchi. Era un organismo indispensabile, perché urgeva uno strumento specializzato nel controllo dei comunisti che, avendo scelto di non sciogliere le proprie file, potevano portare la lotta all’interno dello Stato dove continuavano in segreto ad operare, cercando di evitare l’arresto.
L’azione repressiva si rivolgerà quindi contro socialisti, comunisti (Camilla Ravera, ad esempio, una delle fondatrici del Partito Comunista e membro del gruppo interno, riuscì a sfuggire alla cattura quando il partito venne dichiarato illegale nel 1926 e poi dovette lasciare il Paese per motivi di salute, rientrando nel 1928 per ricostituite il centro clandestino interno; verrà arrestata nel 1930 e condannata a 15 anni e mezzo di reclusione) e Giustizia e Libertà, della quale vennero arrestati i capi Ferruccio Parri, Ernesto Rossi e Riccardo Bauer. Giustizia e Libertà era abbastanza scoperto come gruppo clandestino, perché poco propenso alla cospirazione e alla difesa, e questo lo rese molto vulnerabile.
L’attività dell’OVRA si avvalse di funzionari di polizia, di spie, di persone corrotte che, a fronte di un forte stipendio mensile, si occupavano di infiltrarsi, sia in Italia che all’estero, nei gruppi e nella società in genere, per avere informazioni sulla fedeltà al regime, anche da parte di fascisti stessi.
Molti documenti scomparvero o furono distrutti prima della fine della guerra sull’operatività dell’organismo, ma gli operatori dell’OVRA furono capaci di costruirsi anche una difesa per il futuro mentre lavoravano per il regime.
La decurtazione dei nomi di oltre seicento elementi della polizia politica che furono pubblicati sul giornale Gazzetta Ufficiale, fu attuata da Nenni (forse timoroso che nei documenti ci fosse qualche chiacchiera di Mussolini del quale era amico in gioventù) e Sforza, quando pare che ci si interessasse dei nomi dei collaboratori dei vari gruppi clandestini per evitare che comparissero. La vicenda è ancora avvolta nel mistero per molti aspetti, dal momento proprio che interessò molte persone e sempre in modo segreto. Inoltre, alcune persone, come Ugo Modesti (il vero nome era Luca Osteria), fecero il doppio gioco quando si resero conto che non c’era futuro per il nazifascismo. Ugo in modo particolare era in contatto con Ferruccio Parri, tradendo i tedeschi ai quali propose di creare un servizio di spionaggio in Svizzera, dove portò Indro Montanelli, arrestato nel 1944 e liberato proprio grazie al suo intervento. Il ruolo di doppiogiochisti, in contatto con gli Alleati e con il Comitato di Liberazione Nazionale, li fece spesso salvare anche dall’epurazione, fondamentalmente perché si professarono servitori dello Stato, quindi scevri di parte politica, durante il loro lavoro.
Nel 1931 venne adottato il Codice Rocco che apportò la riforma del Codice Penale.
Nel Regno d’Italia, tra le varie forze dell’ordine, è esistita anche la Polizia dell’Africa Italiana, con il fascio littorio come simbolo, istituita infatti in periodo fascista, nel 1936, e operante fino alla fine della seconda guerra mondiale, prima nelle colonie, quindi in servizio anche in Italia dopo l’8 settembre.
Si trattava di un corpo di polizia coloniale con compiti di ordine pubblico, di polizia amministrativa, giudiziaria e di frontiera a difesa delle colonie italiane, l’Etiopia e l’Africa Orientale Italiana.
Inizialmente il riferimento era il Ministero delle Colonie, poi rinominato Ministero dell’Africa Italiana, istituzione civile che aveva al suo comando una forza armata. Infatti, il decreto n. 1211 del 10 giugno 1937 istituiva il regolamento della polizia coloniale come corpo civile militarmente organizzato e parte delle Forze Armate del Regno.
La PAI era composta da ufficiali, sottoufficiali, agenti e ascari locali; erano riuniti in battaglioni intitolati agli esploratori italiani dell’Africa come Duca degli Abruzzi, Bottego, Ruspoli.
Le questure si trovavano nelle città coloniali più grandi come Tripoli, Bengasi, Asmara, Addis Abeba, Mogadiscio, Gondar.
Contraddistinti da un’apposita divisa, i membri della PAI avevano in dotazione il moschetto Carcano Mod. 91 e la pistola semiautomatica Beretta Mod. 34, oltre ad un’arma bianca corta ad imitazione dei pugnali somali chiamata billao.
Per la PAI il billao venne prodotto a livello industriale e non più artigianale com’era l’uso locale, in forma di foglia asimmetrica lunga 193 mm, mentre l’arma complessivamente era lunga 310 mm compresa l’impugnatura con guancette di corno di bufalo fissate con due rivetti; l’elsa era una crociera ovale in lamiera di ferro. L’arma era riposta in un fodero di cuoio, fermata da una molla interna e da una piccola cinghia con bottone.
La PAI rientrava nel concetto di sicurezza pubblica e, soprattutto, controllo del Regno.
Apparteneva alla Polizia dell’Africa Italiana anche lo squadrone dei Lancieri della guardia, preposti alla difesa del governatore della Somalia Francesco Saverio Caroselli, comprendente sia agenti italiani che somali; e un’unità a cavallo di cavalieri eritrei, comandata da ufficiali italiani e composta da 137 ascari eritrei. Ascari erano anche libici, che parteciparono ad azioni belliche durante la seconda guerra mondiale in Tripolitania.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la Polizia dell’Africa Italiana venne impiegata per la difesa di Roma dichiarata città aperta (dall’8 settembre 1943 al marzo 1944 il comando lo ebbe il generale Umberto Presti).
Nei pressi della capitale avvennero scontri con i tedeschi, sia a Mezzocamino che lungo la via Tiburtina, anche di scorta all’uscita dalla città del Re, verso Brindisi. Nello scontro con le forze tedesche alla Magliana vennero ottenuti alcuni risultati, fino al ripiegamento al Forte Ostiense. I nazisti riuscirono ad arrestare il primo comandante della PAI, il generale Riccardo Maraffa, che venne deportato nel campo di concentramento di Dachau dove morì.
Il suo successore Quirino Armellini, già Medaglia di Bronzo al Valor Militare “Per bella prova di accortezza e di ardimento data operando isolatamente con la sua centuria sul fianco della colonna che ripiegava in ritirata, e per fermezza d’animo dimostrata dopo di essere rimasto ferito” a Kuscia il 13 marzo 1915; combattente durante la Grande Guerra e insignito di Medaglia d’Argento al Valor Militare per il suo impegno sul fronte macedone nel 1918 (“Nelle funzioni di ufficiale di stato maggiore addetto al comando di una colonna speciale incaricata di marciare celermente da Kruscevo su Sop per sbarrare al nemico la strada Monastir-Kicevo, dava prova di singolare ardimento e coraggio, portandosi nei vari punti della linea, impegnata in vivace combattimento, incitandoli con la voce e con l’esempio, per fornire al comandante precisi ragguagli sulla situazione”), quindi promosso tenente colonnello, venne impiegato nella riconquista della Libia tra il 1926 e il 1927 (ancora Medaglia di Bronzo al Valor Militare perché “Comandante di un gruppo di manovra durante un lungo ciclo di operazioni ha saputo guidarli in numerosi combattimenti in modo da conseguire i maggiori successi, dimostrando sempre belle doti militari” ad Abiar bu Sfeia il 2 gennaio 1927 e nello Gebel Centrale (Cirenaica), tra l’ottobre 1926 e il maggio 1927).
Nel 1935 divenne uno stretto collaboratore di Pietro Badoglio durante la guerra d’Etiopia, le cui memorie sono nel suo libro “Con Badoglio in Etiopia”. Promosso generale di Brigata, assunse vari incarichi fino alla promozione a generale di Divisione. Destituito Mussolini, Badoglio lo volle comandante della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale che sciolse.
Con l’8 settembre, il suo ruolo doveva essere quello di comandante di Roma, mentre era uno degli uomini più ricercati dai nazisti in quelle tragiche ore, tanto che, non avendo ricevuto l’incarico, cercò di seguire il Re in partenza per Brindisi. Non riuscendo nell’intento, tornò nella capitale dove assunse il ruolo di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, arrestato dai nazisti, come capo del Fronte Militare Clandestino, quindi della resistenza romana. Per questo ricevette un’altra Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Durante un difficile periodo organizzava e dirigeva in Roma, con fede ed entusiasmo inesauribili, la rete informativa ed il movimento patriota della zona. Con operosa sagace attività, eludendo la vigilanza avversaria, forniva per più mesi preziose informazioni operative al Comando Supremo Italiano e Alleato. Con il suo esempio animatore manteneva viva nei patrioti la volontà di resistere e la fede nella rinascita della Patria”.
Nel corso del 1944, la PAI venne assorbita dal Corpo di Polizia Repubblicana della Repubblica Sociale Italiana e poi dalla Guardia Nazionale Repubblicana (guardie regie vennero impiegate anche nelle stragi e fucilazioni di Forte Bravetta, nell’ambito dell’attività antipartigiana, avvenute il 31 gennaio, il 7 marzo e il 3 giugno 1944), mentre nell’Italia del Sud la Polizia dell’Africa Italiana affiancò altre unità operanti in zona, fino a quando non venne sciolta il 9 marzo 1945, con il personale trasferito nella Pubblica Sicurezza, prevalentemente nei ruoli amministrativi. Quindi le vicende per quella branca di polizia furono diverse a seconda della zona italiana dove i suoi uomini si trovavano ad operare.
Alessia Biasiolo, CESVAM, vicepresidente della Federazione di Ancona