MASSIMO COLTRINARI Le cause remote della conquista dell’Etiopia. La decisione fatale 1928 III Parte

  

La decisione fatale: 1928
Massimo Coltrinari (centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
La diplomazia italiana non recuperò mai la gravissima sconfitta patita alla Conferenza di Pace di Parigi del 1919-1920. La diplomazia italiana diede prova della sua incapacità di trasformare una vittoria militare in una vittoria diplomatica. Mentre ogni italiano sa tutti i contorni e l’essenza di Caporetto ed i militari ad ogni piè sospinto sono ancora oggi chiamati a rispondere di questa sconfitta, la tragedia della sconfitta diplomatica di Parigi non è minimamente presente nella pubblica opinione italiana. I diplomatici ed il loro mondo ovviamente non ne parlano e elegantemente evitano questo argomento e si ritirano nella loro “confort zone”. L’occasione persa alla Conferenza di Pace dall’Italia per la insipienza dei diplomatici e la pochezza degli uomini politici di diventare una grande potenza non è nei temi di una storiografia orientata altrove. Le incomprensioni e le barriere tra questa diplomazia, tra la classe politica romana ed il gruppo degli ingegneri e fondatori di quello che nel dopoguerra sarà chiamato il triangolo industriali ed in generale da coloro esperti e capaci erano stati in grado di ricercare nel mondo quelle opportunità che poi non furono sfruttate. In pratica non vi fu tra politici e diplomatico, ne coloro che tentarono di esserlo tra gli industriali furono spietatamente ignorati, un Enrico Mattei in grado di condurre una politica coordinata alla ricerca ed acquisizione delle materie prime strategiche in sinergia con i politici i diplomatici i responsabili della industria e gli uomini d’affari.
L’avvento del regime mussoliniano con i noti fatti del biennio 1922-1924, fece prevalere una politica lontana da quella che aveva come termine ultimo l’acquisizione di materie prime e quindi insensibile alle reali necessità della industria e si avvio verso scelte le più conservatrici possibili con una visione più ottocentesca che rivolta al futuro. Avvio un espansionismo italiano verso quello che nel secondo dopoguerra si sarebbe chiamato “terzo mondo”, mirando ad avere influenza in Africa, in una chiave colonialistica lontana dai reali interessi del Paese. Era il “mal di colonie”, che vedeva nel possesso delle colonie fonte di ricchezza, prestigio e soprattutto sfogo alla emigrazione italiana intesa come colonizzazione sul modello dell’antica Roma. Un miscuglio di motivazioni che lasciava senza soluzione il problema principale: la acquisizione diretta di materie prime strategiche. Tutta la classe dirigente fascista era abbagliata dalla creazione dell’Impero, segno di potenza e dominio, non considerando che si stava costruendo un castello di carta in quanto il reale potere economico non era acquisito.

Anche se oggi appare quanto mai sorprendente, Mussolini a metà degli anni venti mise gli occhi sull’Angola. Gli altipiani dell’Angola erano terreno ideale per una emigrazione italiana e sfruttamento agricolo del territorio. Anche se tutto rimase allo studio e non si realizzò alcunchè negli anni successivi il fascismo prestò sempre attenzione all’Angola, con piani basati sulla demografia da esporta-zione, soprattutto agricola, suscitando allarme nella Comunità internazionale in quanto si ventilava una cooperazione con la Germania. Il ritorno dei tedeschi nell’ Africa australe non era una prospettiva che Parigi e Londra apprezzavano.

Il seme era stato gettato. L’Italia doveva avere il suo Impero e l’Africa presentava delle opportunità più realizzabili che in altri parti del Pianeta. Su questa scia la decisione finale fu presa da Mussolini nel 1928, orientandosi decisamente verso l’Etiopia. Tutti i fattori erano positivi: la superiorità tecnologica italiana era evidente, l’Etiopia era uno Stato e quindi il confronto era accettabile, Francia e Gran Bretagna, soprattutto quest’ultima, non sarebbero andate oltre certi limiti nel difenderla, il risultato di prestigio assicurato.

Fu una scelta decisamente reazionaria, in cui le rimanenti forze economico-industriali dell’Italia, che nei precedenti anni potevano essere utilizzate per acquisire le materie prime strategiche in Caucaso, in Medio Oriente, in Romania, in Messico, furono messe al servizio di una politica coloniale brutale, insensata, anacronistica con il fine di avere un Impero esteso su una regione, l’Etiopia, che, nei dati reali di geografia economica offriva meno che niente e tantomeno di qualsiasi altra regione che era stata oggetto di interessamento degli uomini d’affari e del capitalismo italiano. Enrico Mattei sarebbe inorridito davanti a questa scelta. Che non avrebbe portato nulla all’Italia, solo costi e sperpero di risorse.

L’industria italiana durante la seconda guerra mondiale riuscì a sviluppare una tecnologia, soprattutto in campo aeronautico, d’avanguardia. Il suo limite fu che non fornì armi e mezzi in modo esteso e sufficiente alle truppe operanti per mancanza di materie prime. La flotta fu tenuta nei porti per “mancanza di nafta” e limitò la sua azione. Le riposte a tutto questo si trovano, innanzi tutto nella assenza totale di una figura come Enrico Mattei, poi nell’operato mediocre di Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, Benito Mussolini, in una classe diplomatica nepotistica e di basso profilo e tutti quei esponenti del capitalismo italiano che sperperarono quanto l’industria era riuscita a costruire durante il Primo Conflitto mondiale sul sacrifico delle classi lavoratrici, con scelte anacronistiche e non in linea con i reali interessi e bisogni dell’Italia.