
Cent’anni dall’omicidio Matteotti
Alessia Biasiolo
Uno degli episodi più bui del secolo scorso in Italia, fu il rapimento e l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti. Dalla data dell’accusa in Parlamento dei brogli elettorali compiuti dai fascisti durante le elezioni del 1924 che, secondo lui, dovevano comportare l’annullamento delle elezioni stesse, possiamo datare l’inizio della dittatura fascista italiana; in ogni caso sarà la presa in carico della responsabilità dell’omicidio stesso assuntasi da Benito Mussolini, capo del governo, con il discorso del 3 gennaio 1925, che la dittatura italiana potrà dirsi compiuta, malgrado le leggi fascistissime di limitazione delle libertà siano più tarde. Matteotti era nativo del Polesine, Fratta, un territorio di gente laboriosa e concreta, abituata a fare i conti con la povertà e la fame, i raccolti e le carestie. La famiglia Matteotti era originaria del Trentino ancora austriaco, e possedeva una miniera di ferro a Comasine, dove i discendenti producevano lavorati in ferro e rame, prima di trasferirsi in Polesine dove poterono acquistare dei terreni, soprattutto dopo l’annessione del Lombardo-Veneto al Regno d’Italia nel 1866, ed aprire un piccolo emporio. Nato nel maggio del 1885, Giacomo visse gli anni della gioventù che vedevano l’avanzata delle idee socialiste in un territorio poverissimo e da dove le persone partivano per cercare fortuna all’estero.
Era il sesto di sette figli, ma in breve tempo rimase da solo, data la prematura scomparsa dei fratelli: studiò prima a Rovigo, poi a Bologna dove si laureò in legge. Si rivelò da subito un attento studioso, desideroso di intraprendere la carriera politica: cominciò a collaborare con il periodico socialista La lotta, quindi fu eletto nel Consiglio provinciale di Rovigo, poi, nel 1912, sindaco di Villamarzana: il suo impegno per i braccianti polesani fu sempre più forte, tanto da renderlo un vero leader.
Fedele agli ideali socialisti, allo scoppio della Grande Guerra si dichiarò neutralista, tanto da essere considerato un sovversivo e da venire denunciato per disfattismo, poi assolto in Cassazione. Malgrado le precarie condizioni di salute dovute a problemi polmonari, venne arruolato nel 1916 e confinato in Sicilia, molto lontano dal teatro di guerra. Questo gli permise di riprendere gli studi e gli approfondimenti, ma anche di non rendersi conto della reale situazione che si viveva soprattutto nel Nord Italia, specialmente in Veneto, durante la prima guerra mondiale. Nello stesso 1916 sposò Titta Ruffo che frequentava già da quattro anni. Il primo figlio nacque nel 1918 e ne seguirono altri due, un maschio ed una femmina. La moglie di Matteotti era molto religiosa e questo influenzò anche le idee dapprima rigidamente laiche del marito. Congedato nel 1919, Matteotti riprese l’attività politica tornando a casa in Polesine, e si candidò alle elezioni dello stesso anno, le prime con il nuovo metodo proporzionale. Venne eletto deputato nella Circoscrizione di Rovigo e Ferrara dove il Partito Socialista ottenne circa il 70 per cento dei voti, contraddistinguendo la provincia come la più a sinistra del Paese. Come deputato Matteotti si rivelò arguto e facile all’intervento d’aula, con argomenti precisi e puntuali, malgrado venisse accusato di voler essere un rivoluzionario a casa e un paciere a Roma. Visse l’ascesa del fascismo a scapito, spesso, delle compagini cattolica e socialista, fino ad essere oggetto di aggressioni, come quella subita il 12 marzo 1921 dopo la quale fu costretto a lasciare il Polesine. Rieletto deputato alle elezioni del 1921, visse la spaccatura del socialismo al Congresso di Livorno e venne nominato Segretario del Partito Socialista Unitario: lontano dalle posizioni divenute del Partito Comunista, era solo anche all’interno del suo partito, in quanto capace di sottolinearne i problemi e le incapacità, poi rifiutando la proposta di Togliatti di presentarsi insieme alle elezioni del 1924 (quando venne riconfermato deputato), dopo che la marcia su Roma aveva decretato l’ascesa del fascismo al governo.
Matteotti era consapevole della deriva che era rappresentata dall’ascesa di Mussolini, ma spesso era inascoltato anche dai suoi, per interessi e opportunismi. Gli venne ritirato il passaporto, ma riuscì ad andare in Inghilterra per raccogliere testimonianze sulle corruzioni degli uomini del regime, soprattutto relativamente alle forniture petrolifere all’Italia.
Quindi, durante la prima seduta del nuovo Parlamento, il 30 maggio 1924, seguita alle elezioni del 6 aprile precedente, Giacomo Matteotti tenne un discorso a braccio, denunciando il clima di violenza che imperava in Italia e che, soprattutto, aveva caratterizzato le recenti elezioni, in cui non soltanto c’erano state intimidazioni ai danni degli elettori, ma si erano compiuti molti brogli elettorali in sede di spoglio delle schede votate. In più di un’ora di dissertazione, chiese l’annullamento delle elezioni stesse, in quanto ampiamente illegali.
Il clima parlamentare durante il suo intervento era infuocato e non si erano contati fischi, urla e minacce nei suoi confronti, soprattutto dalla compagine fascista. I compagni di partito si congratularono con lui ed egli, consapevole delle conseguenze che avrebbero avuto le sue pesanti parole, rispose loro di prepararsi a recitare la sua commemorazione funebre. Mussolini, dal canto suo, si espresse molto chiaramente rispetto alla volontà di essere liberato da quel peso di Matteotti, frase che, come riferì Salandra, era abbastanza scurrile.Non mancarono molti giorni alla sparizione del deputato socialista, aggredito, picchiato e rapito sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, vicino alla sua residenza romana, verso le 16.30, mentre si stava recando a piedi a Montecitorio, il 10 giugno. Venne caricato a forza su un’auto, che lo stava aspettando sul Lungotevere, da due aggressori, e poi da un terzo di cui fu necessario l’intervento per la strenua difesa opposta dall’aggredito, che probabilmente venne assassinato direttamente sull’auto, sulla quale vennero identificati i membri della polizia politica Amerigo Dumini (sostanzialmente il capo dell’operazione), Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria, Amleto Poveromo. La scomparsa di Matteotti, comunicata dalla stampa il 12 giugno, creò una forte crisi politica che colpì in pieno il fascismo, tanto che lo stesso Mussolini temeva di non riuscire a rimanere al governo, e fors’anche in politica, dopo quel misfatto che chiunque attribuiva ai fascisti. Tuttavia la risposta politica dell’opposizione non fu abbastanza forte. La significativa protesta dell’Aventino , lasciando le aule preposte al dibattito politico, era un segno inequivocabile di condanna, ma nessuno della maggioranza si curò di quel gesto, e le divisioni interne all’opposizione stessa non diedero una risposta abbastanza forte e determinante, malgrado a volte sembrasse di ottenere lo scioglimento delle Camere. In serata dello stesso giorno, 12 giugno, venne rinvenuta in un garage romano l’automobile usata per il rapimento: c’era stata portata per delle riparazioni, mentre alla stazione ferroviaria di Roma Termini venne arrestato Dumini, in partenza per Milano. Si riunì così d’urgenza il Gran Consiglio del Fascismo che emanò un comunicato per sostenere che tutta la riunione era stata assorbita dalla relazione di Mussolini sulla politica generale. In quel momento non era certo che Benito Mussolini avesse ordinato il rapimento, e l’uccisione, di Matteotti; anzi si fecero strada due ipotesi: una che la macchinazione contro Mussolini, ordita da antifascisti e massoni compreso Cesare Rossi, avessero trovato il cadavere eccellente per costringere Mussolini a dimettersi. L’altra che l’assassinio fosse avvenuto in ambienti fascisti per impedire l’accordo tra Mussolini e i confederali e, allo stesso tempo, impedire che Matteotti rivelasse i risultati delle sue indagini.
In ogni caso, l’avvenimento, anche se si fosse trattato solo di un rapimento a scopo intimidatorio, non faceva bene a Mussolini in nessun modo. Era stato un piano premeditato, lontano dalla possibilità di un momento di rabbia di Mussolini, che avrebbe portato a dire di eliminare l’avversario politico; ma il rapimento era stato preparato in una decina di giorni, troppi per sostenere la rabbia che, di certo, avrebbe lasciato spazio al raziocinio di un abile politico com’era Mussolini. Vero era che la rabbia a seguito del discorso a Montecitorio era stata tanta, da parte di molti, da Mussolini a Rossi a Marinelli , e che l’uso del momento era quello di dare seguito alla rabbia con “lezioni” contro avversari politici.
Nel pomeriggio del 13 giugno, Mussolini tornò a parlare a Montecitorio, con un tono differente da quello del giorno prima. Se aveva finto di non sapere che il deputato socialista era stato ucciso, adesso ribadisce davanti al Paese la sua volontà di resistere alla crisi. Comunica che i responsabili erano stati identificati e arrestati, per lo meno Dumini e Putato: “Se c’è qualcuno in quest’aula che abbia diritto più di tutti di essere addolorato e, aggiungerei esasperato, sono io. Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida d’indignazione”.
E forse queste affermazioni potrebbero deporre per un suo essere all’oscuro della “lezione” organizzata ai danni di Matteotti.
E ancora il 7 luglio affermerà: “Giustizia sarà fatta, deve essere fatta, perché, come qualcuno di voi ha detto, il delitto è un delitto di antifascismo e di antinazione. Prima di essere orribile, è di una umiliante bestialità”.
Le indagini, avvalorate da testimonianze oculari, accertarono la responsabilità della Ceka, un corpo speciale agli ordini del governo fascista , e si pensò che oltre ai cinque del commando di rapitori fossero presenti anche Filippo Panzeri, Aldo Putato e Otto Thierschald, probabilmente basisti. A capo della Ceka Cesare Rossi, Giovanni Marinelli e il capo della Polizia Emilio De Bono.
Iniziarono le manifestazioni di protesta e i giornali diffusero edizioni straordinarie che vennero esaurite dagli acquisti . Interessante la posizione di padre Enrico Rosa, dalle pagine di Civiltà cattolica, che ribadiva come il governo fosse stato costituzionalmente eletto e quindi fosse impossibile per i sudditi italiani non obbedirvi e, allo stesso tempo, cercare di abbatterlo con mezzi illeciti come rivolte, sommosse, congiure e similari organizzati dall’opposizione. Il cambiamento di governo eventualmente doveva essere attuato con mezzi leciti, pertanto con regolari elezioni. Il governo, comunque, doveva lasciare libertà di opinione all’opposizione, nell’uso dei diritti sanciti dalla Costituzione e dalle leggi, mentre per i cattolici sarebbe stato impossibile entrare o formare un governo di coalizione con i socialisti.
Il fascismo comunque ancora una volta trema, quindi Mussolini, per calmare un po’ gli animi, chiede le dimissioni proprio di Rossi, De Bono e Finzi il 14 giugno. Secondo Rossi, così facendo Mussolini allontanava da sé i sospetti, lasciando credere di essere il capo ignaro delle azioni dei suoi uomini, ma forse anche liberandosi di un possibile nemico interno.
Il primo agosto la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale venne dichiarata parte integrante delle forze armate dello Stato.
Tuttavia, malgrado i provvedimenti, la situazione politica si andava deteriorando per i fascisti, tanto che anche la polizia e i carabinieri si dimostravano molto meno tolleranti nei loro confronti, non considerando nel dovuto modo (cioè come tempi prima) la stessa Milizia. Altro schiaffo, diciamo così, importante al fascismo lo dettero i congressi dei Mutilati di guerra (7-10 luglio) e dei Combattenti (27-29 luglio): essi venivano o criticati per l’appoggio dato al fascismo, oppure facevano chiaramente capire le difficoltà del governo. Con defezioni, derive, cambi di posizioni, anche all’interno il fascismo venne fortemente minato dal delitto Matteotti.
Quindi, con le limitazioni alla libertà di stampa e i rimpasti di governo, o di cariche, Mussolini organizzò una tre giorni del Gran Consiglio e una riunione, dal 2 al 7 agosto, del Partito Nazionale Fascista.
Per Mussolini non si doveva arrivare alla normalizzazione, che significava antifascismo per lui, soprattutto non a quella della Milizia. Bisognava tenere a bada le opposizioni, anche ignorandole, ma non sottovalutare o ignorare il popolo italiano. Infatti, il delitto Matteotti aveva iniziato ad allontanare dal fascismo quelle masse di lavoratori che per vari motivi vi si erano accostati e che adesso tornavano o andavano verso le compagini rosse o bianche. Bisognava fermare in ogni modo quella diaspora, prima che il movimento ne venisse fortemente minato, perdendo capacità e potere contrattuale. Mussolini prendeva posizione in Gran Consiglio anche sulle conseguenze processuali del delitto, perché se lui non aveva avuto parte nell’omicidio, di certo l’opposizione aventiniana avrebbe portato a processo non tanto gli esecutori del delitto, quanto il fascismo stesso. E non si doveva permettere. Pertanto, bisognava accettare la sfida portando a processo il partito di quel Matteotti che per ora era la vera vittima del dibattito. A dimostrazione di questo, la difesa di Dumini sarebbe stata assunta da Farinacci.
L’istruttoria per il rapimento e l’assassinio venne assunta dalla Procura Generale di Roma che l’affiderà al presidente della Sezione d’Accusa, Mauro Del Giudice, al quale venne affiancato il sostituto procuratore Guglielmo Tancredi. Si dibatté sulle cause del rapimento e sui documenti di Matteotti, mai più ritrovati, che probabilmente sarebbero stati oggetto di interventi d’aula.
Il deputato, infatti, anche a seguito dei suoi viaggi in Inghilterra, era di certo in possesso di incartamenti sulla Sinclair Exploration Company, società petrolifera statunitense che proprio nella primavera del 1924 aveva acquisito oltre centomila ettari di terreno italiano, in Emilia e in Sicilia, con metodi corruttori come si scoprirà aveva fatto in America, corrompendo funzionari del governo, quello che fu lo scandalo Teapot Dome. La Presidenza del Consiglio aveva sottolineato l’utilità della convenzione per lo Stato italiano, approvata dal Consiglio dei Ministri nei primi giorni di maggio 1924.
Nel luglio 1924, comparirà un articolo di Giacomo Matteotti sulla rivista inglese English Life, in cui egli si diceva convinto che gli accordi tra il governo italiano e la Sinclair Oil nascondessero corruzione di funzionari fascisti, con soldi che molto probabilmente andavano a finanziare i giornali di partito.
Questo sarebbe stato portato in Parlamento, se Matteotti non fosse stato fermato dalla Ceka, preposta proprio a fermare o ostacolare gli avversari politici più irriducibili.
Matteotti prevedeva di tenere un discorso alla Camera, se non fosse stato assassinato, sull’affarismo fascista. Affermò Silvestri che dalla lettura del bilancio dello Stato: “Matteotti aveva tirato fuori delle constatazioni orripilanti dal punto di vista delle spese, del disordine e così via. Egli aveva una sua linea, un suo programma finanziario, considerava la finanza di Mussolini rovinosa e trovava in essa una gran quantità di elementi di accusa. Si trattava di accuse relative alle tariffe doganali protezionistiche, e sfacciate protezioni accordate a determinati gruppi industriali e ad altri elementi del genere”.
Mentre Pietro Nenni, nel 1929, a cinque anni dalla scomparsa di Matteotti, affermò: “Il giorno successivo a quello in cui fu assassinato, Matteotti avrebbe dovuto parlare alla Camera sull’esercizio provvisorio e senza fare dello ‘scandalismo’ personalistico si riprometteva di attaccare la politica di De Stefani e di richiamare l’attenzione del Paese sulle troppe rapide fortune maturate all’ombra di palazzo Chigi e del Viminale, con fenomeni di corruzione identici a quelli che caratterizzarono il secondo impero francese”.
Le indagini e poi il processo continuarono, mettendo in luce la chiara responsabilità fascista e dei vertici del partito nell’omicidio. Uno degli esecutori, Dumini, scriverà che avevano soltanto obbedito agli ordini, com’erano abituati a fare, e ordini che arrivavano da Rossi e Marinelli, ma provenienti da più in alto. Mussolini farà versare somme di denaro agli esecutori materiali del delitto per tutto il periodo della latitanza e poi della detenzione, una volta arrestati.
Mussolini in ogni caso non fu costretto a dimettersi e di farlo spontaneamente, ovviamente, non ne aveva affatto intenzione.
Comunque, dopo il discorso del 7 luglio, assente la minoranza, la Camera approvò l’esercizio provvisorio fino al 31 dicembre, con i lavori aggiornati sine die. Questo permise di chiudere il dibattito parlamentare, mentre Mussolini pensava di sciogliere il Partito e di ricostituirlo su basi nuove, oppure di attendere le decisioni dell’opposizione.
Il delitto Matteotti comportò un vero e proprio scompiglio, non soltanto per il fascismo, ma anche per quell’Aventino dell’opposizione che capirà essere stato un errore disertare le sedi istituzionali. Filippo Turati scrisse alla Kuliscioff: “Non sai come sono pentito del nostro gesto” perché se sembrava una cosa buona da fare “il ministero, più furbo di noi, ne profittò subito per liberarsi della Camera per sette mesi”, anche se poi fu sempre uno strenuo sostenitore della bontà della scelta fatta.
Intanto le ricerche dell’uomo continuavano, perlustrando soprattutto il lago di Vico (dove molti pensavano fosse stato gettato il cadavere), boschi, caverne, catacombe, senza successo.
Il 12 agosto venne ritrovata in un canale di scolo lungo la Via Flaminia, al chilometro 18, la giacca insanguinata del deputato, mentre il suo corpo venne rinvenuto il 16 agosto seguente nel bosco della Quartarella, fra Riano e Scrofano, poco fuori Roma.
Il ritrovamento fu casuale, annusato dal cane di un brigadiere dei Carabinieri, tale Ovidio Caratelli, in licenza in quella zona: i resti, in una buca dove il corpo era stato deposto piegato e poi ricoperto di terra, in avanzato stato di decomposizione, richiesero per il riconoscimento la perizia odontoiatrica. Le indagini forensi accertarono con buona probabilità che l’uccisione avvenne per un colpo di pugnale al cuore, verosimilmente inferto nell’auto del rapimento stessa.
Il 20 agosto la salma di Matteotti venne portata alla stazione di Monterotondo e poi caricata su un vagone merci, sul quale di notte raggiunse Fratta Polesine, in modo da evitare manifestazioni di solidarietà e cordoglio lungo il tragitto. La camera ardente venne organizzata nella sua villa e i funerali celebrati il 21 agosto, con la partecipazione di circa diecimila persone.
In quei mesi molti adepti si dissociarono dal partito fascista, mentre le manifestazioni di solidarietà e di cordoglio si moltiplicarono. Molti borghesi temevano il ritorno del clima del biennio rosso, e Gramsci scriveva al Comitato centrale del Partito Comunista che erano in lotta generale contro il regime fascista, ma con la volontà di abbattere oltre che Mussolini e Farinacci “anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati”.
Se il partito comunista di Togliatti aveva agito praticamente in clandestinità per circa tre anni, adesso contava su oltre ventimila lettori del giornale e oltre ventimila iscritti al partito. Di certo le fratture interne all’opposizione non avevano portato a quello sciopero generale di ventiquattr’ore che era stato ipotizzato già il 13 giugno, e l’astensione di dieci minuti in occasione del trigesimo di Matteotti non aveva costituito un atto esemplare di protesta collettiva. Certo, manifestazioni c’erano state in varie parti d’Italia e in vari momenti, ma non si era sentito il peso dell’indignazione. Quindi, davanti ad un antifascismo comunque aumentato e anche ad un certo essere contro Mussolini della popolazione, non era stato possibile un colpo di mano, al quale gli squadristi avrebbero reagito sfiorando la guerra civile, e non c’era un’opposizione così coesa e decisa da prendere le redini della tragedia per cambiare le sorti politiche del Paese, dato che rimaneva soltanto la strada parlamentare da perseguire. Forti erano ancora le voci che vedevano Giolitti al governo al posto di Mussolini, segno che fosse sì una persona affidabile, ma anche che non c’era altra scelta appetibile. Mussolini poteva essere portato davanti all’Alta Corte di giustizia come mandante dell’omicidio, quindi la sua posizione passava dalla rabbia alla preoccupazione, fino alla speranza di poter reagire. Lo stesso nulla di fatto per lo sciopero generale dei suoi ex compagni di sinistra a Milano, alla Camera del Lavoro, lo aveva posto nella condizione di sperare che tutto si risolvesse da solo, con un niente.
La situazione era in equilibrio instabile e ogni spinta poteva farla precipitare. Questa si concretizzò con l’omicidio a colpi di rivoltella del deputato fascista Armando Casalini, delle Corporazioni sindacali, che scatenò una reazione a catena a partire dalla violentissima del fascismo. Gli industriali produssero un memoriale portato da una delegazione a Mussolini in cui chiedevano la normalizzazione del Paese e i giornali ne approfittarono per titolare che forse si stava realizzando un allontanamento degli industriali dal fascismo per avvicinarsi all’opposizione.
Il 12 novembre venne riaperta la Camera, evento anticipato con scialbi discorsi dal parte di tutti, fascisti e aventiniani, ma chiaramente sembrava che di giorno in giorno la maggioranza si stesse sfaldando, con Mussolini che non controllava più la situazione.
Il centro dell’opposizione sembrava ancora Giovanni Giolitti, che però non intervenne alla prima seduta della Camera, quando si sarebbero commemorati i deputati assassinati, Matteotti e Casalini compreso.
Venne votato il bilancio del Ministero degli Esteri comunque a larga maggioranza, con 315 voti favorevoli, ma qualche defezione. La discussione sull’approvazione del bilancio del Ministero dell’Interno fu più difficile, con 337 voti a favore, ma più contrari della votazione precedente. L’opposizione dimostrò di fare ancora ben poco per lottare e cercare di portare a cadere il governo: mentre Giolitti e Sturzo chiedevano di agire politicamente, gli aventiniani si limitavano alla questione morale, facendo conoscere vari documenti contro fascisti, come Italo Balbo, Cesare Rossi, e altri.
In tutto questo, Vittorio Emanuele III non aveva alcuna intenzione di occuparsi di politica: si organizzassero alle Camere per consentire l’intervento della Corona con un vero moto, altrimenti non se ne parlava affatto, in modo che il Re rimanesse defilato rispetto agli eventi.
Arrivati a dicembre, vista l’immobilità delle opposizioni, si passò all’azione d’aula, con Orlando che chiese al Re di riprendere in mano la situazione.
Nel dicembre 1924 la prima istruttoria del processo Matteotti venne interrotta perché Giuseppe Donati, direttore de Il Popolo, denunciò il Capo della Polizia per il quale poi venne chiesto il non luogo a procedere per i sedici atti d’accusa.
Con tensioni continue si arrivò al 3 gennaio 1925, quando Benito Mussolini, capo del governo, pronunciò il famoso discorso alla Camera nel quale si assumeva la responsabilità dell’omicidio Matteotti, episodio di un’estrema gravità: “dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto”, ascrivendo a sé anche la propaganda e il clima storico che si era creato in quel particolare periodo, del quale si assumeva la grandezza e il potere.
Il 31 dicembre era circolata la voce che il Re sarebbe intervenuto prendendo posizione, vociferando su un possibile stato d’assedio, ma tutto era rimasto in alto mare, con continue speranze e disillusioni per l’opposizione.
Lo stesso Turati scrisse che sembravano imminenti le dimissioni di Mussolini, ma che “si cominciò a dubitare che persistessero di fatto la solidarietà, volontaria o coatta, del re col Mussolini, al quale dubbio fornivano credibilità i due telegrammi dei principi di Savoia, figli del duca di Genova, al generale Gandolfo. Il sotto segretario all’Interno Dino Grandi narrava a tutti una telefonata corsa fra lui e il capobanda di Firenze, Tamburini, il quale, avvisato che si sarebbe sparato sul serio contro i fascisti turbolenti, rispondeva spavaldo che avrebbe rifatto la marcia su Roma”.
Era evidente che il vero fulcro ora era il Re con l’esercito, ma entrambi non sapevano come agire per il meglio. Il 2 gennaio 1925 Mussolini cercò di procurarsi un decreto di scioglimento della Camera in bianco, ma non sappiamo cosa si dissero i due quando il Duce andò alla firma reale quel giorno. Probabilmente arrivarono a un qualche accordo nel caso in cui Mussolini si fosse procurato la fiducia della Camera, con poi l’approvazione della nuova legge elettorale, e dopo la chiusura del processo Matteotti.
Nel discorso del 3 gennaio Mussolini affermò anche che: “L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area”.
Seguirono infatti due telegrammi ai prefetti in sostanza per fare rispettare l’ordine pubblico disponendo la chiusura di circoli politici, lo scioglimento di organizzazioni con sospetti turbolenti, la vigilanza su sovversivi e comunisti, eccetera. Seguirono anche altre comunicazioni per invitare la stampa fascista a rispettare le regole. La strada per la rivoluzione fascista era iniziata.
Gli atti del processo Matteotti tornarono alla magistratura ordinaria e il 9 ottobre 1925 il procuratore generale della Sezione d’Accusa chiese il rinvio a giudizio per Dumini, Volpi, Viola, Poveromo, Malacria per omicidio aggravato. Il processo venne organizzato nella più defilata cittadini di Chieti, dove l’avvocato difensore di Dumini fu appunto Farinacci, come era stato deciso in luglio, a indicare che il fascismo difendeva gli assassini principalmente contro il processo politico al fascismo. La famiglia Matteotti si ritirò dal procedimento giudiziario. La corte considerò l’omicidio preterintenzionale, condannando a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni Dumini, Poveromo e Volpi. Dato che il 31 luglio 1925 era entrata in vigore l’amnistia, Malacria e Viola vennero scarcerati, mentre gli altri rimarranno in carcere altri due mesi.
Possiamo dire che da quel momento la figura di Giacomo Matteotti venne bandita dall’Italia, tanto che anche solo nominarlo poteva causare problemi. La sua famiglia venne tenuta sotto stretta sorveglianza, mentre la sua popolarità all’estero era molto alta, citato da politici e letterati, tra i quali George Orwell, Marguerite Yourcenar e il sindaco di Vienna Karl Seitz che nel 1927 intitolò a suo nome un grande complesso residenziale di 452 appartamenti nel quartiere Margareten. Durante la dittatura di Dolfuss l’intitolazione a Metteottihof venne revocata e poi ripristinata nel 1945. Il processo Matteotti verrà riaperto il 27 luglio 1944 con Decreto Luogotenenziale n. 159: viventi e presenti al processo saranno ancora Dumini e Poveromo. A Mussolini venne imputata la correità sia nel sequestro che nell’omicidio aggravato, e si aggiunsero i reati di costituzione della Ceka e delle spedizioni punitive organizzate. Rossi venne graziato dall’amnistia, mentre Dumini, Viola e Poveromo vennero condannati all’ergastolo, pena poi commutata in trent’anni di carcere, dove Poveromo morirà nel 1952. Dumini ottenne la grazia e venne liberato il 23 marzo 1956.
Fonti bibliografiche principali
De Felice R., Mussolini e il fascismo. La conquista del potere, Einaudi, Torino, 2005
www.fondazionematteottiroma.org