Roberto Olevano. I Soldati del Primo Tricolore

  

I Soldati del Primo Tricolore

II Parte[1]

 Roberto Olevano

 

DALLA CISALPINA AL REGNO D’ITALIA (1802 – 1808).

Al momento della sua costituzione, a fine gennaio 1802, la Repubblica Italiana ereditò dalla Cisalpina un apparato militare debole e disgregato. La guardia nazionale, creata ad imitazione del modello francese, era stata ridimensionata dopo il trattato di Campoformio, anche perché, con la pace, era venuta meno per i francesi, la necessarietà dei corpi ausiliari italiani. La responsabilità principale della crisi della guardia nazionale ricadeva su alcune decisioni prese dal Governo della Cisalpina, il quale, con la Legge del 21 aprile 1801 aveva ammesso la possibilità, per i coscritti, di essere sostituiti attraverso il pagamento di una tassa. Pertanto, coloro che erano in grado di pagare il balzello, tra l’altro nemmeno tanto elevato, approfittarono di questa norma per farsi sostituire da individui, presi dai ceti più bassi, provocando un pericoloso abbassamento di livello della guardia nazionale. Altrettanto allarmante appariva la situazione delle truppe di linea, soprattutto nella cavalleria e nell’artiglieria, considerate armi “nobili”, che necessitavano di personale qualificato o almeno con un minino di istruzione. Assunto il 14 febbraio 1802 il comando delegato delle truppe, il vicepresidente Melzi, nominò aiutanti di campo Achille Fontanelli e Ottavio Corradini e propose come ministro della guerra il generale Alessandro Trivulzio, nominato da Bonaparte il 22 febbraio.

Il 18 agosto fu approvata la legge sulla coscrizione, con un contingente iniziale di 18.000 uomini tratti da 5 classi (1777 – 1781) e una riserva di 60.000 da formare con 5 contingenti annuali di 12.000. All’interno di ogni classe venivano iscritti per primi gli ultimi nati, in ordine decrescente di data di nascita; i figli unici di padre vivente o di madre vedova, quelli che avevano già un fratello sotto le armi e gli ammogliatisi dopo la pubblicazione della legge erano inseriti per ultimi nella lista della propria classe con lo stesso ordine di nascita e sarebbero stati gli ultimi ad essere eventualmente chiamati. Era infine prevista l’esenzione dalla coscrizione per varie categorie: i congedati; gli ammogliati che avessero contratto matrimonio prima della pubblicazione della legge; i vedovi con prole; ed infine i ministri della religione di Stato, (cattolica), promossi almeno al primo degli ordini maggiori. Un apposito titolo di legge, il terzo, si occupava poi della “requisizione”, cioè della leva effettiva del numero di uomini necessari a completare l’armata. Numero che era determinato dal Governo e da questo ripartito tra i dipartimenti in ragione della loro popolazione; a loro volta i consigli dipartimentali erano incaricati di dividere con lo stesso criterio i loro contingenti fra i rispettivi distretti, mentre ai consigli distrettuali spettava la ripartizione tra i propri comuni. Permaneva la norma che ammetteva la sostituzione, ma venne modificata con la possibilità per il coscritto che avesse presentato entro tre giorni, un sostituto idoneo di età non superiore ai trenta anni e che avesse pagato una tassa “in ragione della sua rendita” comunque non superiore alle mille lire milanesi.

Convincere un coscritto a star lontano da casa per quattro anni, per di più con l’incombente prospettiva della guerra, non era impresa facile, la legge sulla coscrizione, quindi, invitava le autorità dipartimentali ad avvalersi, nell’azione persuasiva della collaborazione, di quelle categorie che potevano maggiormente influire sull’animo popolare, cioè i cittadini più istruiti e i ministri del culto. Era giudicato, infatti, assai importante l’intervento del clero nelle campagne, gli ecclesiastici venivano invitati a facilitare l’attuazione della coscrizione sulla base dell’assunto che la professione delle armi non era in contrasto con i dettami del Vangelo, come dimostravano l’esperienza storica e l’esistenza degli eserciti negli Stati cristiani d’Europa. Il tentativo di utilizzare gli ecclesiastici come agenti di propaganda per la coscrizione sortì però scarsi effetti. Quasi tutti i vescovi, che non gradivano la parte loro assegnata dal governo, si trassero d’impaccio con pastorali generiche e poco impegnative e lo stesso dicasi per le omelie dei parroci.

Ad ogni modo la formazione delle liste di coscrizione andò egualmente avanti, pur se spesso in modo approssimativo e talora caotico. L’operazione riuscì più sollecita nei dipartimenti in cui le amministrazioni si dimostrarono più attive e si trascinò stancamente in quelli inoperosi, ma alla fine di maggio tutti i dipartimenti erano stati in grado di trasmettere al Ministero della guerra le proprie liste, ad eccezione di quello dell’Olona. Si erano in tal modo realizzate le premesse per passare alla fase della requisizione, cioè alla leva vera e propria, che per il primo anno doveva cadere, come già detto, su 18.000 coscritti. Ma la requisizione, nonostante le precauzioni ed i provvedimenti adottati, rivelò subito la sua profonda impopolarità, apparsa chiara già durante le fasi della coscrizione e tanto più diffusa in quanto si erano palesati i timori che le truppe della Repubblica potessero essere impiegate al di là dei confini. Melzi era fermamente intenzionato a completare il più presto possibile la leva con l’uso di tutti i mezzi disponibili anche perché la formazione di un esercito nazionale era per lui la premessa per cercare di ottenere l’evacuazione di una parte almeno delle forze francesi ed avviare così il risanamento delle finanze pubbliche. Il problema da affrontare apparve subito quello della renitenza, che divenne presto un fattore di grave turbamento nella vita della Repubblica. Quasi tutti i prefetti fecero immediatamente presente la necessità di avere a disposizione una adeguata forza armata, senza la quale la leva sarebbe riuscita di assai difficile attuazione. Melzi si convinse dell’opportunità di riorganizzare il corpo della Gendarmeria, che giudicava indispensabile al buon ordine interno dello Stato. Tra luglio e agosto del 1803 sostituì l’ispettore generale colonnello Agostino Piella, con il più capace Pietro Polfranceschi, e provvide a rafforzare i poteri del nuovo comandante che ottenne subito un accrescimento numerico del corpo che venne portato a 1.941 uomini su 13 compagnie. Nei primi mesi del 1804, comunque, erano stati ricostituiti i corpi tecnici e logistici e la scuola delle armi dotte ed era stata creata un’efficiente gendarmeria e una piccola marina. Grazie alla leva fu infine possibile inviare per la prima volta tre contingenti all’estero: una Divisione di 2.000 italiani e 2.500 polacchi a Taranto al comando di Giuseppe Lechi e una di 5.000 italiani a Calais al comando di Domenico Pino, più una Legione italiana all’isola d’Elba.

La Fanteria della Repubblica Italiana.

Con legge del 21 settembre 1801 la fanteria venne ordinata in 7 Mezze Brigate, 5 di linea e 2 leggere, di 2 battaglioni, con un organico totale di 15.120 uomini, il 27 settembre furono pubblicati i nomi degli ufficiali di fanteria compresi nel nuovo ordinamento. L’organico stabilito dalla legge ne prevedeva 427, ma in realtà ne furono inseriti 560 perché ad ogni compagnia furono aggiunti ben 2 sottotenenti. A causa della scarsità dell’indaco necessario per tingere i panni di verde, l’11 aprile 1802 si decise, per economia, di dare alla fanteria di linea panciotti e calzoni bianchi, lasciandoli verdi solo alla leggera. Il 30 settembre le MB furono ripartite tra le Divisioni attive: la 1a, 2a e 3a di linea, di stanza le prime due a Milano e l’altra a Novara, furono assegnate alla 1a Divisione comandata dal generale Lechi, la 4a di linea di stanza a Bologna e la 1a leggera a Modena alla 2a Divisione del generale Pino. Ad ogni Divisione era inoltre assegnata una MB polacca su 3 battaglioni, ognuno dei quali equivaleva ad una MB italiana. Pur pagando tre generali di divisione, l’intera fanteria italiana equivaleva perciò alla Brigata polacca, con la quale formava una Divisione di 11 battaglioni.

All’inizio del 1803 la 2a MB polacca giunse a Genova per imbarcarsi per Santo Domingo. Il 15 aprile, proprio alla vigilia della prima chiamata alle armi, Bonaparte fece riunire a Faenza una divisione italiana per costituire, assieme ad una francese, il corpo d’armata del Rubicone e del Mezzogiorno d’Italia, destinato ad occupare le coste della Puglia. A comandarla fu designato Lechi, il quale lasciò a Pino il comando della 1a Divisione di Milano. La fanteria contava 2 battaglioni polacchi e 3 italiani, completati coi coscritti, partiti in giugno e dislocati a Bari, Barletta e Lecce. In ottobre i legionari furono destinati al presidio dell’Elba, dove arrivarono in dicembre via Piombino. In novembre altri 6 battaglioni furono assegnati alla Divisione Pino per l’Armata della Grande Spedizione contro l’Inghilterra. Uno, il 1° della 1a MB leggera, fu però richiamato dalla Puglia e perciò alla Divisione Lechi rimasero solo 2 battaglioni nazionali. I 6 battaglioni rimasti all’interno formarono la 3a Divisione.

Il 15 gennaio la 1a leggera giunse a Parigi dove fu passata in rassegna da Bonaparte sul piazzale delle Tuileries, manovrando ai suoi ordini per più di due ore. Seguì un breve discorso, concluso dall’acclamazione dei soldati “Evviva Bonaparte nostro presidente!” e dalla consegna delle nuove bandiere. L’indomani la 1a partì per Cambrai e in marzo tutta la fanteria divisionale fu schierata a Calais. Il 9 ottobre 1804 la fanteria aveva 3.743 effettivi a Calais: 1.039 acquartierati al Forte Mieubry e 2.704 accampati sulla spianata della Cittadella. Il servizio di piazza a Calais impegnava ogni giorno 359 italiani, altri 810 formavano le guarnigioni di 81 pescherecci armati. Il 13 ottobre 3 fregate inglesi attaccarono a Capo Gravelines, presso Calais, 27 cannoniere olandesi che andavano ad unirsi al naviglio francese raccolto nella rada di Boulogne. I soldati italiani presero parte allo scontro sparando dalla spiaggia e dai pescherecci. Il 13 dicembre uno di questi catturò all’arrembaggio il mercantile inglese Mathilde e Napoleone concesse ai 10 italiani della guarnigione l’intero valore della preda (18.804 franchi). Malgrado ciò la Divisione era famigerata per indisciplina, cattiva amministrazione e sospetti politici e finì per essere smembrata tra vari presidi costieri.

La Cavalleria della Repubblica Italiana.

Ussaro del 2° Reg. (1801)
Immagine tratta da I soldati del primo tricolor.  Valerio Gramellini. Rivista Militare, Roma 1993.

 L’ordinamento provvisorio del 27 agosto 1800 assegnava alla cavalleria un organico di 1.272 uomini divisi in 2 reggimenti (ussari e cacciatori) su 4 squadroni di 156 uomini a loro volta divisi in 2 compagnie di 78. Il 4 settembre i reggimenti furono sdoppiati in mezzi reggimenti di due squadroni, assegnati alle Divisioni Italica Lechi (1° ussari a Como e 1° cacciatori a Varese) e Cisalpina Pino (2° ussari e 2° cacciatori, entrambi a Bologna). Il 12 ottobre gli 8 squadroni cisalpini avevano 1.482 effettivi e 1.259 presenti (390 ussari a Como e 486 a Bologna, 257 cacciatori a Varese e 126 a Bologna). I cavalli erano tuttavia appena 764 e 286 erano di proprietà dei 99 ufficiali presenti: di conseguenza solo il 41 per cento dei 1.160 sottufficiali e militari di truppa presenti era montato. Le cronache della breve campagna del 1800 – 1801 menzionano solo 6 squadroni (5 di ussari e 1 di cacciatori). La cavalleria assegnata alla Divisione Cisalpina, comandata da Carlo Balabio, includeva soltanto 2 squadroni che il 14 gennaio 1801 misero in fuga sotto Siena 300 dragoni leggeri napoletani. Altri 4 squadroni, tutti di ussari, presero parte alle operazioni contro gli austriaci: il 3° e il 4° con la Divisione Italica in Valcamonica, il 1° distaccato a Salò col gruppo Severoli e il 2° sull’Adige con la Brigata francese. Quest’ultimo poi prese parte al blocco di Peschiera, mentre il 1°, aggregato ad una Divisione francese, superò Rivoli e La Corona e il 3 gennaio entrò ad Ala. Intanto il 3° era sceso in Trentino valicando due passi coi cavalli imbracati e trascinati nella neve e, riunitosi col 4°, arrivato da Brescia dopo avervi scortato l’artiglieria francese, il 3 e 5 gennaio sloggiò il nemico dagli avamposti nelle alte valli del Chiese e del Sarca e il 6 attaccò il ponte di San Lorenzo, entrando il 7 a Trento, evacuata dagli austriaci in ritirata. Il 17 gli ussari marciarono al blocco di Mantova, ma, a seguito dell’armistizio, furono inviati a Piombino, rientrando a Milano il 1° maggio. In memoria della campagna, il 20 agosto 1802 gli squadroni del 1° ussari ricevettero i nuovi stendardi con le seguenti iscrizioni: 1° squadrone “benemerito della Patria”; 2° “campagna dell’anno IX”; 3° “trincere di Condino superate”; 4° “ponte di Trento conquistato”. Nel frattempo, la legge d’ordinamento del 30 dicembre 1800 aveva elevato l’organico delle 16 compagnie a 83 uomini e dei 2 reggimenti a 1.376. Il 23 aprile gli effettivi erano 1.217 ma erano ripartiti non fra due, bensì fra tre reggimenti, 2 a Varese e Gallarate e uno in Toscana. Luigi Campagnola già capobrigata del 1° ussari cisalpini, poi generale di brigata, fu nominato comandante in capo della cavalleria e svolse con impegno il suo incarico. Innanzitutto, fece istituire a Milano una scuola di equitazione e scherma per formare gli istruttori delle truppe montate e non mancò di controllare la disciplina dei corpi. Evidenziando il ruolo fondamentale di questa arma, anche a ragione dei grandi spazi della Pianura Padana, Campagnola insistette affinché venisse potenziata, addestrata e che venisse sensibilmente aumentata la retribuzione: c’era da considerare infatti che la divisa di un ussaro poteva costare anche 1.500 lire, corrispondente ad un anno di stipendio di un sottotenente. Sempre secondo il parere del Campagnola la cavalleria doveva essere acquartierata in luoghi piovosi perché abbondanti di foraggio, con maneggi coperti per non lasciare oziosi i cavalli col tempo cattivo e vicino ai fiumi, per la cura dei cavalli e l’addestramento al guado. Il problema maggiore della cavalleria italiana erano il costo e la reperibilità dei cavalli. La durata massima era di dieci anni, ma un cavallo impiegato all’estero deperiva per il cambiamento di clima e i cavalli requisiti duravano due mesi sotto il servizio militare. L’autore calcolava che nell’arco di un decennio si dovessero approvvigionare 20.000 cavalli. Il prezzo corrente era di 600 lire milanesi, dunque una spesa di 12 milioni. Occorreva dunque potenziare le risorse nazionali e il sistema alla lunga più economico era quello delle mandrie, allevamenti gestiti direttamente dall’esercito, ma la Repubblica non aveva i capitali occorrenti per un investimento a medio termine. Si doveva perciò incentivare l’allevamento privato.

L’Artiglieria della Repubblica Italiana.

La legge del 21 settembre 1801 sul nuovo ordinamento dell’esercito, triplicò l’organico dell’artiglieria a 3.000 uomini, inclusi 91 ufficiali e 41 civili, ordinati su 32 batterie. Queste ultime corrispondevano ai quadri esistenti, ma soltanto 8 erano attive in tempo di pace. Gli ispettori d’artiglieria e genio proposero di designare Pavia come sede degli stabilimenti d’artiglieria. Situati dietro la seconda linea dell’Adda e sul Ticino, sarebbero stati al sicuro da un’eventuale offensiva austriaca. Inoltre, Pavia era ottima anche per ricevere le materie prime dal Lago Maggiore e rifornire le piazzeforti di Pizzighettone, Mantova e Ferrara e le batterie da erigere alle foci del Po e lungo la costa romagnola. La proposta fu approvata dal governo con decreto dell’8 giugno. Il 4 luglio fu istituito un laboratorio dei materiali d’artiglieria con annessa scuola artificieri. Nell’agosto 1802 l’artiglieria italiana contava 614 pezzi (532 cannoni, 55 obici e 27 mortai), tutto materiale obsoleto in bronzo. Il 9 settembre Bonaparte decretò la cessione alla Repubblica Italiana, fino al valore di 4 milioni di franchi, delle artiglierie, armi e munizioni esistenti nelle sue piazzeforti, la nomina di una commissione mista per l’inventario e la stima del materiale e la rifusione dei pezzi, a cura e a carico del governo italiano, nei calibri d’ordinanza francesi (cannoni da 6, 8, 16 e 24, mortai da 8 e 12 pollici, obici da 5 pollici e 6 linee). Lo stesso decreto imponeva inoltre al governo italiano di costruire due equipaggi da ponte (uno per il Po e uno per l’Oglio e l’Adige) da stabilire a Pizzighettone con gli equipaggi d’assedio, di riserva e di campagna e una sala d’armi di 15.000 fucili, stabilendone un’altra di 10.000 a Mantova. Un altro decreto consolare del 21 novembre determinò l’armamento e il servizio delle piazze principali (il Quadrilatero Mantova, Legnago, Peschiera, Verona più Pizzighettone) e di altre cinque minori (a nord del quadrilatero: Rocca d’Anfo, Orzinovi e Brescia, a sud dello stesso: Ferrara e Forte Urbano). L’armamento, stabilito con la consulenza di Calori, prevedeva complessivamente 25.100 uomini, 8.100 fucili di riserva e 626 bocche da fuoco con 337.000 colpi. A Pavia dovevano trovarsi inoltre i due parchi d’assedio e da campagna, rispettivamente con 70 e 60 pezzi, più altri 10.000 fucili di riserva.

L’articolo 3 del decreto, che riservava agli ufficiali francesi non solo il comando delle piazzeforti, ma anche, in via esclusiva, la disciplina degli arsenali e la direzione dei lavori, suscitò le rimostranze degli italiani e Melzi sollevò la questione con Bonaparte, ma, a parte qualche contentino marginale, non ottenne la modifica del decreto. Nel frattempo, era stato completato l’inventario e il 2 aprile 1803 il capobrigata Claude Saint Vincent consegnò al parigrado italiano Frederic Guillaume 937 pezzi (401 in ferro e 383 in bronzo di calibri regolamentari e 153 fuori ordinanza) per 4.016.580 franchi.

Il 2 maggio 1802 il governo aveva approvato il progetto che prevedeva di destinare 12 pezzi da battaglia e 10 pesanti, con 2 affusti da piazza, 2 da costa, una squadra del treno, addestrando i cannonieri, con munizioni fornite dai francesi, alla manovra, alla costruzione e al servizio delle batterie da battaglia, da costa, da piazza e d’assedio, nonché, in attesa di essere armati con fucili leggeri, anche alla scuola di plotone e alle manovre di fanteria. La Scuola teorica e pratica d’artiglieria fu ufficialmente istituita a Pavia dallo stesso Bonaparte, con decreto consolare del 22 luglio 1803, che prescriveva un esame di matematica per l’ammissione tra gli ufficiali d’artiglieria e fissava l’inizio dei corsi per il 15 settembre.

Nell’aprile 1803 gli effettivi dell’artiglieria giunsero al minimo di 706 uomini: in particolare le 6 batterie cannonieri avevano appena 290 effettivi. Tuttavia, sui 18.000 coscritti chiamati alle armi in estate, ne furono assegnati all’artiglieria 2.032, inclusi 394 del dipartimento dell’Olona. Furono così completate le batterie già attive e attivate le altre, incluse quelle dei pontieri e degli armaioli. Furono inoltre costituiti due nuovi corpi; in agosto il battaglione dei marinai cannonieri addetto alla flottiglia e alle batterie costiere; in settembre l’artiglieria della Guardia del Presidente su 2 batterie, con 76 cannonieri a cavallo e 78 militari del treno d’artiglieria. Nel dicembre 1803 gli effettivi dell’artiglieria erano già triplicati a 2.113 con 474 cavalli, anche se il treno fu completato per ultimo solo un anno dopo, quando la forza giunse al massimo di 2.386 effettivi, pari al 79% del nuovo organico.

Il Genio della Repubblica Italiana.

Il decreto del 27 agosto 1800 sull’ordinamento provvisorio del nuovo esercito cisalpino riduceva a 7 gli ufficiali del corpo ma in compenso raddoppiava a 600 le truppe del Genio inquadrati in due compagnie di 100 pontonieri, due di 150 zappatori e una di 100 minatori. L’articolo 8 della Legge 30 dicembre 1800 sull’ordinamento definitivo dell’esercito aveva ridotto drasticamente il corpo del Genio, articolato su una direzione delle fortificazioni e una sola compagnia mista di minatori e zappatori, mentre i pontonieri erano trasferiti all’artiglieria. La direzione includeva appena 15 ufficiali: 1 colonnello, 2 capibattaglioni, 3 capitani di 1a classe, 3 capitani di 2a, 3 tenenti di 1a classe e 3 tenenti di 2a. La compagnia aveva un organico di 101 uomini da formare con militari ceduti dalle altre armi. Con la legge del 21 dicembre 1801, gli organici vennero decuplicati diventando ben 1.443 mentre gli ufficiali diventavano 92.

 

DALLA REPUBBLICA AL REGNO.

Il 17 marzo del 1805 Napoleone trasformava la Repubblica italiana in Regno d’Italia[2] proclamandosene re, e qualche mese dopo, il 7 giugno, messo da parte Melzi, nominava viceré il figliastro Eugenio Beauharnais, allora ventitreenne. Nasceva così quell’organismo statale che, ampliato nell’aprile 1806 con i paesi veneti sulla sinistra dell’Adige, nell’aprile 1808 con la Marca di Ancona e i territori di Urbino, Fermo, Macerata ed Ascoli e il 1° maggio 1810 con il Tirolo meridionale, sarebbe durato sino all’aprile 1814 allargandosi nel momento della sua maggiore espansione territoriale su una superficie di 84.000 km quadrati e con una popolazione di più di 6.700.000 anime. Il 7 giugno 1805 Napoleone indirizzava ad Eugenio le istruzioni a cui avrebbe dovuto attenersi nell’esercizio delle funzioni a lui delegate. In pratica l’imperatore riservava a sé stesso un ampissimo potere di intervento, dirigendo il viceré nelle sue attività all’interno di una visione politica che aveva come punto di riferimento centrale il superiore interesse della Francia, di fronte al quale ogni altra considerazione avrebbe dovuto passare in secondo piano. Fu quindi Napoleone ad orientare l’azione dell’amministrazione militare, a compiere le scelte di fondo in materia di coscrizione, a determinare l’organico e l’articolazione dei corpi, a definire le modalità del loro impiego all’interno della Grande Armée. Nei primi anni del Regno il punto nevralgico dell’apparato militare restò quello della coscrizione e della leva, un meccanismo che richiese vari aggiustamenti e revisioni per riuscire ad eliminare i difetti e a superare le difficoltà che avevano reso così faticose e contrastate le requisizioni del periodo repubblicano. Un primo passo avanti fu compiuto in occasione della leva del 1805, decretata il 24 giugno per mettere a disposizione del governo 3.000 uomini per l’armata attiva e 3.000 per la riserva ai quali Napoleone aggiunse altri 1.000 coscritti scartati per la bassa statura. La statura minima per il servizio in fanteria non dipendeva da criteri estetici, ma dalla lunghezza del fucile. Bastava quindi integrare i fucili con armi più corte per recuperare una parte dei coscritti scartati alla visita di leva. Napoleone applicò il principio ai più bassi, battezzandoli “volteggiatori” e riunendoli in compagnie scelte con soldo da granatieri, che prendevano il fianco sinistro del battaglione.

A norma delle istruzioni emanate per regolare la leva del 1805 era prevista in ogni dipartimento la formazione di un Consiglio di leva dipartimentale, di consigli di leva distrettuali e di commissioni di leva cantonali. Al vertice di questa struttura piramidale stava il prefetto, che presiedeva il Consiglio dipartimentale, del quale facevano parte un membro del Consiglio di prefettura estratto a sorte e l’ufficiale di gendarmeria di grado più elevato presente nel capoluogo. Lo stesso prefetto sceglieva e nominava i due membri del Consiglio di leva distrettuale che affiancavano il viceprefetto. Ma se in tal modo venivano accresciuti i poteri direttivi e di controllo dei prefetti rispetto alla pratica delle precedenti requisizioni, l’istanza operativa di base, sulla quale veniva a poggiare tutta la costruzione, diventava la Commissione Cantonale che era composta di un podestà e di due savi municipali ed aveva per segretario il cancelliere del censo. A questi organismi era infatti affidata l’esecuzione della leva dei propri contingenti e l’incombenza di far scortare i requisiti fino al Consiglio Distrettuale, che li avrebbe poi inviati al Consiglio Dipartimentale, incaricato a sua volta di verificare che tra i giovani così affluiti non ci fossero individui inabili o indebitamente requisiti. La leva del 1805 e quella del 1806, decretata sempre il 24 giugno 1805 per lo stesso numero di coscritti ed eseguita con le stesse norme del gennaio 1806, risentirono dunque degli inconvenienti connessi con il metodo adottato e registrarono gli stessi disordini e le stesse resistenze che avevano contraddistinto la requisizione negli anni repubblicani. Il successo della leva, un’operazione che si presentava ancora per molti aspetti come un problema di polizia, continuava a restare legato alla disponibilità di consistenti reparti di forza armata, ma in alcuni dipartimenti le brigate di gendarmeria erano insufficienti, poiché già impegnate nella difesa dell’ordine pubblico contro i briganti. L’esecuzione delle leve del 1805 e del 1806 venne rallentato anche da una sopravvenuta novità: l’abrogazione di fatto della facoltà di farsi sostituire concesso dalla Legge del 1802. Abrogazione sancita da un articolo del decreto istitutivo della Guardia Reale, la quale aveva proibito il rimpiazzo nei dipartimenti che non avessero completato il loro contingente. Pertanto, siccome in molti dipartimenti non era stato possibile arrivare a saldare questo contingente neppure nel corso di due anni, la conseguenza fu che, come si esprimeva un documento ministeriale, “dovettero marciare coscritti ammogliati, capi e sostegni di famiglia, lasciando nella più dura indigenza le mogli, i figli, i cadenti genitori”.

Repulsione dei coscritti per la leva e conseguente emigrazione o abbandono della propria residenza, scarsità della forza armata utilizzabile in funzione repressiva, connivenze e negligenze di autorità civili e militari, difetti intrinseci della legge istitutiva della leva erano alcune delle cause principali che inceppavano il funzionamento della requisizione. Continuavano ad agire negativamente le pratiche che permettevano ai giovani delle famiglie abbienti di sottrarsi alla chiamata. Le conseguenze erano rilevanti non tanto sul numero di coloro che riuscivano ad eludere la leva, che non erano poi così numerosi, quanto nell’alimentare il rancore dei ceti meno abbienti a causa di quelle sperequazioni sociali che la rivoluzione aveva proclamato di voler eliminare. I ceti popolari si sentivano vittime di una odiosa discriminazione perché sembrava loro di essere i soli a dover sopportare il peso della “tassa del sangue”. Tra queste pratiche c’era l’indulgenza dei medici e chirurghi incaricati delle visite presso commissioni e consigli di leva, inclini ad esentare soprattutto i giovani più abbienti. Vi era poi la strada dell’ingresso nei seminari che era stata utilizzata anche in passato ma che si era fatta più larga dopo la firma del Concordato tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede il 16 settembre 1803. L’accordo tra il ministro della guerra e quello del culto stabiliva che andassero dispensati dalla requisizione i giovani ammessi nei seminari, e quelli che, in mancanza di seminari o dei mezzi per aprirli, fossero stati educati fuori dagli stessi seminari dai loro presidi o da maestri nominati dai vescovi.

La fanteria del Regno d’Italia era così composta: 1° di linea mantovani e veronesi; 2° ferraresi e modenesi; 3° novaresi e milanesi; 4° reggiani e pavesi; 5° bolognesi e romagnoli; 1° leggero bresciani e bergamaschi; 2° valtellinesi e comaschi. Ad ogni corpo erano inoltre aggregati 2 battaglioni cantonali, inquadrati da 14 capitani, 34 tenenti e 213 sottufficiali e formati dai contingenti di riserva. La cavalleria era inquadrata nel 1° reggimento di nuova formazione, che doveva essere insignito del nome di Dragoni di Napoleone. In realtà il nuovo reggimento non fu costituito e il nome fu attribuito invece, con ordine del giorno del 4 febbraio 1805, al 2° ussari rientrato da Cambrai, probabilmente perché era l’unico reggimento di cavalleria italiano ad aver ricevuto lo stendardo dalle stesse mani di Napoleone. Per simmetria con il nome dato all’ex 2° ussari, si propose di dare all’ex 1° quello di “Giuseppina”: ma con decreto del 19 giugno 1805 Napoleone lo chiamò invece “Regina” commentando che fosse ridicolo che un corpo militare portasse un nome di donna. Si noti che il referente restava nel vago, perché Giuseppina era soltanto imperatrice e non anche regina d’Italia: mentre il titolo di viceregina era dato alla giovane sposa del principe Eugenio, principessa Augusta Amalia di Baviera, che nel marzo 1807 donò i suoi nastri agli stendardi degli squadroni in partenza per la Germania. Benché i nomi dati ai due reggimenti suggerissero un’inversione di rango, in realtà venne mantenuta la vecchia precedenza tra 1° e 2° ussari, dandola ai dragoni Regina sui dragoni Napoleone. L’artiglieria fu inquadrata con uno Stato Maggiore di 18 (1 colonnello, 2 capisquadrone, 2 aiutanti maggiori, 1 quartiermastro, 3 chirurghi, 2 aiutanti sottufficiali, 1 brigadiere, 1 veterinario e 5 maestri: un sellaio, uno stivalaio, un sarto, uno speronaio e un armaiolo) con 22 cavalli; 2 compagnie cannonieri con 5 ufficiali, 98 uomini (armati di sciabola e pistola) e 103 cavalli; 4 compagnie del treno con 2 ufficiali, 98 uomini (armati di fucile e sciabola) e 180 cavalli. Dispersa nelle piazzeforti e nel blocco di Venezia, l’artiglieria non fu impiegata sul campo di battaglia, tranne la mezza compagnia a cavallo della Brigata Ottavi rientrata da Rimini, che si distinse nella battaglia di Castelfranco del 24 novembre. La compagnia a cavallo della Guardia Reale, comandata interinalmente da tenente Giuseppe Fortis, seguì invece l’avanzata della Grande Armée e il 2 dicembre si batté ad Austerlitz.

La novità fu la creazione della Guardia Reale con una Guardia d’Onore composta da quattro compagnie, denominate la prima di Milano, la seconda di Bologna, la terza di Brescia e la quarta della Romagna, ciascuna composta di 100 uomini, di cui 60 a cavallo e 40 a piedi. Inoltre, facevano parte della Guardia Reale due battaglioni di Veliti, ciascuno di 800 uomini, uniti uno ai Granatieri a piedi della Guardia e l’altro ai Cacciatori a piedi della Guardia. Il 20 settembre 1805 furono poi istituiti due squadroni di Veliti a cavallo, anche questi uniti ai Granatieri ed ai Cacciatori a cavallo della Guardia. Nel 1806, dopo un reclutamento di 2.000 nuovi veliti di fanteria, furono formati due nuovi reggimenti della Guardia. Il termine latino velites fu scelto al posto della denominazione di cadetti, troppo legata all’ancien régime per poter essere ripristinata nel gennaio 1804, quando Bonaparte non era ancora Imperatore. Il decreto sull’organizzazione della Guardia Reale che Napoleone firmò a Mantova il 20 giugno 1805 prevedeva, dopo il corpo delle Guardie d’Onore e il corpo dei Veliti Reali, un Corpo di Guardie della Linea composto di un reggimento di due battaglioni (il primo di cinque compagnie di Granatieri e il secondo di cinque compagnie di Cacciatori, ogni compagnia di 100 uomini), di uno squadrone di Dragoni su quattro compagnie e di una compagnia di Artiglieria leggera.

 

 

[1] La prima parte è stata pubblicata su questa Rivista, Anno LXXXI ,Supplemento XIX, n. 2, 2021, 19° della Rivista

[2] Particolare curioso, sempre il 17 marzo, cinquantasei anni dopo (1861) Vittorio Emanuele II assunse per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia, data che oggi celebra la nascita dello Stato Italiano.