La Pace di Montelungo

  

La Pace di Montelungo

di Marco Fiorini

Questo monologo narra avvenimenti storici, ma non solo, anche quelli interiori… è dedicato a mio padre Corrado. Lui c’era.

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Ognuno è eroe della propria vita, della propria storia.

Ma io non volevo diventare noto in quel modo. No, non lo avrei mai voluto. Quanto sarebbe stato meglio rimanere una collina come tante.

Sì, una collina, ma qualcuno mi volle chiamare Monte anche se la cima più alta delle mie tre arriva solo a 351 metri sul livello del mare, una sciocchezza… nulla di particolarmente appariscente. Mi vollero chiamare Montelungo forse perché sono più lungo che alto con le mie tre cime allineate… tre quote da collina, sì, per un Monte Lungo.

Ma ora so il perché.

So anche perché ho tre cime.

So il perché del mio nome e adesso so qual è la mia missione, il mio compito su questa terra…

Ricordare, tramandare quello che mi accadde nel dicembre del 1943.

Ri-cor-dare, ri-dare al cuore e cantare come solo un vecchio Aedo dell’Antica Grecia potrebbe fare e commuovere l’anima di coloro che mi ascoltano.

Posso farlo, ma non è solo questo il mio compito…

 

Erano poco più di trecento, avevano ventun anni, gli Allievi Ufficiali di Complemento del LI Battaglione Bersaglieri, addestrati a Marostica; l’8 settembre del ‘43, il giorno dell’armistizio, si trovavano in Puglia, il 9 settembre avevano già liberato Bari dai tedeschi e il 7 dicembre furono stanziati nei miei pressi. Sarebbero diventati il Nuovo Esercito Italiano aggregato alle forze Angloamericane nella Guerra di Liberazione. La mia posizione sbarrava il passo agli Alleati, io rappresentavo il passaggio obbligato per raggiungere Cassino, poco più a nord e poi Abruzzo, Marche, Bologna… liberare l’Italia: i partigiani da nord, noi da sud.

 

I Tedeschi sapevano bene come usare la mia conformazione.

Mai avrei voluto vedere quei ragazzi l’8 dicembre, appena arrivati, senza conoscermi, avanzare verso di me fra la nebbia, ignari dei nidi di mitragliatrici tedesche mimetizzati fra le rocce, appostati alle pendici della quota 253, la più bassa. Mai e poi mai avrei voluto vederli cadere tra le pietre e il fango, uno dopo l’altro. La 2° Compagnia del LI Bersaglieri sterminata. Crivellati di colpi, uno dopo l’altro. Ho ancora nelle orecchie il crepitio delle MG42 tedesche, il feroce ritmo automatico di 1200 colpi al minuto… TRRRR… 20 pallottole al secondo… TRRRR. E il controcanto degli italiani Breda 38 TA-TA-TA-TA…. non superavano i 300, forse 400 colpi al minuto TA-TA-TA-TA… TRRRR… un’altra musica.

 

Gli Alleati non si fidavano, avevano voluto una prova di credibilità dal Nuovo Esercito Italiano: (pronuncia anglofona) “Fateci vedere che veramente volete liberare la vostra Patria dall’invasore tedesco. Dateci una prova di sangue, fatecelo vedere se è blu come il nostro”. E il Re era stato d’accordo: (pronuncia piemontese) “Oh basta là, su! Su, su! Fuma che ‘nduma!”

Ma io no, non avrei voluto vedere le loro fronti forate attraverso l’elmetto, ascoltare l’agonia dei feriti, sentire il loro caldo sangue bagnare la mia fredda terra.

Lo sgomento e la rabbia dei sopravvissuti a quell’ingiustizia.

Il silenzio a denti stretti di quelli che sanno che la storia non viene scritta da chi l’ha vissuta.

 

E poi il secondo attacco, il definitivo. Era il 16 dicembre, i giovani della 1° Compagnia raggiunsero rapidamente la mia seconda cima, la quota 343, ma i tedeschi certamente non gliela avrebbero fatta passare così tanto liscia; quei ventunenni lo sapevano e con le mani nude, scavarono buche fra i miei sassi… perché non avevano badili e tanto meno picconi; con le unghie della disperazione si prepararono alla notte più lunga della loro vita, sotto il bombardamento dei mortai nemici.

Io li sentivo, nel buio non potevo non ascoltare il martellamento dei colpi, tutta la notte e le urla mute di quei ragazzi rannicchiati, il frastuono dei loro pensieri, le bestemmie ingoiate, le preghiere fra i denti, le maledizioni soffocate, le invocazioni alla madre, aggrappati alla terra con negli occhi ancora nitido il massacro dei loro compagni, solo otto giorni prima.

E poi, dolce, dopo ogni scarica micidiale, il rintocco confortante delle loro voci chiamarsi per nome, l’un l’altro, con la trepidazione di sincerarsi che nessuno fosse stato colpito.

E nessuno, grazie a Dio, fu colpito!

 

Ora mi chiedo: quante cime si devono conquistare per trasformarsi in eroe?

Dopo tanti anni, tante parole, tante ricostruzioni della mia battaglia, la Battaglia di Montelungo, è giunto il momento che anch’io canti la mia, solo una volta prima del silenzio… Non volevo farlo perché non amo la luce dei riflettori né il frastuono degli altoparlanti, ma ormai mi rendo conto che anch’io ho una missione.

Meditando in tutti questi anni, ho appreso che le gesta eroiche sono di due tipi: ci sono eroi che compiono un’impresa coraggiosa sacrificando il proprio corpo, morendo per un ideale e ci sono eroi che compiono imprese interiori che li spingono a tornare recando messaggi profondi.

 

Così come fece Priamo al termine dell’Iliade quando andò a riprendersi il corpo di Ettore. Inerme, nella notte, il re Priamo raggiunge Achille nell’accampamento nemico e inginocchiandosi ai suoi piedi gli offre doni pregandolo di ridargli in cambio il corpo di suo figlio Ettore. Achille, stupefatto dal coraggio e dall’amore paterno del vecchio Re, lo abbraccia come se fosse Peleo, suo padre. I due piangono assieme. Achille gli offre un banchetto e gli restituisce il corpo di Ettore lavato e unto di unguenti come un eroe si merita.

E il vecchio Priamo ritorna recando un messaggio che va oltre, oltre lo spazio, oltre il tempo…

 

Io sono Montelungo, sono il più vecchio dei reduci, sono l’ultimo sopravvissuto alla mia battaglia e fino a ieri mi sembrava un torto, come se fosse stata una colpa l’essere stato risparmiato, ma oggi ho compreso il mio compito.

Adesso so perché ho tre cime e so il perché del mio nome.

Sono Montelungo perché lungo è il cammino che porta alla conquista delle tre cime che di un uomo fanno un eroe: il Coraggio! Certo, ma non è sufficiente. La Volontà! Sicuro, ma non basta. La Volontà senza Coraggio rende ciechi, rigidi e freddi. Il Coraggio senza Volontà ridurrebbe volubili e inconcludenti. Il Coraggio senza la Volontà, la determinazione perseverante non riesce a raggiungere l’obiettivo; né la Volontà fine a se stessa senza il Coraggio del cuore riuscirebbe a osare. E quale sarà la terza cima da conquistare senza la quale né Volontà né Coraggio saprebbero discernere le mete più importanti?

 

In tutti questi anni ho appreso che il traguardo è perseguibile quando l’eroe Vuole e Osa perché Sa. La Saggezza gli suggerisce che esiste qualcosa che va oltre e vuole tendere verso di esso osando col cuore.

Questo è un eroe che non vuole medaglie. La sua medaglia è il messaggio che porta.

 

Basta! Basta così! Sì, ora è abbastanza!

Ora tutti sanno chi sono ed è fondamentale che a tutti giunga il mio messaggio imperituro: pace ai miei figli, agli eroi della mia battaglia, pace ai caduti, pace al labaro, pace ai sopravvissuti perché le mie tre cime, la Saggezza, la Volontà e il Coraggio ci hanno resi eroici ed ora è il momento della riconciliazione con l’agognata e meritata serenità di dissetare in modo cristallino il bisogno profondo di affrontare le battaglie della vita con la Pace nel cuore.

 

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