Valore e destini politici
Maria Luisa Suprani Querzoli
All’approssimarsi del 24 ottobre, la figura del generale Luigi Capello[1] riappare immancabilmente nei discorsi animati dei cultori della Grande Guerra, tesi a ridefinire le responsabilità sottese alla sconfitta di Caporetto. Si è ancora distanti dall’accettazione dell’analisi storica inerente al suo comando: le opinioni, infatti, si dividono nettamente, sfociando nella contrapposizione fra irriducibili detrattori e sostenitori pretoriani (in netta minoranza). L’odio che ancora intride certi giudizi tranchant risente – a distanza di oltre cent’anni – dell’operato parziale della Commissione d’Inchiesta, di cui rimane chiara traccia nella Relazione conclusiva. Essa riuscì, artatamente, a trasformare l’immagine del più valente tattico italiano della Prima guerra mondiale – a cui si devono, vale ricordare, la presa di Gorizia, determinante, nonché la schiacciante vittoria sulla Bainsizza – in quella del brutale macellaio privo di scrupoli.
Il persistere nella memoria collettiva di tale icona negativa[2] impedisce di considerare obiettivamente gli apporti tecnici e culturali[3] riconducibili a Capello, bastevoli di per sé ad assicurargli un posto di primissimo piano nella Storia Militare (non solo) d’Italia, malgrado le responsabilità – non esclusivamente a lui imputabili – inerenti a Caporetto.
Tale bilancio obiettivo del suo operato[4] non è reso possibile solo ora a distanza di tempo dai fatti: già durante il ripiegamento dall’Isonzo al Piave diversi furono gli Ufficiali che lamentarono i portati dell’assenza del Comandante, dapprima dettata da motivi di salute[5] e, in seguito, dall’allontanamento dalla zona di guerra decretato dall’avvio dell’inchiesta.
Vuol dire che, se mi daranno un cicchetto, te lo comunicherò e tu ne terrai conto per darmene uno di meno quando tornerai per riprendere il comando dell’armata, cosa che auguro e spero succeda molto presto, troppo diversi essendo i metodi di governo attuali, da quelli ai quali eravamo abituati, e che portavano ben altri frutti.[6]
Se lui fosse stato qui a Giugno si sarebbe potuto fare molto di più – il fronte lo consentiva […] non c’è che Lui che possa riportarci a Gorizia.[7]
«“Lo vidi percorrere a piedi tratti della valle dell’Aucek, dell’altipiano di Ver e di Bate, località che erano quasi sempre battute dall’artiglieria nemica. Chiunque incontrava, animava ed incitava”. […] “S.E. il Generale Capello fra le truppe del 24° Corpo d’Armata godeva molto ascendente. Era ritenuto un grande Comandante. Rammento che durante il ripiegamento di Caporetto numerosi ufficiali e militari di truppa esclamavano queste testuali parole: Se ci fosse il Generale Capello non si ripiegherebbe certo a questo modo”»[8]. La testimonianza di Da Pozzo pose poi in luce senza perifrasi la missione meramente politica della Commissione d’Inchiesta su Caporetto: «nel 1922 “a Torino, a Milano, a Roma, a Trieste, dove in questi ultimi mesi risiedei a lungo, non ho sentito che parole di elogio per il valore e la capacità del generale Capello. Da numerosi ufficiali ho sentito commentare non benevolmente il provvedimento che lo allontanò dall’Esercito”»[9].
Le sue abilità ebbero modo di rifulgere un’ultima volta, prima di tale irreversibile allontanamento, nel comando della V Armata, definita della riscossa, a lui affidato per volere dell’antico Sottoposto, divenuto poi Sottocapo di Stato Maggiore, generale Pietro Badoglio[10]. Superate le forche caudine della sconfitta, capaci di rivelare in modo drastico i limiti disfunzionali di un assetto obsolescente, i principi ed i portati dell’insegnamento del Comandante si rivelarono nella loro palese efficacia, ma le circostanze (e – non ininfluenti – i voleri di alcuni) concorsero al disconoscimento del suo operato: la V Armata, fra le cui file figuravano coloro che meno si erano fatti onore durante l’ottobre precedente, una volta da lui condotta in piena efficienza, venne smembrata[11] per rinsanguare le forze laddove più urgenti si dimostrarono le istanze.
Ma le innovazioni poste in essere da Capello portarono frutti anche (e soprattutto[12]) dopo il suo allontanamento dalla zona di guerra:
Parecchi ufficiali mi hanno confermato con un certo senso di amarezza il fatto già noto a Lei, che molti insegnamenti da me impartiti, molti sistemi da me adottati[13], molti punti di vista che mi erano particolari siano ora stati generalizzati nell’esercito come cose nuove e peregrine. Purtroppo è pure noto che tali insegnamenti, sistemi e punti di vista altra volta avevano suscitato tante diffidenze, attriti e difficoltà. […] Non richiedo il brevetto di ciò che feci od integrai. Quanto operai, io rivolsi unicamente al bene ed alla grandezza del mio Paese non per trarne vanto o interesse personale. Sono quindi ben lieto che l’opera mia, anche da altri continuata, abbia contribuito al fine a cui miravo. Ma che si debba mettermi da parte, o peggio ancora calpestarmi, no per Iddio!![14]
Ancora oggi, l’ambizione animatrice di Capello viene confusa con lo sterile arrivismo, ignorando i veri motivi che ne sostenevano l’incessante procedere culminato poi nel rovescio di fortuna. La conoscenza delle ragioni del suo agire fa però comprendere che l’impulso alla base della sua ambizione di pervenire ai più alti gradi era dettato dalla volontà di amplificare la portata del proprio intento pedagogico: l’esperienza militare, durissima e formativa, avrebbe dovuto restituire al Paese cittadini migliori[15]. L’azione di comando del Generale trae quindi vigore da una motivazione di ordine morale e politico che informerà la sua esistenza anche dopo l’interruzione della carriera militare decretata dalle conclusioni a cui pervenne la Commissione d’Inchiesta. Nel clima teso e febbrile che connoterà il primo periodo post – bellico, malgrado il grave rovescio di fortuna occorsogli, assorbito dalla stesura delle memorie difensive tese a confutare le tendenziose accuse lanciategli dalla Commissione, Luigi Capello scorgerà (insieme a molti altri) nel nascente Fascismo la possibilità di riscatto dell’intero Paese in un’ottica democratica, ideale che non tarderà a rivelarsi evanescente. La sua adesione (mai acritica) e l’attiva partecipazione resero vigile Mussolini che vide in lui un potenziale rivale e, in seguito, nella sua voce dissenziente (assai poco incline al compromesso) l’espressione del libero pensiero, fattore deleterio per la stabilizzazione del disegno politico fascista.
Dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti le fortune di Capello, rebus sic stantibus, precipitarono irrimediabilmente: l’attentato suicida alla vita del Presidente del Consiglio a cui si risolse Tito Zaniboni (alpino pluridecorato, deputato socialista nonché amico personale dello stesso Matteotti) per arrestare l’incipiente dittatura trascinò indirettamente con sé la figura di Capello, malgrado l’assenza di prove circa il suo benché minimo coinvolgimento.
Per la seconda volta, dopo Caporetto, al Generale poco accomodante fu assegnato il ruolo di capro espiatorio, con la condanna a trent’anni di reclusione inflittagli in età avanzata e in condizioni di salute malferma.
Il primo periodo della detenzione fu di particolare durezza: le richieste della moglie e delle figlie per alleviare la pena inflitta al loro familiare non sortirono alcun effetto fino a quando, a distanza di dieci anni dall’arresto il Generale (privo del grado e delle decorazioni, restituitigli post mortem) poté, di fatto ma non di diritto, ritornare definitivamente a casa.
11) Quando Badoglio, vittorioso, rientrò dall’Etiopia, Mussolini gli chiese, così mi raccontò lo stesso Badoglio, che cosa desiderava. Fra le richieste, Badoglio chiese venisse ormai liberato il suo ex comandante d’armata, il generale Capello.
12) E in una successiva mia visita, Badoglio mi mostrò la lettera di Capello nel quale lo stesso scriveva (press’a poco): «Eccellenza, so che la mia liberazione è dovuta al suo interessamento. La ringrazio. Luigi Capello».[16]
La figlia, nelle memorie – N. 3264 (Generale Capello), edite da Garzanti nel 1946 – smentisce questo particolare: citare dopo l’8 settembre il gesto dell’inviso Astigiano in favore dell’antico Comandante (la cui memoria era ancora diffusamente legata a Caporetto) avrebbe compromesso l’opera di riabilitazione del padre che Laura Capello affidava al libro delle sue memorie. Laura Capello, però, cita comunque una lettera indirizzata – terminata la detenzione – a Badoglio: la motivazione di tale missiva, scritta la sera di un giorno lieto, quello che vide la celebrazione delle nozze dell’altra figlia, Giulia, era dettata dalla richiesta – sì, da parte di Capello, ma caldeggiata da un anonimo Colonnello L. (Lanari), valentissimo, che era assai vicino al Generale da prima della Grande Guerra – di riammissione nel mondo militare operativo, dopo i successi della Campagna d’Africa. I desiderata dell’antico Generale non avrebbero trovato ostacoli, a detta del Colonnello L.[17], anzi, le sue ben note qualità[18] avrebbero trovato il modo di ritornare produttive.
Ma le opposizioni degli irriducibili (forse lo stesso Farinacci che già si era opposto all’impiego lavorativo della figlia di Capello e che, in seguito, avrebbe attaccato violentemente Badoglio) vanificarono gli esiti di quella, per più motivi, sofferta richiesta.
Egli suppone che qualcuno si sia intromesso ed abbia impedito l’effettuazione della promessa fatta. Ecco un’altra cosa spiacevole! Come riferire tutto ciò ad Attilio[19]? Eppure dovrò decidermi a farlo per toglierlo da una situazione così snervante. […]
Papà ne fu molto rattristato.[20]
Si riporteranno alcuni brani di tale lettera come citati nelle memorie di Laura Capello e, di seguito, il testo integrale della vera lettera ricevuta da Badoglio:
In essa accennava che un suo antico ufficiale, che era pure stato alle dipendenze del gen. Badoglio, gli aveva assicurato che il provvedimento in virtù del quale egli era stato restituito, da quasi un anno, alla famiglia era dovuto all’interessamento del Maresciallo (la cosa ci fu poi smentita in seguito).
Non chiedeva nulla, ma accennava di guardare spesso, con rimpianto, la sua antica divisa.[21]
La lettera:
Roma, 10 ottobre 1936 – XIV
Eccellenza,
Oggi è stato giorno di festa in casa mia. Festa modesta, intima, familiare. L’ultima mia figliuola è andata sposa a un suo compagno d’ufficio. Oltre ai parenti era presente, unica eccezione, un antico mio ufficiale che fu pure agli ordini di V.E.
Questi mi ha assicurato in modo formale, per averlo saputo da un alto Personaggio in grado di saperlo con certezza, che il provvedimento in virtù del quale sono stato, da un anno, restituito alla mia famiglia, era dovuto all’interessamento di V.E. presso il Duce. Mi commossi, potendone arguire di non essere abbandonato da tutti.
Il Duce ancora una volta si mostrò umano verso di me. A Lui ed all’E.V. vadano i sensi della mia gratitudine e quelli della mia famiglia.
Ho voluto, nella mia commozione, rivedere la mia vecchia divisa ed un senso di amarezza mi è sceso nel cuore; poi un’idea nostalgica si è impadronita della mia mente.
Con ossequio e con l’espressione dei più cordiali e vivi auguri per la Patria e l’E.V.
Capello Luigi
A S.E. il Maresciallo d’Italia Cav. Pietro Badoglio
Duca di Addis Abeba[22]
Nello scritto non è presente alcuna richiesta, ma traspare ancora il desiderio di esserci per il bene del Paese, ‘sentire’ più forte del danno (notevole) inflittogli[23].
Compare anche Mussolini.
Del Duce, la figlia non fa menzione (così come si premura di smentire l’interessamento di Badoglio in favore del padre): per una pluralità di motivi ciò risulta perfettamente comprensibile.
A livello storico non ci sono prove circa il mancato coinvolgimento del Maresciallo nella liberazione del suo antico Superiore (soprattutto tenuto conto che si trattò di un provvedimento di fatto e non di diritto). I destini di quella carta parrebbero spezzare una lancia in favore dell’effettivo intervento di Badoglio. La lettera venne affidata ad un suo amico d’infanzia, anch’egli Grazzanese: il valore affettivo esplicito nella conservazione di tale missiva marginale rivela indirettamente un assetto morale da parte del destinatario in netto contrasto con l’icona gretta che, fondamentalmente, ne distorce i tratti.
Badoglio, convinto estimatore di Capello, mantenne fede alla parola data: «[…] si ricordi sempre del suo capo di stato maggiore, come io ho sempre presente il mio generale»[24].
Fu la Commissione d’Inchiesta a determinare la lotta per la sopravvivenza fra le figure coinvolte nella sconfitta:
Da molti anni non era più in relazione con il suo antico Capo di Stato Maggiore, da quando, cioè, per difendersi, aveva dovuto, sia pure con dolore, attaccarlo.[25]
La relazione mostra chiaramente come Badoglio nulla abbia detto in di lei favore.[26]
Gli sguardi si incrociano, prima che il chiasma delle loro esistenze diventi irreversibile: «“[l]’ho incontrato per strada, sa? Ha abbassato gli occhi, è sceso frettoloso dal marciapiede, tirando di lungo”»[27].
La riflessione circa questa lettera (e il contesto in cui si colloca), capace di rivelare i retroscena inerenti a diverse figure[28], palesa chiaramente la capacità in coloro che detennero l’alto comando delle forze militari del Paese di distinguere fra destini politici ed effettivo valore.
[1] Luigi Carlo Attilio Capello (Intra, 14 aprile 1859 – Roma, 25 giugno 1941).
[2] Il tristo primato delle fucilazioni, ad esempio, non ebbe luogo nella II Armata comandata da Capello, bensì nella III (cfr. P. Bertinaria, Il gen. Luigi Capello nella Grande Guerra, in AA.VV., Luigi Capello. Un Militare nella storia d’Italia, a cura di Aldo A. Mola, Cuneo: Edizioni L’Arciere, 1987, p. 133).
[3] I tratti peculiari che connotarono l’azione di comando del generale Capello: il raggiungimento dell’affiatamento sinergico tra Fanteria e Artiglieria; il ruolo, decisivo, nell’istituzione e nella formazione della Brigata Sassari; lo studio innovativo della psicologia del Soldato in combattimento; l’impiego lungimirante della comunicazione (disciplina allora agli albori) e le magistrali capacità oratorie (in grado di infondere fiducia nei Combattenti all’approssimarsi della battaglia).
[4] Non a caso, l’adagio eletto a motto personale da Luigi Capello è Io e il tempo.
[5] I motivi di salute, acclarati, non poco avevano inciso sull’efficacia della preparazione della XII Battaglia dell’Isonzo ed imposero poi al Comandante della II Armata un prolungato ricovero ospedaliero. Nonostante ciò, egli, seppur malato, riprese il posto di comando alla vigilia della battaglia, evitando di delegare la responsabilità al Comandante interinale, generale Luca Montuori.
[6] Lettera di Pier Luigi Sagramoso a Luigi Capello, [s.l.] 26 maggio 1918, Archivio Centrale dello Stato di Roma (ACS), Carte Capello (CC), busta 6, foglio 124.
[7] Lettera di Silvio Egidi al capitano dott. […] Sainati, [s.l.] […] agosto 1918, ACS, CC, b. 5, f. 50. Il rimpianto dell’assenza del Maestro non è taciuto nemmeno al diretto interessato (cfr. lettera di Silvio Egidi a Luigi Capello, [s.l.] 29 giugno 1918, ACS, CC, b. 5, f. 50).
[8] La deposizione del colonnello Giovan Battista Da Pozzo è riportata in A. Zarcone, Generali e massoneria tra Risorgimento e fascismo, in Risorgimento & Massoneria (a cura di Aldo A. Mola e L. Pruneti), Roma: Atanor, 2013, p. 134.
[9] Ibidem.
[10] «19 Dicembre [Millenovecentodiciassette] Cappello [sic] […] sta organizzando la 5ª armata. Fu imposto dal suo amico e discepolo Badoglio» (F.T. Marinetti, Taccuini 1915 – 1921, Bologna: Il Mulino, 1987, p. 165).
[11] «Le mando a mezzo del capitano Sainati un saluto prima di trasferirmi alla 7^ armata. Con che dispiacere io lasciai la Sua 5^, ormai smembrata, Ella intende!» (lettera di Alessandro Casati a Luigi Capello, [s.l.] 27 febbraio 1918, ACS, CC, b. 5, f. 29).
[12] In sintesi, le innovazioni poste in essere dal generale Capello si configuravano al pari di un’offerta incompresa perché a fronte di una domanda non ancora matura. Fu la sconfitta a far prendere contezza della domanda.
[13] Si aggiunga, a chiarimento dell’effettivo valore del Nostro, che nella circolare emanata in data 1° febbraio 1918 dal Capo di Stato Maggiore Diaz compare «una elencazione, la quale per stranezza, rassomiglia perfettamente al contenuto di una relazione, che fin dall’11 gennaio 1918 era stata mandata al Comando Supremo dal Comando della V Armata, tenuto dal generale Capello» (Prefazione del capitano M. Lorenzoni, in L. Capello, Per la Verità, Milano: Fratelli Treves Editori, 1920, p. 24).
[14] Lettera di Luigi Capello ad «un’alta personalità della politica» (lettera citata nella prefazione del capitano M. Lorenzoni, in ivi, p. 13).
[15] «Buon ginnasta significa buon soldato e quindi buon cittadino» (L. Capello, Guerra ed educazione fisica, Roma: Cooperativa Tipografica Maurizio, 1912, p. 14). «“L’esercito è quel che è la nazione”» (L. Capello, Note di guerra, vol. I, Milano: Fratelli Treves Editori, 1921, p. 34).
[16] C. Pettorelli Lalatta, Ancora del generale Luigi Capello, «Rassegna storica del Risorgimento», aprile – giugno 1964, p. 266.
[17] Ci si potrebbe anche interrogare anche sul curioso nesso che, in qualche modo, lega il Colonnello L. (Lanari), promotore dell’auspicato riavvicinamento fra Capello e Badoglio, e l’allora colonnello Cesare Pettorelli Lalatta (a cui la lettera venne mostrata dallo stesso Badoglio) che avvertì la necessità di scriverne, a distanza di trent’anni, su «Rivista del Risorgimento».
[18] «L’unica, anzi, è di stare zitti, di lasciare che il silenzio e il tempo faccian dimenticare certi fatti.[…] Digli dunque che si metta in pace, che resti un po’ tranquillo ch’io [Mussolini] non domando di meglio che ripescarlo e dargli un posto degno di lui (intervista di Enzo Saini ad Ardengo Soffici in «Settimo Giorno», 26 marzo 1959, in D. Ascolano, Luigi Capello. Biografia militare e politica, Ravenna: Longo, 1999, p. 225). Le parole di Capello riportate da Soffici sono relative ad un episodio risalente al 1923.
[19] Luigi Carlo Attilio: il terzo nome era quello con cui veniva chiamato in famiglia.
[20] Laura Capello, N. 3263 (Generale Capello), Milano: Garzanti, 1946, p. 208.
[21] Ivi, p. 207.
[22] Lettera di Luigi Capello a Pietro Badoglio, Roma, 10 ottobre 1936 (la lettera è riportata in R. Prosio, Pietro Badoglio, soldato e uomo politico, Foggia: Bastogi, 1998, nota 16, pp. 86 – 87).
[23] «Giunto in camera Papà mi disse: “Che te ne pare? Bel nome, bella statura, bel naso… ma… bella testa?”. “Se egli non fosse così non avrebbe conservato onori e cariche” soggiunsi. “Come sei partigiana” rispose mio Padre “e quanto rancore serbi per quello che hanno fatto a me; e non pensi che se essi sono davvero riusciti a potenziare così fortemente il nostro paese non importa che io sia stato sacrificato”» (Laura Capello, N. 3264 (Generale Capello), cit., p. 184).
[24] Lettera di Pietro Badoglio a Luigi Capello, [s.l.] 8 novembre 1918, ACS, CC, b. 5, f. 9. .
[25] Laura Capello, N. 3263 (Generale Capello), cit., pp. 204 – 205.
[26] Lettera di Silvio Egidi a Luigi Capello, [s.l.] 18 agosto [1919], ACS, CC, b. 5, f. 50.
[27] Intervista di Enzo Saini ad Ardengo Soffici in «Settimo Giorno», 26 marzo 1959, in D. Ascolano, Luigi Capello. Biografia militare e politica, cit., p. 225. Le parole di Capello riportate da Soffici sono relative ad un episodio risalente al 1923.
[28] Mussolini, una volta affermatosi, non si oppose alla liberazione di Capello, sapendolo non coinvolto nell’attentato Zaniboni; Badoglio più volte favorì Capello, quando ciò gli fu possibile senza nuocere alla stabilità della sua posizione; il desiderio vivo di servire la Patria, in Capello, era incommensurabilmente superiore al risentimento provato per le infondate accuse rivoltegli.