Cultura ed evoluzione competitiva della società
Sergio Benedetto Sabetta
Ciascun individuo nel nascere in una determinata cultura ne assorbe i principi identificandosi con essa, il conflitto nasce dal sovrapporsi di culture non elaborate in termini integrativi o dal non trovare nella propria cultura la possibilità di soddisfare le esigenze di una propria realizzazione.
Un problema che si è già manifestato in molti Stati in cui vi è una forte immigrazione, dobbiamo considerare che vi sono dei limiti fisiologici nell’assimilare evitando le possibili ghettizzazioni e futuri conflitti, si parla di un 5-7% sul totale della popolazione, in particolare dalla seconda generazione che si trova in una ambigua fluttuazione tra due o più culture.
Si rinuncia, quindi, a una notevole parte del controllo sulle proprie azioni, a favore di un conformarsi automatico a convenzione, norme e istituzioni sociali del gruppo in cui identificarsi, una riflessione esterna e superficiale che si riduce alla sola interpretazione dei conflitti tra norme.
Vi è una necessità all’imitazione sociale e alla conformità, questo al fine del consolidamento del gruppo nei termini di affiliazione e identità (Over, Carpenter), si crea quindi un “noi ” sociale che crea l’orgoglio o la colpa di gruppo non più limitato all’interdipendenza, derivante dalla collaborazione diretta, ma estesa all’intero gruppo sociale.
La “fiducia” quale prodotto della reputazione diventa quindi fondamentale per ottenere simpatia e aiuto dal gruppo, questo non può, pertanto, che fondarsi su una morale comportamentale, il cui consolidamento non fa che favorire il pregiudizio legato al gruppo, quale semplificazione e rafforzamento nei rapporti intergruppo (Haun, Over). Il concetto di lealtà che ne sta alla base costituisce la premessa per una morale della giustizia.
Si ha in tal modo il superamento della semplice morale dell’equità propria dei rapporti collaborativi diadici, in cui prevale una reciprocità sia emotiva che calcolata (de Waal) tesa alla selezione e controllo diretto del compagno in gruppi ristretti.
Le pratiche culturali sono una specificazione dei modi “corretti” di svolgere “oggettivamente” i propri ruoli, si viene in tal modo a coordinare le attività collaborative tra elementi privi di una conoscenza comune, dove ognuno si aspetta che l’altro svolga il proprio ruolo in un determinato modo, permettendo in tal modo una estensione del gruppo ai grandi numeri (Lewis) e la conseguente nascita di società di vaste dimensioni.
Le norme sociali fanno sì che vengano controllati e incanalati gli aspetti individualisti più pericolosi per la coesione sociale, la protesta verso i comportamenti più distruttivi passa, quindi, dal singolo al gruppo, così che, dal senso di simpatia per coloro che hanno subito un danno, si passa alla necessità del rispetto da collegarsi al più ampio senso dell’equità.
Le norme sociali possiedo pertanto un aspetto di imparzialità e oggettività, circostanza che permette a ciascun membro di imporne l’osservanza.
L’istituzionalizzazione delle attività avviene, secondo Knight, quando vi è una riduzione dei loro benefici tale da renderle inefficienti in termine di costi, vi è in questo caso la necessità di creare norme e regole, le quali vengono “sacralizzate” mediante la sacralizzazione delle istituzioni al fine di aumentarne il potere vincolante (Durkheim).
Korsgard individua nel “sostegno riflessivo” la capacità di riflettere sui propri scopi e valori per giudicarli razionalmente, anche in rapporto alle norme morali, ne scaturisce il senso di colpevolezza e di vergogna, con la conseguente necessità riflessiva della riparazione.
La normativa morale, come tutti gli atti umani in situazioni ambigue, può essere interpretata in maniera creativa, permettendo il mantenimento di una identità morale coesa, tuttavia vi è la necessità della sua giustificazione sociale fondata sui valori condivisi (Lakatos).
Nelle attuali società multiculturali vi sono norme in conflitto, vi è quindi la necessità, che diventa un sentito obbligo morale, a prendere posizioni di principio (Mead), una necessità che assume un notevole peso, fino al punto di negarlo per sottrarsene.
Da qui viene il problema della giustizia distributiva, quando si parla di essa si fa riferimento in particolare al proprio gruppo culturale, che molte volte non coincide con la cittadinanza nel suo insieme ma risulta essere un semplice sottogruppo.
Nella distribuzione delle risorse entrano in gioco motivazioni egoistiche, simpatiche e di equità fondate sul merito, nella giustizia distributiva gli elementi che entrano principalmente in gioco, sono il rispetto e l’essere trattati equamente (Honneth), vi è tuttavia il problema, già rilevato, della tendenza biologica alla riduzione del concetto al solo proprio gruppo culturale, questo anche quale sottrazione di risorse dal proprio gruppo senza alcun riconoscimento.
Le culture edificano la propria morale culturale sulla morale naturale, con la doppia funzione di mantenimento dell’ordine sociale e facilitazione sia nell’esecuzione dei ruoli che nei rapporti interpersonali. Quelli che hanno meglio promosso la cooperazione e la coesione sociale, prevalendo per efficacia sugli altri gruppi, procedono alla eliminazione o assimilazione degli avversari, secondo un processo evolutivo culturale (Richerson, Boyd).
La morale culturale ha pertanto la funzione di accettazione nel gruppo e di evitarne l’espulsione, ma anche di “legittimarsi” nel proprio agire, ottenendone il sostegno, in questo vi è un ulteriore rafforzamento dato dalle istituzioni culturali e dagli enti che ne nascono, quali i confini e i capi.
Le norme culturali rendono oggettiva e collettiva la morale, peraltro già formatasi, mentre le istituzioni la socializzano (Tomasello), nel mondo contemporaneo si succedono e si sovrappongono norme culturali provenienti da comunità morali differenti, a causa di cambiamenti demografici e ragioni economiche o politiche.
Gli individui vengono a perdere la propria identità culturale, in un sempre possibile e probabile conflitto tra norme culturali inconciliabili, dove lo Stato ne diventa un semplice contenitore.
L’io egoistico, il tu empatico e il noi collaborativo comunitario, vengono a interloquire, secondo tempi, modalità e proporzioni differenti da cultura a cultura.
Nella difficoltà di conciliare problematiche morali differenti e contraddittorie, Shapiro vede nascere i sistemi legali, quali istituzioni di pianificazione sociale di secondo ordine da sovrapporsi alle norme culturali.
Vi è comunque un sempre possibile conflitto tra norme morali naturali e culturali, con la conseguenza di trasferire all’interno degli individui gli eventuali conflitti nascenti, dove è possibile un conflitto tra norme culturali e sistema legale, con il risultato ultimo della disapplicazione della norma legale, considerata puro arbitrio di una minoranza o anche di una maggioranza. Viene, quindi, legittimata moralmente la resistenza, con un conseguente conflitto e la lacerazione del tessuto sociale.
Shapiro sottolinea che le leggi devono essere “moralmente sensibili”, se si vuole che quelli a cui sono dirette le considerino moralmente legittime, altrimenti si creano le premesse della disubbidienza civile, se non di una insurrezione morale, fino alla possibilità di un conflitto civile a bassa intensità (Gilbert).
Vi è comunque la possibilità che si tenti di promuovere nuovi valori, non ancora condivisi nel gruppo, il promuoverne l’attenzione ha successo, se attraverso i mezzi di comunicazione si toccheranno i valori di simpatia ed equità posseduti dalla maggioranza degli individui.
Cura/danno, equità/imbroglio, lealtà/tradimento, autorità/sovversione e santità/degradazione, sono per Haidt i cinque pilastri universali su cui poggia la morale umana, la differenza tra i vari giudizi morali poggia sul diverso peso dato a ciascun pilastro.
Le culture che ne derivano vanno in competizione fra loro, vi è quindi una selezione evolutiva tra gruppi culturali differenti, dove prevalgono quelli forniti di una più coerente capacità cooperativa, affiancata all’efficienza tecnologica (Richerson, Boyd).
Emerge continuamente la mancanza di una nostra coerenza culturale nazionale, il frammentarsi interno in un continuo contrapporsi fenicio tra gruppi, che cercano di delegittimarsi vicendevolmente, fa sì che emerga chiaramente la mancanza di una chiara linea culturale nazionale, circostanza che ci rende fragili nel nostro rapportarci all’esterno.
Vi è una scarsa propensione verso quello che è analitico, nonostante il nostro affermare una cultura umanistica specifica.
Dobbiamo ricordare che “per verificare ci vogliono quadri teorici entro cui collocare le parole che adoperiamo per descrivere i fatti, e poi sono necessarie evidenze sperimentali, fattuali, che è difficile trovare” (85, Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, Laterza, 2010).
Questa mancanza di una linea culturale coerente e analitica nonostante le inevitabili differenziazioni, si riscontra nella nostra programmazione, diventata al volgere del secolo, del tutto estemporanea, tanto da ricadere nello stesso aspetto economico, in cui la nostra creatività innovativa spontanea viene acquisita dall’estero e non sviluppata nella comunità nazionale.
L’incapacità di proporre una linea programmatica culturalmente coerente e analiticamente sostenibile, emerge anche nella stessa cultura giuridica dove il legislatore viene a perdere la visione d’insieme, senza più distinguere fra il particolare e l’essenziale.
Lo stesso concetto di libertà viene a modificarsi a seconda del contesto culturale, tanto che l’imposizione del proprio concetto diventa nella realtà l’imposizione di un proprio modello culturale, viene così a ricrearsi la problematica del rapporto tra l’io e il noi e tra i noi diversi, dove l’equilibrio all’interno del gruppo non corrisponde al rapporto tra differenti gruppi.
La stessa religione, quale sostegno alla coesione del noi, può risultare insufficiente, nel momento in cui i suoi rappresentanti non siano in grado di interloquire con la cultura del gruppo in cui interagiscono.
Nella disgregazione culturale di un gruppo, nel nome della libertà, in una frammentazione senza minimo comune denominatore, vi è la semplificazione del concetto di globalizzazione, in cui l’indebolimento del gruppo ne permette la sua colonizzazione economica e culturale da parte dei gruppi esterni, che hanno comunque mantenuto una propria coesione culturale interna.
Si viene quindi a riflettere, nella dimensione culturale, la necessità del mantenimento di una coesione quale frutto anche del rapporto diritti/doveri, su cui a sua volta si fonda la problematica della responsabilità la quale, come tutto l’agire umano, possiede l’ambivalenza dell’io posto tra il tu e il noi.
BIBLIOGRAFIA
- Gilbert M., Il noi collettivo. Impegno congiunto e mondo sociale, Raffaello Cortina, 2015;
- De Waal F.B.M., Primati e filosofi. Evoluzione e moralità, Garzanti, 2008;
- Haidt J., Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione, Codice, 2013;
- Richerson P.J. –Boyd R., Non di soli geni. Come la cultura ha trasformato l’evoluzione umana, Codice, 2006;
- Shapiro S.J., Legality, Harward University Press, Cambridge (MA), 2011;
- Lakatos F. – Musgrave A., Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, 1993;
- Mead G. A., Mente, sé e società, Giunti, 2010;
- Honneth A., La lotta per il riconoscimento, Il Saggiatore, 2002;
- Durkheim E., Sociologia e filosofia, Minesis, 2015;
- Knight J., Institutions and Social Conflict, Cambridge University Press, Cambridge (MA), 1992;
- Korsgard C. M., Le origini della normatività, ETS, 2014;
- Lewis D.K., La convenzione. Studio filosofico, Bompiani, 1974;
- Tomasello M., Storia naturale della morale umana, Raffaello Cortina, 2018;
- De Mauro T., La cultura degli italiani (a cura di Francesco Erbani), Laterza, 2010.