SERGIO BENEDETTO SABETTA. Studi sulla riconfigurazione della Forza Armata alla caduta del muro di Berlino 1988 1991

  

STUDI SULLA RICONFIGURAZIONE DELLE FORZA ARMATE
ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO
1990 – 91

Te. Cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta

Con la fine della Guerra Fredda, la guerra del Golfo del 1991 riportò l’attenzione sulla strategia militare e sulla geostrategia, quale applicazione alla gestione politico-militare delle crisi internazionali.
Il progressivo passaggio dai conflitti “convenzionali” verso conflitti ad “alta intensità” ripropose il problema strategico della operatività in sede interforze, in contrapposizione alla precedente valutazione degli interventi di mantenimento della pace (peacekeeping) in aree fuori dall’Europa a livelli di “bassa intensità”, in cui a suggello dell’impegno politico tra le parti erano sufficienti forze militari poco più che simboliche.
In questi interventi “fuori area” la presenza militare poteva limitarsi alla sola Forza Armata terrestre, in quanto l’impegno militare non avrebbe dovuto trasformarsi in scontro armato ossia in guerra.
La geostrategia, che coniuga geografia e strategia, va integrata dal ruolo della “minaccia”, fondamentale per un Paese come l’Italia in cui l’assetto geografico peninsulare nel centro del Mediterraneo lo pone quale asse strategico tra tre Continenti e sulla rotta del canale di Suez, circostanza che lo pone al centro di interessi contrastanti.
La “minaccia” va quindi considerata in rapporto al quadro geopolitico circostante e al ruolo che l’Italia vuole assolvere nel quadro di una dimensione geostrategica.
Il Paese a causa della sua configurazione geografica e per motivi storici, politici ed economici risulta per la parte settentrionale inserita al centro dell’Europa, anche se separata in chiave militare nella dimensione tattico-operativa, mentre nella parte peninsulare risulta proiettata verso l’Africa e il Medio Oriente.
Questo comportò, al venir meno della minaccia del Patto di Varsavia, una ridefinizione del suo ruolo e pertanto della sua dimensione tattico operativa con la conseguente ridefinizione del modello di Forze Armate.
Nell’impossibilità di privilegiare delle posizioni neutralistiche che la stessa condizione geostrategica dell’Italia non consente, occorreva quindi l’individuazione di precisi obiettivi nazionali da perseguire quali direttrici di azione da seguire. La politica estera come nel passato era stata impostata sulla scelta atlantica ed europea e nello sviluppare e consolidare i rapporti con i Paesi mediterranei, anche nel dopo Guerra Fredda, vi è stata la necessità di riconfermare tale filosofia di sicurezza nazionale, integrando nel dialogo Est-Ovest anche quello Nord-Sud.
A queste direttrici si devono aggiungere gli intendimenti in termini di strategia economico-finanziaria, anche in relazione alle aspettative degli Stati emergenti e dei principi sostenuti dall’Italia sul piano internazionale, dal rispetto di tali parametri si definisce l’equazione sicurezza-stabilità in contrapposizione al binomio in sicurezza-vulnerabilità.
Durante il periodo della Guerra Fredda per un insieme di fattori politici, culturali e storici vi è stato un progressivo disinteresse per tutto quanto quello che riguardava la politica di sicurezza, anche in chiave esclusivamente pragmatica, la contrapposizione tra blocchi della Guerra Fredda ha indotto ad impostare una politica della sicurezza e quindi della gestione delle crisi in termini prevalentemente episodici ed emozionali.
Con il venir meno della contrapposizione tra blocchi sono emersi chiaramente problemi di sicurezza affrontati in un’ottica contingente, secondo il modello del nostro Paese.
Durante tutto il periodo della seconda metà del Novecento, dalla fondazione della Repubblica, “la politica di sicurezza” suddivisa tra il Consiglio dei Ministri, il Consiglio Supremo di difesa e la Commissioni parlamentari ha risentito, nelle sue scelte attuative, della necessità di ottenere il più ampio consenso sulle scelte operative da adottare, accogliendo il complesso quadro socio-politico non omogeneo della Nazione.
Il Consiglio dei Ministri nella sua composizione collegiale plenaria risultò essere meno adatto per decisioni rapide in tema di politica di sicurezza, né si poté istituire un Gabinetto ristretto più adatto ad ovviare alla lentezza delle decisioni a seguito di trattative.
A sua volta il Consiglio Supremo di Difesa, sorto sulle ceneri del Comitato di Difesa (1945-50), non si dimostrò adatto alle esigenze per il quale era stato creato a seguito di condizionamenti di vario tipo, diventando, di fatto, un organo a matrice consultiva, questo a differenza di altri Paesi occidentali in cui il Consiglio di Sicurezza, retto dal Capo dei singoli Esecutivi risultarono avere una capacità gestionale e programmatica maggiore.
Dalla pubblicazione del “Libro Bianco” del 1985 la politica di difesa italiana si articolò su due direttrici, la prima fino al 1989 impostata su uno schema strategico-operativo definito “modello di difesa”, formulato in presenza di una minaccia “classica” chiaramente predeterminata, questo, oltre stabilire le priorità difensive e gli schieramenti delle forze nei vari settori operativi, ne codificava le precise missioni operative fondamentali.
Ne conseguiva uno strumento rigorosamente tridimensionale, equilibrato in funzione delle varie tipologie di missioni ed alimentato prevalentemente da personale di leva relativamente alle forze armate terrestri e agli elementi di base in generale.
La seconda direttrice iniziò a definirsi dal 1989 a seguito delle profondamente mutate condizioni geopolitiche e geostrategiche a seguito del venir meno della suddivisione del Vecchio Continente in due blocchi contrapposti.
Il modello del 1985 aveva avuto il merito di fornire ai centri decisionali politici dei modelli contabili concreti per la previsione e ripartizioni delle risorse assegnate alla difesa, sganciando da criteri distributivi legati ai programmi e dando valenza alle missioni operative.
Con il 1989, il venir meno di una precisa e definita minaccia derivante dal Patto di Varsavia pose in evidenza l’incertezza del ruolo che avrebbe dovuto svolgere l’Italia e del peso ad essa attribuito sia nell’ambito della NATO che nel contesto internazionale.
In assenza di precisi parametri geopolitici e geostrategici non si poteva che concentrarsi su specifici mandati operativi atti a contrastare le singole minacce che si manifestavano progressivamente nel tempo, ossia sulle missioni interforze.
La configurazione per missioni operative avrebbe dovuto essere accompagnata da indispensabili strutture di comando unificato, circostanza non realizzatasi, in quanto in contrasto con la compartimentazione di fatto in tre Forze Armate che non risultavano nei fatti coordinate nello Stato Maggiore della Difesa.
Il venir meno dei due blocchi contrapposti richiamarono la necessità del concetto di sicurezza inteso in senso globale e non più settoriale, con connotazione prevalentemente militare, un parametro, quello della sicurezza, molto più pregnante di quello tutto sommato meno verificabile della minaccia. Dobbiamo infatti considerare la triplice natura continentale, mediterranea ed internazionale che l’Italia deve acquisire nelle sue valutazioni.
Con gli aspetti più prettamente militari il concetto di sicurezza nazionale doveva essere ricondotto a tre enunciati principali:

• Controllo e difesa integrati nel territorio, delle acque territoriali e del relativo spazio aereo;
• Salvaguardia degli interessi vitali del Paese, ovunque, nonché partecipazione ad iniziative tendenti a garantire pace e stabilità internazionale;
• Concorso nel campo della protezione civile e nell’eventuale salvaguardia delle libere istituzioni.

Nella necessità di aumentare le forze “volontarie” e nella conseguente necessità di un tempo di preparazione si ricorse ai coscritti, in questo si fece presente che la durata di 12 mesi costituiva lo strumento di minima credibilità della leva.
Si definì la struttura e le forze necessarie per una valida operatività, in particolare:
– un nucleo di forze ad elevata prontezza operativa, in grado di intervenire in tempo reale;
– un complesso di forze definite in senso lato “di copertura”, pronte per la difesa dello scacchiere Nord-Est a saldatura con lo scenario politico-strategico del centro Europa e in particolare con la Germania;
– un blocco di forze “dell’interno”in grado di proteggere e controllare il territorio peninsulare ed insulare;
– un’area territoriale e logistica proporzionale con il complesso di forze operative con un’organizzazione scolastico – addestrativa adeguata alla professionalizzazione dell’apparato militare.
Nella configurazione delle nuove Forze Armate prevalsero tre considerazioni:

– L’identificazione della Brigata quale unità di riferimento, in quanto fornita di una maggiore omogeneità e polifunzionalità che ne permetteva sia una immediata percezione dei costi che una sua operatività.
– Un riferimento metodologico principalmente alle missioni operative.
– Un preciso riferimento al concetto di mobilitazione quali procedure complesse atte ad alimentare le unità, in questo tenendo conto dell’alto costo organizzativo, dell’esigenza di puntuali verifiche e della necessità di un costante aggiornamento.

Si considerò quindi la necessità di disporre di 19 Brigate di varia tipologia di cui n. 7, quali “forze di copertura”, n. 7, quali “forza di difesa e controllo del territorio”, e n. 5, quali forze di “pronto impiego”.
Le “forze di copertura” avrebbero dovuto costituire la credibile saldatura tra lo scenario dello scacchiere Nord-Est dell’Italia con quello politico-strategico del centro Europa, con particolare riguardo alla Germania, per le possibili minacce provenienti da Est, questo in situazioni di scarso preavviso e con la necessità di un arresto a ridosso della frontiera.
Costituito prevalentemente da personale di leva operante in territorio nazionale, secondo il dettame costituzionale, esso avrebbe dovuto essere costituito da n. 3 Brigate alpine destinate a fronteggiare la minaccia proveniente dal settore Brennero, da quello di cerniera Carnico e da quello Giulio montano.
A queste si sarebbero dovute affiancare n. 4 Brigate, di cui n. 3 meccanizzate ed una corazzata, al fine di fronteggiare la minaccia proveniente da Est relativa alla penetrazione nella pianura veneto-friulana, il settore di pianura di un’ampiezza di circa 60 Km. necessitava di una elevata capacità di manovra e potenza di fuoco da svilupparsi in profondità, inoltre avrebbero dovuto fornire eventuali unità per il restante comparto orientale nell’eventualità di possibili sbocchi in pianura di forze nemiche in corrispondenza dei settori assegnati alle brigate alpine.
Le brigate sopra menzionate avrebbero dovuto ricoprire il duplice ruolo nazionale di guardia alla storica porta di accesso all’Italia da Est, a cui si affiancava la funzione continentale di protezione del lato Sud del sistema difensivo terrestre europeo, costituito dal fronte germanico e di accesso alla Manica.
Le “forze di difesa e controllo dell’interno” avrebbero dovuto essere costituite da n. 7 Brigate, di cui n. 1 motorizzata, destinata al controllo delle fasce di comunicazione che legano il triangolo industriale via terra alla Francia e via mare al sistema portuale ligure per le grandi rotte oceaniche di alimentazione, n. 1 motorizzata, per il controllo delle vie di comunicazione tra l’Italia settentrionale e quella peninsulare attraverso i passi dell’Appennino Tosco-Emiliano e la Stretta di Cattolica, n. 1 meccanizzata per il controllo e l’eventuale difesa dell’area Centro – Italia dove vie è la presenza della capitale e delle basi aereonavali proiettate sull’Alto Tirreno.
Altre n. 2 Brigate, di cui una motorizzata e l’altra meccanizzata con compiti di presidio del complesso Campania – Puglia, e n. 2 entrambe motorizzate per il presidio rispettivamente della Sicilia e della Sardegna, questo al fine di mantenere il controllo del Mediterraneo centrale e del Tirreno quali vie di comunicazione e rifornimento.
Le Brigate poste a difesa e controllo dell’interno avrebbero dovuto essere costituite prevalentemente da militari di leva, con una percentuale minima dell’80% di personale adeguatamente addestrato.
Relativamente alle forze di “pronto intervento”, che venivano a completare gli altri due settori operativi costituite da n. 5 Brigate, queste avrebbero dovuto essere in grado di intervenire sia in ambito nazionale al fine di integrare le forze di copertura e quelle di controllo e difesa dell’interno, che in ambito sovranazionale per l’assolvimento di missioni legate ad interventi “fuori aria” e per l’inserimento in complessi multinazionali.
Al fine di mantenere un elevato livello operativo si ritenne necessario di ricorrere ad un ampio volontariato, di qualità ben superiore a quello esistente precedentemente, considerando la necessità di poter iniziare un combattimento immediato e muovendosi su ampie distanze in relazione al mandato ricevuto.
Queste brigate dovevano articolarsi in n. 1, paracadutista , di ampia flessibilità e rapidità d’azione, n. 1, alpina adatta a particolare condizioni ambientali sia nel territorio nazionale che all’estero, n. 2, di cui una corazzata ed una meccanizzata, braccio “pesante” della forza, necessaria per conferire credibilità alle azioni di difesa e necessaria a sostenere eventuali scontri armati, n. 1, blindata, per la rapidità di movimento sulle grandi distanze e la potenza necessaria a sostegno della fanteria leggera.
Ipotizzando che la Brigata di “copertura” e di “difesa-controllo del territorio nazionale” potessero assorbire 4.000 unità ciascuna e quelle di “pronto intervento”, circa 5.000 uomini le forze necessarie avrebbero dovuto essere di circa 80.000 uomini, di cui le metà rappresentata da volontari, concentrati per la maggior parte sulle forze di pronto intervento.
A queste forze devono aggiungersi 10.000 uomini necessari per alimentare il funzionamento dell’artiglieria contraerea e dell’aviazione leggera dell’esercito, a questi vanno inoltre aggiunte le unità di personale necessarie nell’organizzazione di Comando e Controllo, nonché di supporto tattico e logistico, l’ammontare reale delle forze operative in questa configurazione prevista avrebbe dovuto essere in totale di circa 130.000 unità, di cui 40/50.000 volontari.
Gli avvenimenti che si sono succeduti al dissolvimento del Patto di Varsavia a cavallo del Nuovo Millennio hanno condotto all’assoluta prevalenza USA degli anni Novanta di fine secolo, per ribaltarsi nell’attuale incertezza a seguito dei conflitti in atto per ridefinire le nuove aree di influenza.
E’ venuta meno la certezza di essere comunque affiancati dagli USA in tutti i teatri operativi, richiamando quindi la necessità di un maggiore impegno finanziario nel riarmare le Forze Armate.
La stessa leva, sospesa dal 2005 in tempo di pace, è stata richiamata come possibilità per aumentare l’operatività delle Forze Armate, una decisione tuttavia politicamente non premiante oltre che complessa organizzativamente, considerando tutti i teatri operativi attualmente in crescita, compresi i conflitti nell’Est Europa e nel Mediterraneo.
Se per ottenere i nuovi sistemi di arma e i materiali ci vorranno tra i 5 e i 15 anni, per “cambiare la mentalità di un sistema e la cultura politico-strategica del nostro Paese, infine, sarà un processo ancora più lungo, complesso e incerto, a meno che non si verifiche un grosso shock. Specialmente per noi italiani, tra i quali è già affiorata la tentazione di trasferire al più presto la delega a proteggerci esercitata dagli Stati Uniti, che non vogliono più assumersi questa responsabilità, a un’Europa nella quale sarà difficile trovare interlocutori più sensibili di noi alla salvaguardia dei nostri interessi nazionali” (189, Germano Dottori, L’Italia riarma lentamente, in Limes, Una certa idea di Italia, 2/2024).

Nota

Scuola di Guerra – Ipotesi di riconfigurazione dell’Esercito nel quadro delle nuove esigenze della sicurezza nazionale – Bollettino di informazione, maggio 1991