Approfondimenti – Resistenza nell’Impero

  

Alessia Biasiolo[1]

 

Come sappiamo, la seconda guerra mondiale inizia per l’Italia nel 1940, all’indomani dei successi nazisti su gran parte dell’Europa che diventa “spazio vitale” tedesco. La campagna di Grecia italiana si rivelerà un fallimento per la strenua resistenza greca, con militari determinati a non cedere all’occupante e con una migliore conoscenza tattica dei luoghi da difendere. Sarà solo l’invio di truppe tedesche a togliere l’esercito italiano dall’empasse in cui era finito e a tramutare anche la Grecia in territorio sottoposto alle dittature nazifasciste, affermando la presenza italiana nei Balcani, così com’era nelle intenzioni di Mussolini. Gli italiani, supportati dalle truppe tedesche, controllavano in particolar modo le isole Ionie, tra le quali Cefalonia, Corfù e Zante, che permettevano il controllo dell’accesso al Golfo di Corinto. All’indomani della comunicazione dell’armistizio di Cassibile, i tedeschi utilizzeranno la forte presenza in Italia per l’occupazione, così come fecero nei territori occupati da quello che era ormai diventato l’ex alleato. Tristemente famoso diventerà il caso di Cefalonia che sarà anch’essa oggetto dell’operazione “Achse”, poi “Alarico”, cioè quella strategia di disarmo degli italiani occupando i territori con la forza, oppure portando nelle file germaniche coloro che volevano continuare a cooperare con l’alleato.

Nelle isole erano stanziate la 33esima “Divisione Acqui” (comandata da Antonio Gandin) con reggimenti di fanteria da montagna e di artiglieria, la seconda Compagnia del VII Battaglione Carabinieri, reparti del primo Battaglione finanzieri, mitraglieri, un gruppo contraereo, marinai e addetti all’ospedale da campo. Alla caduta di Mussolini nel 1943, la 18esima Legione venne richiamata in Italia.

Il comando era posto ad Atene, sotto l’undicesima armata, diretta dal generale Carlo Vecchiarelli, e l’Heeresgruppe E tedesco (comandato da Alexander Löhr). I tedeschi invieranno fanteria da fortezza e semoventi e si acquartiereranno nel capoluogo di Cefalonia, bene armati rispetto agli alleati.

Il presidio resse bene, anche con esercitazioni comuni italo-tedesche.

Con l’8 settembre 1943, tutto ovviamente cambiò. Ai festeggiamenti italiani per quella che sembrava anche lì l’imminente fine della guerra, fecero seguito, la sera stessa dell’8 settembre, puntamenti tedeschi di armi contro una nave italiana all’ancora che, a sua volta, puntò le armi contro i tedeschi.

Il comandante dell’Undicesima armata Vecchiarelli inviò a Gandin il seguente messaggio: “Seguito conclusione armistizio, truppe italiane 11^ armata seguiranno seguente linea condotta. Se tedeschi non faranno atti di violenza armata, italiani non, dico non, faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero, reagiranno con forza a ogni violenza armata, ognuno rimanga al suo posto”. Quindi, le navi ricevettero l’ordine di prendere il mare per Brindisi. Gandin ordina poi al battaglione in riserva a Mazarakata e ad alcune batterie, di spostarsi ad Argostoli, città principale dell’isola, per difendere il quartier generale, e ai bivi principali soprattutto sulle alture, in modo da poter presidiare adeguatamente la zona, al contempo controllando i movimenti tedeschi. Infatti, all’alba una colonna tedesca tentò di passare, ma venne fermata e mandata indietro, verso la zona del proprio acquartieramento. Gandin incontrò di prima mattina il comandante tedesco per discutere della situazione e questi chiese di obbedire agli ordini di Vecchiarelli, di cui era a conoscenza, riguardo alla non belligeranza nei confronti dei tedeschi. Tuttavia, verso le dieci, arrivò un ulteriore dispaccio dal comando di Atene, nel quale veniva chiesto di rimanere nelle posizioni costiere fino al cambio con i reparti tedeschi che sarebbero arrivati, in ogni caso di non rimanere oltre le ore 10 del 10 settembre, quindi dell’indomani. Ai reparti tedeschi bisognava cedere le armi e le munizioni a disposizione. Dalle ore 12 dello stesso giorno, il 9 settembre, a richiesta dei tedeschi, le armi andavano cedute loro.

I pareri in proposito furono vari, tra chi voleva obbedire all’ordine, chi voleva continuare a combattere a fianco dell’alleato tedesco e chi, invece, voleva resistergli. Secondo alcune fonti sarebbe stato proposto un referendum in merito, ma molti hanno smentito questa versione, trattandosi di espressioni di pareri propri che, probabilmente, venivano discussi tra i vari soldati e i comandanti con Gandin. In questo clima arrivò la notizia che il presidio di Santa Maura era stato catturato dai tedeschi e che il colonnello Ottalevi, suo comandante, e due ufficiali erano stati uccisi. Anche su questo episodio ci sono pareri discordi, dal momento che pare fossero state consegnate le armi pesanti, a richiesta, ma i soldati si rifiutarono di consegnare le armi personali, causando la reazione tedesca, che alcuni, invece, spiegano a seguito di una provocazione. Si cercava, comunque, di non arrivare allo scontro sia da parte italiana che da parte tedesca. Gli italiani attendevano ordini più chiari che, come sappiamo, mancarono anche in Italia; i tedeschi si organizzavano passando ordini di fucilazione in caso di resistenza da parte degli italiani. I tedeschi quindi presentarono una richiesta di consegna totale delle armi nella piazza centrale di Argostoli entro le ore 18 del 12 settembre, davanti alla popolazione che sembrava dalla parte degli italiani, compresa la resistenza greca che vedeva nel cambiamento la possibilità di avere gli italiani dalla propria parte, anche se poi questo si rivelò inattuabile e forse una mossa strategica dei rivoltosi. In ogni caso, veniva vietato agli italiani di consegnare ufficialmente le armi ai greci.

Era un ultimatum al quale la Divisione “Acqui” si rifiutò di obbedire, preparandosi a combattere l’ex alleato. Quattro dragamine presero il largo per l’Italia, mentre Gandin cercava una soluzione ottimale per il disarmo, evitando il disonore pubblico e cercando di trovare la soluzione più equa, mentre un messaggio del generale Rossi invitava a considerare le truppe tedesche come nemiche.

I militari non intendevano cedere le armi e cominciavano ad organizzarsi contro i tedeschi, soprattutto per l’affondamento della corazzata “Roma” a loro opera, la cui notizia pare fosse arrivata sull’isola tramite radio di altro convoglio. Il 13 settembre divenne evidente che velivoli tedeschi attaccavano navi italiane a Patrasso, pertanto la tensione era sempre più alta, anche contro i comandanti che non fossero chiaramente intenzionati a combattere contro l’ex alleato. Gli ordini di cessare il fuoco a seguito di scontro vennero disattesi da ambo le parti, ma vista la situazione per loro penalizzante, i tedeschi proposero l’imbarco per l’Italia per tutti, a patto che venissero consegnate le armi. Gandin emanò un comunicato in cui rendeva ufficialmente note le trattative in corso per evitare la umiliante consegna di armi e munizioni. Nel frattempo, la contraerea italiana mirò all’idrovolante del generale tedesco Lanz e quest’atto, così come gli spari contro le navi tedesche, venne preso come atto di ostilità. Pare, a questo punto, che venisse emanato un ordine, sorta di ultimatum, secondo il quale in caso di resistenza gli italiani sarebbero stati passati per le armi. Le scaramucce continuarono, con atti di smacco dall’una e dall’altra parte, mentre ancora i tedeschi si trovavano in inferiorità e le possibilità di controllarli da parte della Divisione “Acqui” erano alte. Ancora sembra che ci fossero soltanto richieste di pareri ad ufficiali e truppa che non intendevano consegnare le armi, argomento centrale della trattativa con i tedeschi i quali, nel frattempo, continuavano a spostare truppe in posizioni più agevoli al controllo dell’isola e a farne sbarcare. Gli italiani misero in atto azioni di sabotaggio soprattutto di strade e ponti, per renderli impraticabili, mentre gli Alleati non intendevano inviare truppe sull’isola per non creare incidenti diplomatici con la “alleata” Unione Sovietica che, come abbiamo scritto, guardava attentamente alla situazione nei Balcani da tempo.

Lo sbarco delle truppe tedesche e la mancanza di controllo delle alture, abbandonate dai soldati italiani all’inizio delle operazioni come segno di volontà collaborativa, mise gli italiani in difficoltà; le postazioni antiaeree non erano sufficientemente attrezzate per contrastare gli aerei tedeschi. La battaglia sull’isola di Cefalonia iniziò il 15 settembre, con atti di vero e proprio eroismo da parte delle truppe italiane. Lanz fece lanciare dei volantini per fiaccare la resistenza, accanita, sull’isola, citando Gandin come partigiano di Badoglio e addossando alla Divisione “Acqui” la “colpa” della lotta, che determinava la necessaria reazione tedesca, perché voleva combattere i camerati tedeschi e fascisti. In modo particolare, si sottolineava il tradimento italiano di Badoglio che aveva abbandonato alla lotta fatale l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista. Le armate di Badoglio avevano consegnato le armi senza spargimento di sangue, si leggeva sempre nel comunicato del generale tedesco, pertanto la lotta della “Acqui”, evidentemente senza speranza, doveva cessare al più presto. Il tentativo, che prometteva di lasciare libera la via per il ritorno in patria, non sortì effetto e l’eroica lotta continuò fino alla resa del 22 soltanto per mancanza di munizioni, dopo l’ultima convocazione del consiglio di guerra italiano.

La decisione di esporre la bandiera bianca dal comando, non comportò il rispetto del nemico da parte tedesca. Hitler stesso ordinò di passare per le armi gli italiani, considerandoli traditori. Sappiamo, come scritto in testi precedenti, che il Führer aveva espresso ripetutamente vero e proprio odio nei confronti del comportamento italiano, a seguito del mancato rispetto della parola data e dell’atteggiamento ambiguo dei comandi. Lo stesso ordine avrebbe voluto darlo per l’Italia, se non fosse stato per il senso di rispetto dell’alleato che, nel frattempo, si stava cercando e che poi sarebbe stato fatto liberare, portando alla creazione della R.S.I. Già coloro che erano stati catturati a Cefalonia erano stati fucilati e la stessa sorte sarebbe toccata a tutti i soldati tedeschi che non pensassero di obbedire all’ordine imposto di sparare su coloro che erano stati i compagni di poc’anzi. La detenzione dei prigionieri italiani avvenne nelle carceri di Argostoli e nella caserma “Mussolini”, con poco cibo e poca acqua.

Il 24 settembre venne ucciso anche Gandin, alla tristemente famosa Casa Rossa, assieme a circa cinquemila uomini e agli ufficiali, uccisi a gruppi di 8, e le operazioni di sterminio non si fermarono fino al 28, non senza aver cercato di cancellare le tracce bruciando corpi o gettandoli in mare; se per l’operazione venivano usati soldati italiani, venivano poi uccisi per non lasciare testimoni. I prigionieri superstiti, circa tremila, furono inviati nei campi di concentramento caricandoli sulle navi in ottobre, ma alcuni perirono negli affondamenti causati dall’aviazione alleata, ignara del carico di uomini prigionieri, o dalle mine del Mediterraneo. Questo fu il caso, ad esempio, della nave “Ardena” diretta al Pireo che saltò in aria nel porto con 840 italiani nelle stive, dei quali se ne salvarono un centinaio, o della nave mercantile “Alba”, carica di materiale edile, che affondò portando con sé altri prigionieri italiani. Pasquale Acito si salvò e venne portato in ospedale dai tedeschi di un idrovolante, ricoverato per quattro mesi sul letto n. 537 dove seppe che solo pochi rimasero delle truppe di Cefalonia. Pochi uomini riuscirono a scappare e a trovare rifugio presso i partigiani greci; altri rimasero sull’isola per svolgere lavoro coatto. Sull’eccidio cadde un pesante silenzio per molto tempo; unico responsabile ufficiale fu il generale Lanz, condannato ad una blanda pena detentiva, mentre furono prosciolti gli ufficiali italiani accusati di avere fomentato la rivolta contro i tedeschi, originando così la resistenza sull’isola, causa di migliaia di morti.

Stessa sorte toccò, purtroppo, alle truppe italiane stanziate a Corfù e Zante. A Corfù, il 13 settembre, i fanti italiani catturarono il presidio tedesco che venne poi inviato in Italia scortato dai carabinieri, diventando gli unici prigionieri di guerra in mano al governo Badoglio; gli italiani vennero sopraffatti dai tedeschi sbarcati sull’isola il 24 e 25 settembre. I colonnelli Lusignani e Bettini, uccisi dai tedeschi, vennero insigniti della Medaglia d’oro al Valor Militare.

Anche in Albania la situazione divenne pesante per gli italiani dopo la comunicazione dell’8 settembre: circa 120mila persone, sia militari che civili, erano bloccate nella zona. Anche lì, i soldati ricevettero l’ordine di consegnare le armi. La resistenza albanese, già organizzata, passò per le armi molti italiani, mentre altri si trovarono in forti ristrettezze, patendo anche la fame; altri gruppi italiani formarono bande partigiane che combattevano contro i tedeschi, come fu per i battaglioni “Firenze” e “Gramsci”. I tedeschi, quindi, costituirono delle formazioni miste con i volontari albanesi che rimanevano dalla parte nazifascista e occuparono il Regno d’Albania fino al ritiro. Anche in Albania prese avvio una situazione di guerra civile.

[1] Alessia Biasiolo è Membro Associato al CESVAM, professoressa, docente del Master di 1° Livello in Storia Militare Contemporanea, Commendatore al Merito della Repubblica Italiana, Socio dell’Istituto del Nastro Azzurro