1908-2008: breve storia degli Slavi del Sud

  

Giovanni Cecini

Il XX Secolo si aprì con il lento e progressivo declino dell’Impero ottomano e gli ultimi sussulti di quello asburgico, che, nel desiderio di guadagnare la guida e il dominio degli interi Balcani, si ergeva ad avido tutore di tutta la galassia di piccole nazionalità che li abitavano. L’aggettivo «balcanico» stava a identificare non solo un’area geografica, ma soprattutto uno stato d’animo, un’identità variegata, contrassegnata da frequenti guerre, invasioni e conquiste. Non potendo tracciare confini etnici stabili e certi, ogni singola bandiera nazionale era il pretesto per nascondere aspirazioni e prevaricazioni di imperialismi tribali. In questo contesto si inseriva sin dagli inizi dell’Ottocento una corrente culturale e linguistica che come base aveva il concetto geo-politico di «Slavia del Sud»; per questo l’Impero multietnico di Vienna, concessa già la parità istituzionale a Budapest nel 1866, riteneva prioritario ostacolare questo «jugoslavismo». In antitesi alle ambizioni della Duplice Monarchia, la piccola ma agguerrita Serbia, dopo il colpo di stato del 1903, divenne il punto di riferimento di ogni possibile unità degli Slavi del Sud, trovando consensi nei vicini Montenegro e Bosnia-Erzegovina, dipendente ancora da Costantinopoli, ma nella sostanza amministrata da Vienna a partire dal Congresso di Berlino del 1878. L’Austria-Ungheria del resto aveva sempre considerato questa sua ingerenza nelle faccende bosniache come l’inevitabile premessa di una futura completa annessione, sottovalutando la possibile reazione dell’Italia (interessata a tutto ciò che gravitava intorno all’altra sponda dell’Adriatico, avendo a cuore Trieste e la costa dalmata) e sicura che dopo la sonora sconfitta zarista nella guerra con il Giappone del 1905, la Russia non potesse dare quel sostegno decisivo alle ambizioni della protetta Serbia. In questo senso, giudicando la decadenza ottomana come un pericolo e un’occasione, gli Asburgo nel 1908 occuparono militarmente la Bosnia-Erzegovina, facendo capire a Belgrado e a Pietroburgo che il pericolo maggiore venisse ormai da Vienna e non dalla moribonda Costantinopoli.

Proprio la profonda debolezza della Sublime Porta diede coraggio anche alle nazionalità balcaniche (Serbia, Bulgaria, Montenegro, Grecia), che nel 1912 firmarono patti bilaterali, costituenti una «Lega». In realtà tale alleanza, voluta e presieduta dalla Russia, era nata per impedire un’ulteriore penetrazione asburgica sullo strategico sangiaccato di Novi Bazar, ma la situazione favorevole indirizzò i suoi componenti a volgere le proprie energie contro l’esercito turco, già umiliato anche dall’Italia pochi mesi prima in Libia. Il conflitto (Prima guerra balcanica) causò un rovinoso colpo al già traballante Impero ottomano, tanto da perdere la quasi totalità dei suoi territori in Europa. Le condizioni di pace furono molto dure per il Sultano, ma Belgrado, per la contraria ingerenza diplomatica austriaca, non riuscì a ottenne il tanto agognato sbocco sul mare. Tuttavia grazie all’intervento russo e francese, dopo la Seconda guerra balcanica contro la Bulgaria, la Serbia si avvantaggiò della «Macedonia»[1] e del Kosovo, mentre la Metohija venne concessa al Montenegro, che nel 1910 si era autoproclamato regno indipendente sotto la guida del principe Nicola. Queste annessioni furono l’inizio di aspri contrasti e dure repressioni contro le deboli minoranze, soprattutto di etnia albanese.

Il nuovo equilibrio diplomatico instaurato tuttavia si rivelò instabile e fragile, non avendo per nulla risolto i rancori e gli antagonismi con la Duplice Monarchia, il cui erede Francesco Ferdinando non ebbe molta accortezza nel scegliere come data della sua visita a Sarajevo il 28 giugno 1914 (anniversario della battaglia del Kosovo del 1389, il giorno più importante della storia serba). Il suo assassinio, all’apparenza fatto secondario interno alla politica asburgica e lontano dall’interesse delle cancellerie europee, si tramuterà invece a pretesto per una Guerra mondiale. Nel giro di un mese l’evento generò una seria crisi diplomatica internazionale, che una dopo l’altra portò le potenze europee a scendere in campo tra i due logoranti schieramenti.

Durante il conflitto l’esercito della Serbia fu velocemente battuto e respinto dalle truppe dell’Austria-Ungheria e della Bulgaria (con il sostegno della popolazione albanese nella «liberazione» del Kosovo), tanto da dover trovare riparo in esilio attraverso l’Adriatico. Le due correnti principali della futura Jugoslavia, i croati e i serbi, combatterono in parti avverse, tuttavia durante il periodo bellico si aprirono negoziati a Corfù con il governo serbo in esilio, dove nel 1917 si accettò, come comune sentire, la volontà di creare uno Stato unitario.

Finita la Grande Guerra, il trattato di Saint-Germain-en-Laye (10 settembre 1919), quello di Neuilly (27 novembre 1919) e quello del Trianon (4 giugno 1920) regolarono, non senza aspre diatribe con i paesi confinanti, i territori e i relativi confini della zona compresa tra l’Adriatico e il Danubio, decretando la legittimità internazionale del Regno unificato dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, proclamato da un consiglio popolare sin dal 1° dicembre 1918. In questo modo una parte considerevole dei precedenti possedimenti delle vecchie Austria, Ungheria e Bulgaria confluivano in un soggetto completamente nuovo «jugoslavo», che comprendeva la maggior parte dei cosiddetti «Slavi del Sud» (il grosso dei bulgari ne era però escluso), che per distinzione si voleva differenziare da quelli «dell’Est» (russi, bielorussi e ucraini) e da quelli «dell’Ovest» (polacchi, cechi, slovacchi, sorabi e casciubi).

Le regioni che rientrarono in questa operazione geo-politica furono: la Serbia, considerata centro e madrina di tutto il nuovo Stato, a cui veniva accorpato il già indipendente Montenegro (riunendo così anche la «Macedonia», il Kosovo e la Metohija, spartiti tra i due Stati dopo le guerre balcaniche), la Backa e la Voivodina, che rendeva la capitale Belgrado non più città indifesa e di frontiera sulle rive del Danubio; la Slovenia, comprensiva di una fetta del ducato di Carniola, della Stiria meridionale e di una porzione della Carinzia; la Croazia, comprendente tutta la Dalmazia, la Slavonia e il territorio della Mur; l’attigua Bosnia-Erzegovina; nonché le regioni occidentali dell’amputata Bulgaria: i distretti di Strumica, un’ulteriore zona della «Macedonia», Caribrod, Timok, Bosiljgrad.

Va da sé che tale composizione altamente variegata, comprendente popolazioni di nazionalità, cultura, tradizione, religione, costumi e lingua (oltre all’alfabeto in taluni casi) diversi, potesse essere soggetta, per il governo centrale di Belgrado, a spinte centrifughe a seconda delle volontà e degli interessi propri e degli scomodi stati vicini. Infatti, fatte salve le già non lievi differenze dei vari ceppi slavi tra loro, lo Stato conteneva forti minoranze di magiari, rumeni, albanesi, italiani e tedeschi, che le rispettive Nazioni reclamavano con insistenza. In questa logica, per esempio, si inserì lo scontro per l’indipendenza prima e per l’annessione all’Italia poi della città costiera di Fiume, cruciale porto già appartenuto al Regno d’Ungheria, i ribellismi macedoni filo-bulgari e quelli dei montenegrini rimasti fedeli al re Nicola.

Discorso a sé, ma inerente alla situazione nel complesso della zona, investì l’Albania. Proclamato Stato indipendente nel 1912, dopo la Prima guerra balcanica, già a partire dallo scoppio della Grande Guerra i paesi dell’Intesa, tramite accordi diplomatici, ne volevano decretare la fine, con spartizioni a vantaggio di Grecia, Italia e Serbia, che come si è visto, era divenuta il catalizzatore di tutta la regione balcanica, promossa a Jugoslavia. Quest’ultima per esempio nel 1921 fu protagonista di un’invasione dell’Albania, in sostegno di un fantomatico Stato indipendente filo-serbo chiamato «Repubblica di Mirdita», che comprendeva gli albanesi cattolici. Belgrado lanciò un ultimatum a Tirana di abbandonare sei città, ma l’Albania si appellò alla Lega delle Nazioni, che impose il ritiro, cosa che le truppe jugoslave, senza scelta, fecero subito. Come in questa circostanza gli opposti interessi e i reciproci sospetti delle potenze vincitrici, portarono Tirana a ribadire la forza della sua autonomia e dell’integrità dei suoi confini, fino alla sua occupazione nel 1939 da parte dell’Italia fascista e del suo risorgere in repubblica socialista dopo la Seconda guerra mondiale.

Tornando a Belgrado invece, alla fine della Prima guerra mondiale, essa vedeva nella Serbia la radice identitaria dell’unità jugoslava, come lo era stata la Prussia per la Germania e il Piemonte per l’Italia. Per questo il nuovo sovrano Alessandro il 28 giugno (ormai data ricorrente e densa di significati) 1921 prestò il giuramento di fedeltà alla Costituzione, che stabiliva una comune Nazione slava, diplomaticamente vicina alla Piccola Intesa (insieme alla Cecoslovacchia e alla Romania) e alla Francia contro ogni possibile rivendicazione revisionista ungherese. La realizzata unificazione istituzionale, centralizzata e suddivisa in trentatre «regioni» (identificate con nomi di fiumi) che ignorava i confini etnici, tuttavia non riuscì ad assorbire i sentimenti locali, con relative occasioni di agitazione politica interna, spesso scaturita dagli antagonismi del sistema dei partiti, speculare alla frammentazione delle nazionalità. I continui disordini e l’instabilità governativa portarono il re ad abolire la Costituzione all’inizio del 1929, introducendo una vera dittatura monarchica. Venne quindi cambiato il nome dello Stato in «Regno di Jugoslavia», riviste le suddivisioni interne (10 banati) con un sistema centralizzato di ispirazione francese e inaspriti i poteri in mano al sovrano, decretando però il suffragio universale maschile. Questa situazione spinse l’opposizione interna e degli esiliati a essere molto attiva contro il regime instaurato, tanto da giungere all’assassinio dello stesso Alessandro (insieme al ministro francese Barthou) il 9 ottobre 1934 a Marsiglia. Vista la minore età del principe ereditario Pietro, si seguirono le volontà del monarca morto, procedendo a un consiglio di reggenza, che diede impulso in maniera altalenante alla politica interna ed estera jugoslava in balia delle tendenze internazionali fino ad approdare nel 1941 alla firma del Patto Tripartito insieme alla Germania, all’Italia e al Giappone. Questa decisione creò una serie di malesseri sociali, espressione delle varie sensibilità all’interno del Paese. Seguì un colpo di stato militare anglofilo, capeggiato dall’ormai maggiorenne Pietro, che recuperò la gestione del Paese, disponendo l’uscita dall’influenza tedesca e la formazione di un governo di unità nazionale, sostenuto da elementi dell’opposizione democratica serba. Questo ritorno alla «normalità» però durò poco, perché la campagna militare tedesca della primavera del 1941 colpì a morte la Jugoslavia, questa volta portandola sotto la piena occupazione dell’Asse. Oltre a vere e proprie ampie annessioni da parte di Italia, Germania, Ungheria, Bulgaria e Albania, i restanti territori divennero semplici Stati fantoccio: un elefantiaco Regno di Croazia, un «indipendente» Regno di Montenegro (di gradimento italiano) e un’umiliata e amputata Serbia (sotto il comando militare tedesco).

Tuttavia, se a livello giuridico il governo legittimo della casa regnante continuava a essere riconosciuto in esilio dagli Alleati, durante il periodo bellico, scacciati gli invasori tedeschi e italiani, il potere effettivo passò nelle mani dei partigiani comunisti del croato Josif Broz (Tito), che nella sostanza poteva vantare di essere stato l’unico esercito nazionale ad aver liberato il proprio territorio con le sue sole forze. Infatti a guerra finita, nonostante il «Regno» de jure fosse gradualmente tornato in possesso di tutti i suoi territori precedenti, le formazioni della Resistenza titina nel dicembre del 1945 abolirono la monarchia, proclamando nella capitale Belgrado una nuova «Repubblica popolare federativa di Jugoslavia», composta da sei repubbliche socialiste (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Macedonia, Montenegro) e due province autonome all’interno della Serbia (Kosovo e Voivodina). Secondo gli accordi tra Stalin e Churchill dell’ottobre 1944, nell’intento di suddividere equamente l’Europa in zone d’influenza, la Jugoslavia sarebbe stata controllata in comune, ma la forte personalità del maresciallo Tito, portò il suo Paese a divenire una sorta di zona franca indipendente, anche se ufficialmente socialista e quindi per logica direttamente collegata all’Unione Sovietica. Tuttavia, a parte l’interesse a beneficiare dell’iniziale appoggio che Stalin dimostrò a favore di Belgrado per la questione di Trieste e per l’eventuale acquisizione della Carinzia austriaca, la politica di Tito a partire dal 1948 si caratterizzò sempre per un certo ribellismo contro la rigida dottrina e ortodossia di Mosca, che ne voleva di conseguenza limitare l’autorità e l’autonomia politica. Quello, che i sovietici con disinvoltura condannavano come eresia, era in realtà solo uno scisma. La vittoria autonoma jugoslava nella lotta di liberazione contro i tedeschi permetteva al Maresciallo di rispondere con forza (e con un indubbio ascendente sui dirigenti del partito comunista nazionale) al peso psicologico degli altri capi comunisti bulgari, rumeni o polacchi, che viceversa vedevano il loro potere derivante unicamente dal trionfo dell’Amata rossa sul Reich hitleriano. Questa grave indisciplina di Belgrado, considerata vero antagonismo alla politica dell’Unione Sovietica, venne severamente ostacolata e isolata anche dai vertici degli altri partiti comunisti europei. In questo contesto, rimanendo a modo suo sempre fedele alla causa marxista (riconobbe proprio nel 1948 la Corea del Nord), Tito si avvicinò all’Occidente, almeno per non rimanere indietro in fatto di armamenti, rifiutando però sempre categoricamente le offerte di entrare nel Patto atlantico. Solo dopo la morte di Stalin nel 1953, le relazioni diplomatiche tra Mosca e Belgrado tornarono cordiali, anche se il Maresciallo aveva ormai iniziato a cavalcare a metà degli anni Cinquanta la politica dei paesi «non allineati», insieme a Nasser in Egitto e a Nerhu in India, non trovandosi completamente in sintonia con gli interventi sovietici in Ungheria.

In politica interna già nel 1946 si fissava al fianco della cittadinanza e del patriottismo «jugoslavo», la forte tutela delle singole «nazionalità». Con la nuova costituzione del 1963, che ribattezzava lo Stato in «Repubblica socialista federativa», lo spirito unitario «comunista» era bilanciato dal principio di una maggiore partecipazione delle varie repubbliche e province autonome alle più rilevanti decisioni politiche e di una più efficace salvaguardia della loro eguaglianza e autonomia. Seguendo questa logica, la costituzione del 1974, in seguito alle tensioni interne, dovute ai vari nazionalismi locali e alle tendenze liberali dei serbi, sancì il diritto per le repubbliche (ma non per le province autonome) di poter staccarsi dalla federazione, altro elemento che differenziava il sistema istituzionale jugoslavo da quello accentratore sovietico. Nonostante ciò la stabilità unitaria resistette anche alla morte di Tito nel 1980, con qualche disordine grave solo in Kosovo, dove la popolazione albanese e mussulmana reclamava ormai ad alta voce la propria autonomia.

Solo la caduta del Muro di Berlino e l’implosione del sistema socialista nell’Europa dell’Est portò a un serio riesame politico-istituzionale per i popoli componenti la Jugoslavia. Delle sei repubbliche, le prime a proclamare l’indipendenza furono la Slovenia e la Croazia (giugno 1991), seguite dopo poco dalla Macedonia (settembre 1991) e dalla Bosnia-Erzegovina (aprile 1992). Se nel caso di Lubiana il governo di Belgrado non poté quasi opporsi, contro l’indisciplina delle altre repubbliche che avevano confini comuni con la «madre Serbia», si iniziarono cruenti scontri di guerra civile, di fronte ai quali sia le Nazioni Unite sia la Comunità europea non seppero reagire con efficacia. A quel punto le due repubbliche socialiste rimaste, la Serbia e il Montenegro, diedero vita nell’aprile del 1992 alla «Repubblica federale di Jugoslavia», mettendo la parola fine alla storia dello Stato socialista. Questa situazione, oltre alla forte tensione che creava tra gli stessi slavi, ripresentò anche un altro storico motivo di frizione: il governo di Atene mosse delle recriminazioni contro quello di Skopje per il nome di «Repubblica di Macedonia», che da un lato creava ambiguità per l’origine ellenica del termine, ma anche perché poteva dare adito a eventuali rivendicazioni sul territorio omonimo in Grecia. Similmente in seguito al referendum del maggio del 2006 anche il Montenegro è tornato, dopo circa novanta anni, uno Stato indipendente, ponendo fine anche all’ultimo retaggio di unione jugoslava.

Intanto nella provincia del Kosovo dopo decenni di aspre lotte politiche e dopo due lustri di serie rivendicazioni (anche violente) d’indipendenza guidate dal Movimento di liberazione kosovaro albanese (UÇK), nel 1999 si aprì una crisi profonda con relativo conflitto armato, che portò l’intervento della Nato in protezione di Pristina, attaccata dal governo di Belgrado. Tuttavia la situazione non si stabilizzò che con gradualità e dopo crudeli anni di scontri politici e militari, fino ad arrivare alla controversa dichiarazione d’indipendenza, approvata dal parlamento locale, del 17 febbraio 2008. Come prevedibile, Belgrado non solo ha rigettato tale decisione unilaterale, ma ha colto l’occasione per minacciare la rottura diplomatica con qualunque altro Stato avesse riconosciuto una repubblica kosovara autonoma. In questi frangenti la comunità internazionale si è divisa: da un lato vi è stato il pieno e rapido riconoscimento degli Stati Uniti e della Turchia, dall’altro il chiaro rifiuto di Russia e Cina, mentre l’Unione Europa (come spesso accade in questi casi) non ha trovato una politica estera comune, lasciando alle singole Nazioni la libertà di optare per la scelta più opportuna. Fra i favorevoli si annoverano la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia, mentre tra i contrari la Spagna, la Grecia, la Romania e Cipro.

Alla base di queste diverse scelte, più che ragioni di «giustizia» e di «legalità», spesso ha inciso il timore di creare scomodi precedenti in fatto di stabilità interna per i rispettivi movimenti di minoranze, presenti nei singoli Paesi, primi fra tutti i ceceni, i baschi e i nord-ciprioti. Anche in questo caso, come per le questioni caucasiche, curda e palestinese, i grandi guasti provocati dalle maldestre decisioni della conferenza della Pace di Parigi nel 1919 sono ancora fonte di continue agitazioni e prese di posizione unilaterali, traumatiche e cruente non solo per le istituzioni politiche, ma soprattutto per le popolazioni civili, che vi si trovano coinvolte spesso loro malgrado. Gli Alleati nel 1945 hanno vinto la Seconda guerra mondiale, i loro nipoti nel 2008 devono ancora «risolvere» la Prima …

[1] La Macedonia (propriamente detta) rappresentava e rappresenta un elemento di forte contrasto internazionale tra l’attuale «Macedonia» (Repubblica di), la Grecia e la Bulgaria. Al pari di altre Nazioni e territori contesi (come quello della Moldavia e delle Repubbliche transcaucasiche) e suddivisi in Stati diversi, il solo fatto di usare il termine unitario, per identificare una porzione di quello che verrebbe identificato come sua totalità, produce grave offesa e timore per gli altri Stati, che ne contengono parte di popolazione.