APPROFONDIMENTI
di Alessia Biasiolo*
Premessa
La situazione europea ha sempre visto il continente scenario di conflitti di varia natura e con alleanze contrapposte che si andavano formando e disfacendo a seconda dei momentanei interessi. Spesso nemici giurati diventavano alleati per soverchianti interessi di corone e territori, molto meno per gli interessi dei popoli. Tuttavia, le persone che costituivano i popoli stessi erano quanto mai necessarie sia per mobilitarsi in caso di guerra, sia per finanziare la guerra stessa. L’acquisto di armi, di divise e il mantenimento dei soldati non poteva sempre essere garantito con il bottino bellico, ma doveva essere finanziato dallo Stato, o dagli Stati, che avevano generato, tramato, architettato o cercato di porre un freno al conflitto in essere.
Uno dei metodi più brillanti per finanziare le guerre l’aveva messo a punto il puntale governo asburgico, istituendo tasse (soprattutto sui territori occupati) che garantissero un gettito costante nelle casse dell’impero; metodo ben presto copiato un po’ da tutti i parenti europei e mantenuto anche quando i motivi bellici non c’erano più. Si doveva incassare tasse per pagare la ricostruzione o le imprese coloniali, si doveva incassare tasse per lubrificare l’ampia macchina imperiale o statale, sempre con nuovi bisogni, acutizzati o meno dalle crisi economiche che si sono ripetute nel tempo.
Tasse e ribellioni. Le “Dieci Giornate” di Brescia
L’Austria aveva subito un pesante smacco dalla città di Brescia nel 1849, quando questa si era ribellata nelle famose “Dieci Giornate”. Siamo ai tristi esiti della prima guerra risorgimentale e la rivolta nota come “Dieci Giornate” cominciò il 23 marzo 1849, quando il comandante di piazza capitano Ferdinando Pomo di Wayerthal si recò al palazzo municipale per reclamare la rata della multa imposta alla città da Haynau, comandante delle truppe imperiali, come punizione per la rivolta antiaustriaca dell’anno precedente.
La folla riunita in Piazza Vecchia, anni dopo chiamata Piazza della Loggia, si ribellò, e il popolo assaltò anche due carri che, scortati dai soldati, portavano i viveri in Castello, guarnigione austriaca, mentre i gendarmi di stanza in Broletto venivano richiamati nel maniero. Per rappresaglia dinanzi al tumulto di piazza, nel pomeriggio il comandante austriaco della guarnigione, Leschke, che aveva in dotazione quattordici cannoni, cominciò a bombardare la città per avvertimento, colpendo con tre cannonate la stessa Loggia, il palazzo municipale. Era il modo per affermare che non veniva dato alcun peso alle autorità e alla volontà cittadine, così come non si era, negli anni, contribuito ai lavori di ammodernamento del palazzo, proprio per non conferirgli più del necessario il senso di centro politico cittadino.
Il comandante Pomo venne preso prigioniero dalla Banda Maraffio, dal soprannome di un violento macellaio che si chiamava Carlo Acerboni: la banda cominciò ad operare proprio dal 23 marzo contro gli Austriaci ed era composta da una trentina di patrioti, autori anche di arresti di ufficiali.
Leschke concesse una tregua di alcune ore, fino a mezzanotte, prima di bombardare ancora la città, sperando che le persone tornassero alla ragione e riconsegnassero i prigionieri, mentre dal fronte le notizie non furono positive per gli insorti. Avendo, correttamente, secondo le procedure, annunciato la guerra con una settimana d’anticipo, Carlo Alberto aveva anche lasciato il tempo al nemico di organizzarsi e di questo i generali austriaci approfittarono riuscendo ad infliggere al Re sabaudo una sonora sconfitta durante la battaglia di Novara proprio del 22 e 23 marzo. La sconfitta portò il Re all’armistizio di Vignale concordato il 24 marzo e firmato il 26. Carlo Alberto abdicherà in favore del figlio Vittorio Emanuele II.
Fu questa la notizia che a Brescia pare proprio non fosse arrivata. Leschke, scaduto l’ultimatum, vedendo che la città non decideva di smettere la lotta, mandò due corrieri a chiedere soccorso alle truppe austriache di Verona e di Mantova, e per coprire la loro corsa, riprese il bombardamento. Il centro cittadino venne bombardato a casaccio, per creare panico tra la gente che dormiva. Le truppe austriache di rinforzo, in due colonne di 860 uomini, comandate dal generale Johan Nugent, arrivarono e assalirono una porta.
Alla proposta di resa di Nugent posta alla delegazione di patrioti, venne risposto: “[…] il popolo in massa ha respinto con indignazione la vostra proposta proclamando che si deve vincere o morire e che la città è pronta a resistere finché sia ridotta in cenere […] Signore! non confidate troppo nelle vostre forze perché la massa popolare di una città agguerrita non si vince che con un potente esercito […]”.
In quell’occasione, il generale dell’Impero comunicò la disfatta di Novara ai danni dei Piemontesi, ma non venne creduto. La lotta sarebbe continuata, dunque, e le campane ripresero a chiamare all’armi. I cannoni continuarono a rombare e piovve sulla città un inferno di fuoco.
Le truppe austriache riuscirono ad entrare in città, compreso il comandante Haynau, e raggiunsero il Castello anche aiutate da una fitta nebbia; cominciarono poi ad incendiare le case collinari, costringendo le persone alla fuga con quanto potevano portarsi appresso, bestie comprese.
Verso le 9 del mattino del 31 marzo, alcuni soldati austriaci con bandiera bianca consegnarono in municipio un dispaccio di Haynau in cui il maresciallo intimava la resa incondizionata della città entro mezzogiorno.
“Notifico alla Congregazione Municipale che io, alla testa delle mie truppe, mi trovo qui per intimare alla città di arrendersi tosto, e senza condizione. Se ciò non succederà sino oggi a mezzogiorno, se tutte le barricate non saranno interamente levate, la città sarà presa d’assalto e lasciata in balìa a tutti gli orrori della devastazione. Tutte le uscite della città verranno occupate dalle mie truppe, ed una resistenza prolungata trae seco la certa rovina della città.
Bresciani! voi mi conoscete; io mantengo la mia parola!… Il Tenente Maresciallo Haynau”.
Superato lo sconcerto iniziale per la rivelazione della presenza in città del temuto maresciallo, il Consiglio Comunale, riunito in seduta permanente, inviò in Castello una delegazione composta da quattro persone a parlamentare e a chiedere spiegazioni; visto che mancava poco a mezzogiorno, Haynau prorogò l’intimazione di resa fino alle 14, per permettere i chiarimenti.
Alla folla radunata sotto il portico della Loggia vennero lette le condizioni di resa, ma questa le respinse urlando il proseguimento a oltranza della lotta. Scaduti i termini della tregua, gli austriaci mossero all’assalto. I combattimenti infuriarono sanguinosissimi.
Nella relazione al comandante Radetzky, Haynau scrisse: “Attesa la grave perdita che avevamo di già sofferta, l’ostinazione ed il furore del nemico, si dovette procedere alla più rigorosa misura, comandai perciò che non si facessero prigionieri e fossero immediatamente massacrati tutti coloro che venissero colti col’arma in mano; le case da cui venisse sparato, incendiate; e così avvenne che il fuoco già incominciato parte ad opera delle truppe, e parte dal bombardamento, si appiccò in parecchi luoghi”.
Per intercedere nei confronti di Haynau, implorandogli di avere pietà della città ribelle, venne chiamato un padre provinciale dei Frati Minori, padre Maurizio Malvestiti, che riuscì ad ammansire il generale Haynau, ad evitare la distruzione della città e la strage del popolo. Intorno a sé case bruciate, incendi e cadaveri che gli austriaci avevano vietato di seppellire.
Il Maresciallo Haynau chiese che venisse esposta ovunque la bandiera bianca e di accogliere le truppe in arrivo senza colpo ferire. Alle 15.30 del primo aprile, entrarono a Brescia i battaglioni austriaci sfilando baldanzosi per le vie della città, mentre la bandiera austriaca sventolava su Torre Mirabella in Castello.
Si chiese alla città vitto e alloggio per la truppa e gli ufficiali, ma macellai, fornai, osti e pizzicagnoli non c’erano più. La ricerca diventò furiosa ed imperante, per fornire 15.000 razioni di pane, vino, salumi, legna per l’esercito e forse chi era in grado di soddisfare le richieste, si eclissava.
Interessante notare come nel proclama di condizioni di resa venne chiesto di ricollocare gli stemmi imperiali entro 48 ore, pena una multa. E la multa di guerra per questa ennesima rivolta ammontava all’ingente cifra di sei milioni di svanziche (lire austriache) per città e provincia compresa, che peraltro non si era neanche ribellata, da pagarsi mensilmente a rate di 500.000 lire, a partire dal primo maggio. La città doveva farsi carico anche di 257.743,73 lire di spese e doveva essere risarcito, inoltre, il danno militare all’Impero, compresi indennizzi per feriti e orfani, ammontante a trecentomila lire da pagarsi nei mesi di aprile, maggio e giugno. In più doveva essere pagata la rata di 260.000 lire scaduta in marzo, relativa alla multa per i fatti del 1848.
Haynau firmò, il 2 aprile 1849, l’ultimo punto del proclama formalizzante quelle richieste: “Le mie truppe riceveranno entro trentasei ore un soprassoldo di sussistenza di una lira austriaca al giorno per uomo, e i signori ufficiali, eccettuato me, le diete competenti secondo il carattere, e questo dal 26 del mese passato a tutto il sei aprile di quest’anno. La forza delle truppe sarà notificata alla Congregazione Municipale. Per quegli morti nella lotta riceveranno le loro famiglie le quote rispettive. Haynau Comandante dell’I. R. II Corpo d’Armata di Riserva Tenente Maresciallo”.
Questo breve sunto di una lotta immane, sottolinea proprio le necessità pratiche al termine di una battaglia di guerra a tutti gli effetti, e che sottolinea una volta di più i motivi del tempo per odiare gli occupanti. Intanto vennero giustiziati coloro ritenuti colpevoli della ribellione all’impero e vennero negati i conforti religiosi adducendo l’Haynau che “Chi si ribella al suo sovrano, si ribella a Dio”. Vennero negate le sepolture per giorni, poi organizzate in fosse comuni, e le fucilazioni proseguirono in tutto per tre giorni. Nei mesi seguenti continuarono gli interrogatori per scoprire i responsabili degli atti di insurrezione, ma quasi tutti i centoottantacinque incriminati erano riusciti a mettersi in salvo. In luglio, vennero impiccati dodici popolani.
Il poeta veneto Aleardo Aleardi, giunto a Brescia dopo essere stato scarcerato dagli austriaci che lo avevano arrestato per la sua propaganda indipendentista, scrisse in “Canti Patrii” del 1857 le mirabili parole con le quali la città viene universalmente identificata, essendo la vicenda delle “Dieci Giornate” narrata a lungo, più del Sacco francese che fece al tempo parlare di Brescia in ogni angolo del continente: “… Niobe guerriera de le mie contrade,/ Leonessa d’Italia,/ Brescia grande e infelice”, poi riprese da Carducci.
La produzione birraria industriale e la tassazione
A Brescia era stata fondata la prima fabbrica industriale di birra in territorio italiano, dal lungimirante Franz Wavier Wührer: austriaco, aveva deciso di trasferirsi per motivi personali nella zona italiana dell’impero nel 1829. Ben presto, aveva insegnato a far convivere il vino, bevanda nazionale italiana, con la birra, per la quale aveva convinto non pochi contadini della Bassa Bresciana di coltivare orzo. E aveva iniziato la produzione artigianale, forte del fatto che i molti austriaci presenti nella guarnigione e nelle caserme cittadine, avrebbero apprezzato la birra prodotta con ricetta austriaca, così buona da essere poi esportata anche in altre zone dell’impero stesso.
Dopo gli episodi del 1849, la forte presenza di truppe austriache in città giustificava l’aumentato profitto da vendita di birra, conseguentemente la possibilità di Franz di acquistare la casa di Santa Maria in Calchera nel 1851, allora sede della sua produzione. Franz, pur essendo austriaco, non veniva vissuto troppo come straniero ed è certo che i suoi figli furono dei patrioti italiani contro la dominazione austriaca.
Dieci anni dopo, senza colpo ferire, Brescia vide gli austriaci andarsene, attestandosi nelle campagne circostanti in preparazione della battaglia di San Martino e Solferino. La Lombardia otterrà la libertà, mentre il dominatore mise in atto un comportamento vendicativo nei confronti dei territori che si erano ennesimamente ribellati all’impero e che non mostravano di arrendersi all’evidenza di non poter ottenere l’indipendenza.
Furono ad esempio gli abitati di Limone, Tremosine, Tignale, Gargnano, Toscolano, privati del diritto di mettere in acqua qualsiasi barca per raggiungere i paesi vicini, fatto impossibile per strada, dal momento che non erano carrozzabili le vie per Riva e Gargnano. Finite da tempo le provviste, la gente viveva di contrabbando, a prezzi insostenibili, e scriveva: “Voi altri a Brescia curate con ogni premura e mantenete i loro feriti [i feriti austriaci provenienti dal campo di battaglia di San Martino e Solferino del 24 giugno 1859, portati negli ospedali di Brescia, N.d.A.], ed essi qui ci fanno stentare la vita! Aggiungi che la povera gente non ha più mezzo di guadagnare un soldo, perché nelle cartiere non si lavora, le fucine del ferro sono inoperose, i pescatori e i conduttori di barche devono starsi colle mani alla cintola, mentre le loro famiglie languiscono nella immeritata miseria. Vedi se abbiamo ragione di maledire a questa razza abborrita! Che Iddio ce ne liberi presto”.
La situazione era tesa, tanto da arrivare alla Terza guerra d’indipendenza del 1866. Il figlio di Franz, Pietro, nato a Brescia il 19 novembre del 1849, si arruolò nel Corpo Volontari Italiani di Giuseppe Garibaldi, incorporato nella 5^ Compagnia del 2° Reggimento Volontari Italiani, comandato dal colonnello Pietro Spinazzi. Pietro partecipò all’occupazione della Valle del Chiese dopo la battaglia di Ponte Caffaro, quindi alle operazioni in Val Vestino, all’assedio di Forte d’Ampola e, infine, alla battaglia di Pieve di Ledro. Finalmente si ottenne la liberazione dal dominio austriaco anche del Veneto.
Tornato alle occupazioni civili, nel 1867 Pietro subentrò al padre nella conduzione dell’azienda birraria. Sono gli anni della quasi completa costituzione dell’Unità italiana sotto Casa Savoia: infatti nel 1870 venne annesso al Regno anche lo Stato Pontificio.
I problemi circa il pagamento delle tasse e dei dazi non erano nuovi, tanto che nel 1872, Pietro sarà alle prese con una causa contro il Comune di Brescia per il pagamento del dazio sull’orzo utilizzato nella produzione della birra. L’avvocato del Comune era Giuseppe Zanardelli, che perse tuttavia a favore delle ragioni del produttore di birra.
Tuttavia, la situazione non era rosea: il governo deciderà a breve di aumentare la tassazione sulla birra con una legge tristemente famosa come “legge catenaccio”, che costrinse molti impianti artigianali e anche le fabbriche di birra a chiudere.
Sarà lo stesso Giuseppe Zanardelli, a farsi portavoce della necessità per le fabbriche di birra di rivedere la pressione fiscale che in Italia arrivava a 15 lire all’ettolitro, contro le 3 lire dell’Austria.
Scrisse Zanardelli, allora Ministro di Grazia e Giustizia, all’onorevole Magliani, Ministro delle Finanze: “Mio caro Magliani, in compenso degli svantaggi derivanti dal trattato con l’Austria per la produzione della Birra in Italia, unico mezzo di vita pei produttori odo essere quello degli abbonamenti […] quindi questi abbonamenti essi chiedono ed io spero che tu, così favorevole alle industrie nazionali, consentirai. Ti prego di accogliere la commissione con l’usata tua gentilezza. Fra i componenti havvi anche un mio concittadino; esso ha una fabbrica progredente che a Brescia increscerebbe vedere annientata…”.
Scriveva un articolista che “Così avvenne che mentre era stata decretata la rovina degli industriali fabbricatori di birra, il Governo, pur avendo raddoppiata la tassa, incassava meno di prima e non fu che dopo otto anni che riuscì a raggiungere il cespite di guadagno che primitivamente le tasse gli procuravano”.
Gli anni ’90 dell’800, comunque, iniziarono con una forte depressione economica dovuta alla crisi agraria e all’effetto della rivoluzione demografica; la crisi economica comportò l’arresto degli investimenti industriali, la diminuzione della spesa per le opere pubbliche che in alcuni casi venne sospesa del tutto, e la forte riduzione della domanda interna, con un alto tasso di emigrazione della forza lavoro dal Paese.
Una lettera inviata dal Circolo bresciano di industriali scriveva a Zanardelli che “L’aggravio insostenibile e sproporzionato alla potenza contributiva della Nazione”, doveva essere ridimensionato e i soldi che non si fossero ottenuti con l’aumentata tassazione dovevano invece essere recuperati con “un programma di radicali economie e di decentramento in tutti i rami della pubblica Amministrazione”.
Intanto vennero messi in atto radicali cambiamenti. Le forze politiche e sociali che cercavano spazio nella gestione del credito erano impegnate nella fondazione o gestione delle banche. Si assistette in quegli anni in Italia ad una crisi non solo politica ma anche sociale, dovuta alla rapida crescita dei movimenti operai e della loro politica socialista alla quale la classe dirigente borghese cercava di dare risposte politiche adeguate. Ci si interrogava sul ruolo che dovesse svolgere lo Stato nella dialettica capitale/lavoro e su quali potessero essere le giuste scelte in campo fiscale e sociale, per stare al passo con le trasformazioni economiche e industriali del momento che, finalmente, sembravano portare ad una svolta economica positiva, dopo un lungo momento di depressione. Tanto che nel 1898 il reddito medio di un italiano era di circa 223 lire contro le 573 dei francesi e le 802 degli inglesi, molto al di sotto del minimo indispensabile per vivere. Questo si traduceva in carenze alimentari, con una riduzione del consumo giornaliero di pane, passato dai 330 ai 277 grammi, contro i 553 grammi consumati mediamente in Francia.
Fino al 1898 la ripresa economica era stata lenta, con accelerazioni per alcuni settori come quello elettrico e zuccheriero. L’anno successivo fu quello che cominciò a segnalare più chiaramente un miglioramento economico italiano vero e proprio, dimostrato dal numero di fondazioni di società anonime che stava riprendendo una tendenza positiva.
I numeri consolidati del 1899, dimostrarono effettivamente la svolta, con un progressivo aumento degli indicatori economici fino all’impennata del 1904 che si mantenne fino al 1906, quando l’economia italiana arrivò a livelli elevatissimi, soprattutto grazie ad una congiuntura favorevole: la minore presenza di manodopera dovuta alla forte emigrazione, l’arrivo di denaro da chi aveva trovato lavoro all’estero, l’economia statunitense che fungeva da traino. In questo periodo si vide un vertiginoso aumento dell’utilizzo degli avanzi di cassa e della forte liquidità in speculazioni di Borsa, per ottenere realizzi di plusvalenze facili in mancanza di alternative valide di utilizzo del denaro.
Dal 1901 al 1905 si vide anche la nascita di moltissime società anonime e la trasformazione di molte realtà in società per azioni.
Nel 1902 il Castello di Brescia teatro degli scontri italo-austriaci venne dichiarato monumento nazionale.
Imprenditoria e tensioni socio-politiche
Il 9 maggio 1908, in un rapporto inviato al Direttore Generale della Banca d’Italia da parte degli ispettori Gabrielli e Montelatici sulla provincia di Brescia, si legge che la provincia in oggetto “[…] estesissima di territorio, ricca di forze naturali, con una popolazione molto intraprendente, non poteva rimanere estranea al rapido movimento di ascensione verificatosi in questi ultimi anni in ogni ramo d’industria”. Risulta dal rapporto che fossero molto attive le produzioni di seta e la metallurgia “il risveglio recente dette alle industrie già esistenti un incremento notevole ed altre ne fece sorgere che si applicavano ai rami meno sfruttati o fino allora negletti”, industrie che si trovarono a dovere ricorrere al credito soprattutto per far fronte ai necessari ampliamenti richiesti dall’aumento della domanda, oppure per colmare la mancanza di capitale destinato alle spese per gli impianti. Si legge ancora nel rapporto che “È quest’ultimo, purtroppo, il difetto di origine di molte fra le imprese industriali le quali vanno per tal modo a trovarsi esposte a tutte le conseguenze che una improvvisa restrizione del credito può creare ad aziende aventi i loro capitali totalmente o quasi immobilizzati. E tal vizio […] accompagnò il sorgere di molte fra le società industriali bresciane le quali nei momenti di entusiasmo (e in questa regione sono purtroppo assai facili agli entusiasmi), ricorsero largamente al credito, aiutate in ciò dagli amministratori, che non esitarono a porre a rischio le loro private sostanze sottoscrivendo cambiali per le sovvenzioni di cui abbisognavano le loro imprese. Queste sovvenzioni, in tempi normali, sarebbero state […] di breve durata […] Ma sopravenne la crisi [del 1907, N.d.A.] e con essa la sfiducia: il mercato, reso diffidente dai non indifferenti disastri di imprese che parevano destinate a successi mirabili, si addimostrò tutt’altro che propenso a fornire alle industrie i nuovi capitali che gli fossero richiesti sotto forma di emissione di azioni”. Non era estranea la forte tassazione.
Pertanto il rinnovamento doveva accompagnarsi ad un’oculata amministrazione patrimoniale, oltre che ad investimenti infrastrutturali, per rendere comunicazioni e strade all’avanguardia. Con un occhio alla politica estera, fondamentale per organizzare i commerci e le esportazioni.
Il 30 aprile 1912, l’attenzione della stampa era posta sulla questione turca dei Dardanelli, con una ferma posizione italiana che si esprimeva così: “Noi oggi ripetiamo che se l’Italia ha consentito spontaneamente a tracciare un limite nella sua azione in certi mari e su certe coste, ciò non significa affatto che sia disposta a lasciarsene imporre altre per forza per altri luoghi e in altre terre. Questa limitazione noi ce la siamo imposta in considerazione di un nostro capitale interesse. Ma, dove questo interesse non è certo un giuoco, noi – pur procurando di non danneggiare oltre l’inevitabile gli interessi dei neutri, – non possiamo certo astenerci dal fare tutto il nostro possibile per colpire la Turchia dov’è maggiore la sua vulnerabilità, per ridurla alla ragione e costringerla ad accettare l’inevitabile soluzione della guerra”.
Il governo turco, infatti, non intendeva riaprire lo stretto dei Dardanelli finché la flotta italiana non si fosse ritirata dal mar Egeo, probabilmente incoraggiata da alcune potenze che la appoggiavano in questo tipo di politica. L’Italia non era in quel frangente intenzionata a colpire la Turchia, ma voleva imporre un isolamento a Costantinopoli con il blocco dei porti, controllati appunto dalla flotta militare, per forzare militarmente e politicamente l’avversaria a ritornare sulla considerazione che gli stretti non potevano essere di pura competenza dei Paesi che li governavano. Si trattava di posizioni che influenzeranno pesantemente di lì a un paio d’anni, gli schieramenti in campo bellico in quella che sarà la prima guerra mondiale. Dopo pochi giorni, l’annuncio di Giolitti alla Camera dava diecimila uomini al comando del generale Ameglio come occupanti di Rodi dopo un attacco alla baionetta.
Nello stesso tempo, venne siglato l’impegno nella guerra di Libia. Brescia aveva inviato gli artiglieri in guerra. Il corteo dei soldati in partenza, preceduto dalla fanfara del 77° Reggimento fanteria, aveva percorso Corso Garibaldi e Via Giuseppe Verdi per giungere alla stazione ferroviaria ed unirsi al gruppo di artiglieri bergamaschi, giunti a Brescia in treno. Presenti alla partenza il generale Marazzi, il capo di Stato Maggiore Graziani e il tenente colonnello Nullo, giunti per salutare le “truppe italiane combattenti nella lontana Libia per un ideale santo di civiltà e di progresso umano”.
In quel frangente, la Triplice Alleanza che vedeva l’Italia a fianco di Austria e Germania, manteneva la sua ragion d’essere, con stretta e calorosa alleanza tra Austria e Italia, al punto che diplomatici austriaci affermavano: “Il conflitto armato che dura da sì lungo tempo nel quale la nostra alleata è impegnata, non è purtroppo ancora finito: abbiamo vivo desiderio che la effusione di sangue abbia presto termine”.
Dal punto di vista politico, fino al 1913 non c’erano stati dubbi circa l’appartenenza delle associazioni degli imprenditori al campo liberale, condividendone i valori politici che avevano trovato voce nel governo di Giovanni Giolitti, colui che aveva voluto l’impresa libica. Gli imprenditori italiani, e quelli del Nord-Ovest particolarmente, stavano cercando di trovare il modo di governare il rapido mutamento in atto, organizzandosi anche sindacalmente ad imitazione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Nel tempo in cui gli industriali conclusero di consolidare le associazioni rappresentative dei loro interessi, si venne impoverendo e disperdendo il patrimonio che aveva consentito di coniugare un’elevata crescita economica con le politiche di intervento pubblico e sociale.
Fra gli industriali e il governo, sempre costretto a tenere conto del consenso per potersi garantire la stabilità, si aprì dunque una profonda spaccatura.
Il 1913 segnò la crisi tra la politica liberale e gli imprenditori, con la formalizzazione delle organizzazioni sindacali imprenditoriali. Si poteva temere come conseguenza la serrata degli stabilimenti da parte degli industriali, anziché degli operai, ma questo avrebbe rimesso in pari il rapporto tra le parti garantendo a tutti il diritto di organizzazione. Se la posizione di uguaglianza imprenditore-operaio doveva esistere per la nascita e la crescita dell’industria, non era più possibile l’uguaglianza dove erano nate organizzazioni sindacali di vario genere che spostavano l’equilibrio tutto verso i lavoratori.
L’imprenditore era stato lasciato solo, infatti, a fronteggiare il costo della lotta, mentre i suoi dipendenti potevano contare sulle forme concrete di solidarietà garantite dalle loro organizzazioni e procrastinare la loro astensione dal lavoro finché la controparte fosse stata costretta a cedere, mentre il datore di lavoro era costretto a girare le commesse, o a vedersele girare, ad altri imprenditori anche esteri.
Lo stabilirsi di una parità di contrattazione, avrebbe potuto portare ad un nuovo equilibrio della contrattazione collettiva in un momento in cui le masse avevano assunto la parvenza di una società tendente ad essere turbolenta.
Nel tempo, però, divenne arduo per gli industriali contrastare le manovre del governo tanto come quelle sindacali.
Giolitti nel 1911 aveva attuato una riforma tra le più ardite, sostenuta dal radicalismo del suo ministro per l’Agricoltura, industria e commercio Francesco Saverio Nitti. Si trattava del progetto di monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, ideato con il duplice fine di provvedere all’assistenza pensionistica dei lavoratori, e di munire l’operatore pubblico di un possente volano finanziario volto a moltiplicare la sua dotazione d’intervento. Per gli imprenditori si trattava di un “esproprio senza indennità, un precedente grave per tutte le attività che si fondano sul principio della proprietà privata”.
Il timore era infatti che, sul più bello che un’azienda prosperava, arrivasse lo Stato a toglierle il frutto del lavoro, ma anche dell’ingegno e dell’energia, dato che i contributi per l’assicurazione li gestivano privatamente e date le molte compagnie assicurative private.
La proposta di legge venne poi ridimensionata, e non venne istituito nessun monopolio, ma il fatto resta testimone dell’acceso dibattito del momento. Si prospettavano con l’industrializzazione problemi di welfare e la necessità di una serie di interventi che si svilupperanno in quegli anni, circa la garanzia sanitaria, le case popolari eccetera. La concezione statale era tesa ad estendere i benefici a tutti, ma in quel frangente si trattava di espropriare gli imprenditori di quanto avevano autonomamente, e spesso con il governo e il fisco contro, realizzato.
In bilico tra politica e apolitica, si creò allora in Italia il Gruppo industriale parlamentare, che aveva più che altro mansioni di controllo della legislazione economica, in modo che ne traessero vantaggio industria e commercio.
Sottoscrissero l’accordo nomi altisonanti dell’industria come Colombo, Ponti, Pirelli tra i senatori, e Crespi e Marzotto tra i deputati. Tuttavia non bastò per fare diventare incisivo il Gruppo, dal momento che si voleva appunto sorvolare su un’omogeneità politica che di fatto non esisteva.
Nel 1911 la solidità del bilancio dello Stato sembrava consolatoria, in vista di buoni sviluppi futuri del benessere interno e degli investimenti, ma in realtà non si sapeva ancora che di lì a poco si sarebbe rovesciato sul Paese il peso della guerra di Libia.
L’equilibrio dei conti non era un dato che si poteva ascrivere ai politici, inoltre, quanto allo “ininterrotto gettito delle imposte”, il prodotto di una politica fiscale disordinata e perversa, incentrata su aliquote di ricchezza mobile “elevatissime, ignote agli altri popoli civili”, introdotte nel periodo eroico della costruzione dello Stato post-risorgimentale, e non più rimosse in seguito.
Apparivano chiari i limiti e le inefficienze dell’amministrazione statale, dati “dall’imperfetta applicazione delle leggi, dalle dissimulazioni dei contribuenti, da quei compromessi taciti che sono caratteristica non invidiabile del nostro sistema tributario”, si scriveva al tempo. Lo Stato si era dimostrato incapace di avocare a sé una percentuale della ricchezza prodotta al fine di “favorirne ed accrescerne possibilmente l’incremento ulteriore ed elevare così la vita del Paese sotto tutti gli aspetti”.
In quegli anni, non ci furono intese parlamentari in materia di politica finanziaria e fiscale che, infatti, andrà alla deriva fino alla prima guerra mondiale.
Gli industriali, in quel momento, non si dimostravano tanto interessati a questi argomenti di pura politica, ma erano più sensibili alla politica sociale. Infatti, lo Stato si stava trasformando ed aveva iniziato a prendere le proprie diramazioni amministrative verso il mondo degli interessi economici e sociali, vigile alle movimentazioni sindacali delle masse dei lavoratori. Di certo tutto cominciò a cambiare anche grazie al suffragio universale maschile, introdotto nelle elezioni del 1913, che portò molti braccianti a votare e a rovesciare gli equilibri interni alle corporazioni e agli organismi che si erano formati fino ad allora. Poi lo Stato cominciava a voler entrare anche nell’autonomia contrattuale degli imprenditori, piatto troppo appetibile per lasciarlo alle associazioni di categoria e sul quale dimostrò sempre maggiore ingerenza, anche se spesso incompetente e incompleta.
Liberismo, guerra e dopoguerra
Con lo scoppio della prima guerra mondiale, il concetto liberista venne duramente attaccato e portò, dopo la riorganizzazione della Lega degli industriali con ancora sottoscrittori illustri, ad altre evoluzioni fino alla nascita di Confindustria.
Intanto si cominciò a far strada un’idea nazionalista che, con l’ingresso in guerra dell’Italia, “avrebbe avuto la meglio sulle vecchie ortodossie liberal-liberistiche fin da subito”. La guerra doveva essere la fine della stagione liberista, improntata sul tollerante “lasciar fare” e, invece, l’inizio degli stretti legami tra imprenditoria e interessi dello Stato.
Anche coloro che avevano temuto l’urto rivoluzionario della guerra, soprattutto dopo la rivoluzione russa, si adeguavano ai tempi e sottoscrivevano progetti di intesa triangolare tra Stato, imprenditori e movimento sindacale, che avrebbero completamente dissolto quanto restava dell’ordinamento liberale.
Nell’estate del 1917, la Confederazione dell’Industria guardava già avanti, al periodo postbellico: lo faceva ottimista sulla fine del conflitto, ma esprimendo un certo inconsueto grado di lungimiranza imprenditoriale; si pensava già alla riconversione, infatti, agli esuberi di forza lavoro e alla scarsità di materie prime. Pensava soprattutto ad una maggiore rappresentatività negli organismi di governo, o comunque decisionali, per avere potere dove poteva contare la voce degli imprenditori. Alla fine del conflitto, molti puntarono a portare gli industriali al governo, infatti.
I liberisti avevano visto la fine, era ora di sostituirli con gente pratica e capace, che avesse dimostrato la propria abilità nella gestione della propria azienda e che quindi si potesse pensare capace di gestire la cosa pubblica.
Nacque così, con l’elaborazione di nuovi prospetti di attività e con il coinvolgimento dello Stato, la Confindustria, cioè la Confederazione generale dell’industria, capace di diventare unione di tutti gli industriali.
L’atto venne firmato nel 1919 a Roma, alla presenza di seimila delegati di industriali. Confindustria riuniva le due vocazioni storiche della rappresentanza imprenditoriale, cioè la tutela economica e quella sindacale, abbinandole in una organizzazione che doveva essere capace di regolare l’azione degli industriali “sia in rapporto alla economia nazionale, sia in rapporto alle questioni sociali”.
I fasci appena costituitisi nel 1919 milanese, intanto, applaudivano l’eroicità dei lavoratori di Dalmine che avevano occupato le fabbriche e i lavoratori di Pavia che avevano proclamato lo sciopero generale.
Benito Mussolini ebbe a scrivere, nel giugno 1919: “Le casse sono vuote. Chi deve riempirle? Noi forse? Noi che non possediamo case, automobili, banche, miniere, terre, fabbriche, banconote? Chi può deve pagare! Chi può deve sborsare! Non si liquida la situazione spaventosa del dopoguerra se non si ricorre a misure radicali. A mali estremi rimedi eroici. Nel momento attuale quello che proponiamo è l’espropriazione fiscale. Delle due l’una: o i beati possidenti si autoesproprieranno e allora non vi saranno crisi violente […], o saranno ciechi, sordi, tirchi, cinici, e allora noi convoglieremo le masse dei combattenti contro questi ostacoli e li travolgeremo. È l’ora dei sacrifici per tutti, chi non ha dato il sangue dia il denaro. Chi ha malamente impinguato i forzieri, li vuoti, in nome e nell’interesse superiore della collettività nazionale”. Pochi giorni dopo iniziarono a Genova le proteste contro il caro vita, con assalti dei negozi e saccheggi, e furono assassinate delle persone.
Il 4 luglio 1919, da Milano, il Comitato centrale dei Fasci di combattimento espresse illimitata solidarietà con il popolo insorto contro chi lo aveva affamato e plaudì la requisizione popolare, intimando ai fascisti di sostenere le manifestazioni.
Nell’inverno del 1920, la perdita economica statale per il prezzo politico del pane era arrivata a 500 milioni di lire al mese, somma che rappresentava poco meno della metà di tutte le entrate effettive dello Stato. L’inflazione non si arrestava e nemmeno la svalutazione monetaria. Il presidente del Consiglio Saverio Nitti aveva presentato una proposta di legge per aumentare il prezzo del pane, ma questa causò agitazioni e proteste tali che il ministero cadde.
Grazie a Giolitti, erano tornate attuali le vecchie tattiche politiche della non interferenza dell’autorità pubblica nelle lotte operaie, e la reazione degli imprenditori a quella strategia fu quasi immediata. Soltanto a pochi giorni dall’inizio delle occupazioni delle fabbriche, si parlava già di rivoluzione iniziata e gli industriali cominciavano a vedere come potersi difendere, opponendo una “guardia bianca” alla “guardia rossa” che presidiava gli impianti.
Il 10 settembre 1920 venne recapitato un telegramma al Presidente del Consiglio con il quale gli imprenditori denunciavano “l’assenteismo completo del governo” che tacciavano di “connivenza con i violatori del diritto”. Era evidente la sfiducia totale nella capacità delle istituzioni di far valere la legge, e la minaccia di iniziative per la loro difesa diretta, a fronte delle pesanti imposte che servivano anche alle spese dell’apparato dello Stato.
Giolitti, vecchio uomo di governo, abile mediatore, ottenne il ritorno alla normalità dopo una lunga e logorante occupazione delle fabbriche sì, ma apparendo come il nemico della classe degli imprenditori, ben più che degli operai, la cui agitazione era destinata comunque prima o poi a rifluire da sola riportandoli alla normalità della famiglia e del salario anche senza l’intervento del governo, mentre nei confronti degli industriali aveva attuato un comportamento da atto forza, di controllo.
L’occupazione finì con l’impegno del governo di presentare un disegno di legge per sanzionare gli operai, tuttavia, dato appunto che non sembrava possibile che ci fosse una così grande prevaricazione dei comportamenti dei lavoratori, spesso aggressivi e colpevoli di atti dolosi nei confronti dell’azienda stessa che occupavano.
Molti erano convinti che una rivoluzione ci fosse stata, dal momento che la direzione d’impresa era stata assoggettata a un vincolo esterno all’ordinamento capitalistico.
Gli operai avevano esibito molto potere davanti ad una borghesia quasi inerme, anche se gli osservatori accorti avevano visto la graduale disgregazione dei sindacati davanti a forti defezioni operaie, stanchi com’erano dell’occupazione lontani dalle famiglie. Tanto che non si era vista la reale vittoria ottenuta: sembravano tutti sfibrati da un lento processo che non pareva ancora finito. Gli industriali accettarono l’accordo come se vi fossero stati condannati e apparvero provati dalle lunghe trattative, quasi mai lineari. Questo fece sì, però, che mettessero in atto una vera controffensiva nel febbraio del 1921.
Scriverà Antonio Stefano Benni, presidente della Confindustria nel 1929: “Quando il fascismo, creato da Benito Mussolini, fece la sua prima apparizione in Italia questa versava in ben tristi condizioni. L’autorità dello Stato appariva depressa al massimo grado; la vita pubblica era in balia delle innumerevoli fazioni politiche o appartenenti ai partiti estremi, o quanto meno, ligie a tali partiti e facenti a gara per ingraziarseli; le masse, ubriacate dalla propaganda sovversiva, addimostravansi indisciplinate al massimo grado ed insofferenti del lavoro; le classi dirigenti della produzione, a loro volta, apparivano del tutto disorientate, invase dalla sfiducia, quasi desiderose di sottrarsi all’arduo compito che incombeva loro per la ricostruzione economica del Paese. Contro tutto questo insieme di debolezze, di ignavie, di disorientamenti, di perversioni, il fascismo pose arditamente la sua volontà di riscossa, facendo leva sulle nuove generazioni: sui reduci dalle trincee e sui giovanissimi che avevano formato il loro spirito nell’atmosfera eroica della guerra”.
La svolta economica dal 1921
Il 1921 divenne l’anno della reazione agraria e industriale contro i partiti e le organizzazioni di sinistra; l’anno dello squadrismo “finanziato” dai capitalisti. Non si seppe mai con precisione in che misura gli industriali e i possidenti agrari avessero finanziato il partito, la stampa, la milizia e i dirigenti fascisti, perché spesso le donazioni liberali non venivano registrate nei bilanci, ma da quell’anno il fascismo poté disporre di molti mezzi economici per poter gestire la propria politica.
Nel 1921 gli scioperi cominciarono a diminuire. Dalle 18.887.917 giornate di lavoro perdute per sciopero del 1919 si passò a soltanto 7.772.870 del 1921: il clima di ritrovata serenità e la distanza da una guerra devastante, avevano fatto sì che tutto tendesse a tornare alla normalità. Ivanoe Bonomi nel 1924 scrisse: “Lo Stato corse un pericolo mortale nel travagliato biennio 1919-1920, quando la reazione alla guerra si incontrò con l’esaltazione bolscevica e con la delusione della pace”, tuttavia fu il deputato Giacomo Matteotti a fare notare che il risanamento dei conti pubblici non era dovuto alla bravura del primo anno di governo fascista, come si volle far credere per il 1922-23, quanto a 12 miliardi in meno di spese straordinarie di guerra e di approvvigionamenti che erano stati caricati nell’anno precedente. L’ammontare e l’effetto delle spese di guerra sul bilancio dello Stato venne accertato come impatto finanziario soltanto anni dopo. Lo stesso deputato Matteotti continuò la sua analisi sottolineando che, se l’inizio della tornata di scioperi che fu poi chiamata Biennio Rosso, era dovuto all’occupazione delle fabbriche con la conseguente paura della rivoluzione bolscevica negli imprenditori, questa stava a poco a poco implodendo e non poteva più essere addotta come scusa. Nel frattempo, però, gli industriali avevano iniziato a spalleggiare il movimento fascista e a finanziarlo, portandolo al governo proprio agitando lo spettro rivoluzionario bolscevico che, forse, non esisteva già più o che comunque non era così forte come si voleva far credere nel 1921.
Il risanamento delle casse dello Stato venne comunque pagato dai contribuenti. Il bilancio statale passò da 9.676 milioni nel 1918-19 a 15.207 milioni nel 1919-20, quindi a 18.820 milioni nel 1920-21 e a 19.701 milioni nel 1921-22. Giolitti abolì il prezzo politico del pane nel febbraio del 1921, quindi si misero le basi per il risanamento finanziario. La minore circolazione monetaria e il miglioramento dei bilanci fece fermare la svalutazione della lira. L’indice dei prezzi al consumo, partendo dalla base 100 del 1913, passò da 413 del 1918 a 545 nel 1922.
Continuava nel frattempo la riconversione industriale, soprattutto del comparto metallurgico e siderurgico.
Dal punto di vista della produzione bresciana, con conseguente pagamento delle tasse sulla birra, ecco l’andamento produttivo di quel periodo della sola fabbrica bresciana, confrontato con quelli precedenti:
anno di riferimento produzione di birra in ettolitri
1899-1900 3.112
1903-1904 4.950
1905-1906 7.009
1907-1908 12.733
1909-1910 13.904
1910-1911 15.826
1912-1913 23.689
Durante la prima guerra mondiale, la fabbrica di birra di Brescia ebbe la commessa per la fornitura della birra alle truppe inglesi. Al termine del conflitto, i dati produttivi si possono così riassumere:
anno di riferimento produzione di birra in ettolitri
1918 24.900
1919 44.819
1920 56.407
1921 74.952
A Brescia era stata impiantata anche la malteria.
“Le ultime statistiche, prima della guerra, danno una importazione media di 160 mila quintali di malto in Italia; oggi con le nuove terre redente, e la aumentata produzione di birra, il fabbisogno si prevede in circa 250 mila quintali. Il prezzo pagato all’estero è di circa 250 lire il quintale, come base. I fabbricanti di birra italiani pagano all’estero 65 milioni di lire annue, per acquisto di una merce che potrebbe essere interamente prodotta nel Regno. L’Italia ha una produzione di orzo di quintali 400 mila annui, ed in pochi anni di sana propaganda potrebbe, perfezionando il prodotto, fornire le migliori qualità atte alla fabbricazione della birra”.
Oltre ai vincoli produttivi, gli imprenditori del settore lamentavano ancora l’eccessiva tassazione che, invece di fare decollare un’industria importante per il benessere del Paese, che forniva lavoro a molti operai, la tartassava letteralmente.
I dati sull’andamento della produzione di birra sul territorio nazionale possono riassumersi così: nel 1880 le fabbriche italiane erano 132 e la produzione ammontava a 116.216 ettolitri, nel periodo 1914/1915 le fabbriche erano 76 con 525.601 ettolitri prodotti, per passare a 62 ditte produttrici dopo la guerra, nel biennio 1920/21, con 1.157.025 ettolitri di birra prodotti. L’utilizzo dei macchinari avvantaggiava le grandi aziende rispetto ai piccoli produttori artigianali.
Negli anni Venti, il capitale necessario per impiantare uno stabilimento birrario superava i duecento milioni di lire, con una potenzialità di produzione intorno al milione e trecentomila ettolitri. Le acquisizioni del dopoguerra, con l’ingresso in Italia degli impianti prima austriaci, aumentavano la potenzialità produttiva di quattrocentomila ettolitri. Il consumo medio di birra italiano era di 5,5 litri pro capite, che arrivava a 8 nel Veneto e a 7 in Lombardia, mentre nel Centro-Sud si attestava intorno a un litro, contro i 125 della Germania. L’esportazione era passata da 234 ettolitri nel 1905 a 21.366 ettolitri nel 1915, 18.026 nel 1916, 2.983 nel 1918, per tornare a 11.404 nel 1922.
Bisogna tenere presente che le esportazioni andavano anche verso i territori coloniali dell’Africa Orientale ed Occidentale, pur se spesso esse trovavano più conveniente approvvigionarsi altrove a minor prezzo.
Produzione industriale e alcolismo
I cambiamenti di cui abbiamo scritto, se da un lato erano forieri di buone cose per i ceti meno abbienti, come la riduzione dell’orario di lavoro giornaliero, l’introduzione della giornata di riposo individuata nella domenica, eccetera, dall’altro lato portavano molta gente a non sapere come occupare tutto il tempo che aveva a disposizione.
Era evidente a tutti in quegli anni, infatti, che l’unico svago per i più poveri, dopo una massacrante giornata di lavoro, fosse andare all’osteria e annegare una vita di stenti nel bicchiere, spesso di scadente vino. La stessa giornata decretata al riposo, così una grande conquista, era diventata la croce di molte famiglie.
A questa crisi sociale avevano dato risposta organizzazioni come la U.O.E.I., con la prima assemblea tenutasi il 14 luglio del 1912.
Il giornale “La Provincia di Brescia” lamentava, nel 1922, l’eccessivo numero in città di case da gioco, la pessima abitudine nelle osterie di tenere troppo alto il prezzo del vino, la continua apertura di “bars dove il pubblico, novello Mitridate, si avvezza a sopportare con un graduale allenamento quel tanto di bevande alcoliche o eccitanti che, prese di colpo da un uomo abitualmente sobrio, lo ridurrebbero in ben tristi condizioni”, oltre al pullulare di sale da ballo galeotte di incontri poco garantisti dell’igiene sia per il respiro di aria resa insana dalla tubercolosi, sia per la diffusione di malattie veneree per comportamenti poco ortodossi. La tassazione sugli alcolici, e sulla birra in particolare, veniva spesso giustificata con la necessità di porre un freno all’abuso dei consumi, unico modo ritenuto valido, ed anche conveniente, per arginare una vera piaga sociale. Quindi divennero necessarie delle prese di posizione scientifiche sul reale danno causato dai beveraggi, oltre a sottolinearne le bontà in contenuti.
Il professor Giuseppe Seppilli, direttore del Manicomio di Brescia, affermava: “La lotta antialcolica che da parecchi anni si va combattendo da noi ha preso di mira due tra le bevande alcoliche il di cui abuso genera i mali infiniti dell’alcolismo e cioè il vino e i liquori. Le misure legislative richieste e proposte dagli antialcolisti furono dirette a regolare il consumo del vino e dei liquori onde frenarne l’abuso. Riteniamo anzi […] che da noi più che alle bevande alcoliche distillate, si debba all’abuso del vino e cioè al vinismo od etilismo la causa principale dell’alcolismo. Non possiamo altrettanto dire della birra, la bevanda nazionale dei popoli nordici, la quale oltre ad essere una bevanda di ricchezza alcolica debolissima riesce delicata al palato, tonica per lo stomaco e discretamente nutritiva per lo zucchero e la destrina e per le sostanze azotate che contiene. La birra viene non di rado usata dai medici come tonico e ricostituente in luogo del vino e degli alcolici in genere e da qualcuno le venne riconosciuto una valore alimentare accessivo. Mentre il consumo medio annuo delle bevande alcoliche distillate (acquavite e liquori) si calcola giunga in Italia ad un litro e mezzo per abitante, quello della birra non giunge ad un litro per abitante e quello del vino negli ultimi anni avanti la guerra [la prima guerra mondiale, N.d.A.] a 140 litri per abitante […] Nella mia lunga esperienza, ho osservato moltissimi casi di alcolismo da abuso di vino, parecchi da uso smodato di vino e di liquori, ma nessuno di birra. Perciò questa bevanda alcolica, almeno da noi, non rappresenta un pericolo alla pubblica salute e non dovrebbe andar soggetta alle stesse misure restrittive che invece si richiedono pel vino e pei liquori di cui lamentiamo l’abuso”.
Il professore Giuseppe Seppilli, commendatore, era stato il fondatore dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale nel 1894. Era considerato uno dei luminari della branca medica relativa alle malattie mentali.
Il professor Domenico Linguerri, Primario del Manicomio San Clemente di Venezia, al l’8 novembre 1923, riguardo al problema dell’alcolismo dovuto al vino o alla birra, sostenne senza ombra di dubbio che il caso fosse meritevole di discussione, perché, se la piaga dell’alcolismo doveva essere senz’altro combattuta soprattutto con un sistema integrato di educazione che sostenesse la “elevazione delle classi più povere”, oltre che con provvedimenti legislativi che portassero alla soluzione dei problemi della classe operaia, uno di questi quello della casa, bisognava anche approfondire il tema delle assunzioni di bevande alcoliche.
Anche per Linguerri la bassa gradazione alcolica della birra la rendeva meno pericolosa rispetto a bevande a contenuto alcolico più elevato: “è ovvio che, essendo approssimativamente il tasso alcolico della birra circa del tre per cento e del vino comune del 9-10 per cento, per introdurre nell’organismo la stessa quantità di alcol, occorre ingerire una quantità tripla di birra in confronto del vino, e con effetti tossici attenuanti per effetti della diluizione e del maggior tempo impiegato nella ingestione. […] Inoltre la birra è il liquido fermentato che forse meno si presta alle sofisticazioni, perché, se non è preparata secondo le norme prescritte, acquista un sapore disgustoso facilmente rilevabile, che la fa respingere anche dai più ottusi palati: non contiene poi quegli alcoli secondari, che maggiormente contribuiscono all’alcolismo perché l’aggiunta di qualsiasi alcol, oltre alterare il sapore, ne aumenterebbe di troppo il costo. D’altra parte la birra è un liquido pregevole per le sue qualità nutritive, perché contiene il 6-8 per cento di destrina, zucchero, albumina vegetale […] ed è poi più facilmente tollerata dallo stomaco delle altre bevande e per ciò consigliata dai medici in parecchie malattie in luogo del vino e dei alcolici in genere […] per la quantità dei fosfati e della potassa che contiene influirebbe favorevolmente sulla formazione del sangue e sull’accrescimento dei tessuti. Complessivamente dunque […] la birra deve considerarsi non solo assai meno dannosa degli altri liquidi alcolici all’organismo in genere, al sistema nervoso in ispecie, ma consigliabile, in quantità moderata, per le sue buone qualità a preferenza della altre bevande, anche se non sofisticate. Di ciò, io credo, la legge avrebbe potuto tener calcolo e, nella sua severità, non colpire il consumo della birra alla stessa stregua degli altri alcolici”.
Un altro ampio parere medico sull’uso della birra, lo diede il professor Ottorino Rossi, direttore della Regia Università Clinica delle malattie nervose e mentali di Sassari, che affermava: “La persuasione che la campagna antialcolista, suscitata da giuste preoccupazioni sanitarie e sociali, venga condotta troppo spesso con soverchia rigidità è nella mia mente da parecchio tempo”.
Rossi aveva tenuto conferenze e lezioni universitarie anche su questo argomento, illustrando le cause dell’avvelenamento del sangue di origine esogena; il professore temeva manipolazioni od usi poco ortodossi del suo emerito parere, che potevano inficiarne la validità scientifica, tuttavia aveva deciso di scriverlo chiaramente “per cercare di mitigare il quacquerismo di alcuni antialcolisti che, con la loro eccessività, minacciano di recare più danno che vantaggio alla causa della quale pretendono di essere i soli, i veri difensori, additando i più ragionevoli come una specie temibile di frodatori che sotto la bandiera dell’uso cercano di far passare il contrabbando dell’abuso”. E aggiunse: “Ho anche pensato che lo studioso non può rifiutare il concorso del suo parere all’industria quando questa lo richieda con franchezza, per seguirne le conclusioni, e per usarne eventualmente come di arma legittima e leale di difesa”. Quindi il professore, esprimendo il suo parere con una dissertazione scientifica operata su più punti, affermava che “A mio modo di vedere l’introduzione di vino leggiero, o di birra, distribuita nella giornata in tale quantità da corrispondere a 30-40 grammi di alcol etilico, per una persona adulta, di peso medio, non reca danno. […]”. Tuttavia, il professore non taceva le ricerche soprattutto tedesche che miravano a trovare la tossicità anche nella birra, dato che in Germania si riteneva che anche piccole quantità di alcol disturbassero i processi psichici, con scadimento del lavoro mentale e muscolare, ma ne contestava la validità scientifica per il pessimo modo con il quale erano state condotte. Anch’egli, poi, citava come la scarsa gradazione alcolica della birra fosse poco atta a creare alcolismo, oltre al fatto che la birra contiene solo alcol etilico, non tossico, come provato dalla Commissione reale belga, a differenza dei distillati che aggiungono alcol propilico, butilico, metilico, aldeidi, eteri, acetone, piridina, furfurol, dovuti proprio al metodo di fabbricazione.
Ottorino Rossi citava anche come la pessima idea del “regime secco” statunitense attuata con il Volstead Act non fosse senza inconvenienti. Perciò, per eminenti studiosi, la birra era meno se non affatto nociva, difficile da alterare, utile al fabbisogno dell’adulto, con scarsa quantità di alcol e pochissime qualità di alcoli, ricca di sostanze nutritive positive. Per quanto riguardava i più giovani, le misure consigliate non dovevano “essere estese ai fanciulli neppure in misura proporzionale. Fino all’età di quindici anni all’incirca si dovrebbe proscrivere assolutamente l’uso delle bevande alcoliche perché esse riescono nocive anche in piccole quantità”.
In Italia si guarderà ai provvedimenti statunitensi per capire se fossero valevoli, ma il pessimo risultato non solo in termini sociali e criminali, ma anche per le casse dello Stato, rese evidente che proibire era senz’altro peggio che educare al consumo consapevole, sia per il consumatore che per l’erario.
Conclusioni
Senz’altro la questione del controllo statale di alcune abitudini private è basilare tanto quanto controversa, soprattutto riguardo al guadagno che ne deriva per le casse dello Stato stesso.
Negli U.S.A. impiegarono anni per recuperare il danno erariale che era stato ottenuto per legge con il proibizionismo, rendendosi conto che il finanziamento della seconda guerra mondiale sarebbe stato possibile solo se derivava dal consumo di alcolici, ad esempio. Tuttavia, il divieto totale di produrre, vendere e consumare alcolici aveva creato molti più danni di quelli che si cercava di evitare. Una lezione senz’altro fondamentale, dalla quale nessuno si può esimere, in un dibattito di certo non destinato a chiudersi con un rapido excursus storico.
*Alessia Biasiolo. Membro Associato al CESVAM, Socia della Federazione di Ancona. è componente del Collegio degli Scrittori della Rivista QUADERNI. Fa parte del Comitato di redazione della Periodico dell’Istituto del nastro Azzurro.